[10] Quicumque beatus esse constituet, unum esse bonum putet quod honestum est; nam si ullum aliud existimat, primum male de providentia iudicat, quia multa incommoda iustis viris accidunt, et quia quidquid nobis dedit breve est et exiguum si compares mundi totius aevo. [11] Ex hac deploratione nascitur ut ingrati divinorum interpretes simus: querimur quod non semper, quod et pauca nobis et incerta et abitura contingant. Inde est quod nec vivere nec mori volumus: vitae nos odium tenet, timor mortis. Natat omne consilium nec implere nos ulla felicitas potest. Causa autem est quod non pervenimus ad illud bonum immensum et insuperabile ubi necesse est resistat voluntas nostra quia ultra summum non est locus. [12] Quaeris quare virtus nullo egeat? Praesentibus gaudet, non concupiscit absentia; nihil non illi magnum est quod satis. Ab hoc discede iudicio: non pietas constabit, non fides, multa enim utramque praestare cupienti patienda sunt ex iis quae mala vocantur, multa impendenda ex iis quibus indulgemus tamquam bonis. [13] Perit fortitudo, quae periculum facere debet sui; perit magnanimitas, quae non potest eminere nisi omnia velut minuta contempsit quae pro maximis vulgus optat; perit gratia et relatio gratiae si timemus laborem, si quicquam pretiosius fide novimus, si non optima spectamus.
Se uno vuole essere felice, si convinca che l'unico bene è la virtù; se pensa che ce ne sia qualche altro, prima di tutto giudica male la provvidenza, perché agli uomini onesti capitano molte disgrazie e perché tutti i beni che essa ci ha concesso sono insignificanti e di breve durata, se paragonati all'età dell'universo.
Conseguenza di questi lamenti è che non manifestiamo gratitudine per i benefici divini: deploriamo che non ci capitino sempre, che siano scarsi, incerti e caduchi. Ne deriva che non vogliamo vivere, né morire: odiamo la vita, temiamo la morte. Ogni nostro disegno è incerto e non siamo mai pienamente felici. Il motivo? Non siamo arrivati a quel bene immenso e insuperabile dove la nostra volontà necessariamente si arresta: oltre la vetta non c'è niente.
Chiedi perché la virtù non provi nessun bisogno? Gode di quello che ha, non desidera quello che le manca; per essa è grande quanto le basta. Abbandona questo criterio e verranno a cadere il sentimento religioso, la lealtà: chi vuole mantenere l'uno e l'altra deve sopportare molti dei cosiddetti mali, rinunciare a molte cose di cui si compiace come se fossero beni.
Scompare la forza d'animo, che deve mettere se stessa alla prova; scompare la magnanimità, che non può emergere se non disprezza come cose di poco conto tutti quei beni che la massa desidera e tiene nella massima considerazione; scompaiono la gratitudine e i rapporti di gratitudine, se temiamo la fatica, se pensiamo che ci sia qualcosa di più prezioso della lealtà, se non miriamo al meglio.
Chi decida di essere felice, deve riconoscere che l'unico bene è l'onestà; se infatti ritiene che ce ne sia qualcun altro, innanzitutto giudica male la provvidenza, visto che agli uomini giusti capitano molte difficoltà, e inoltre tutto ciò che essa ci ha concesso è breve e insignificante, se lo paragoni alla durata dell'intero universo. Da questa insoddisfazione nasce il nostro essere interpreti ingrati delle cose divine: lamentiamo che raramente ci toccano beni e che sono pochi e incerti ed effimeri.
È da qui che viene il nostro non voler vivere ma neppure morire: l'insofferenza per la vita, ma anche la paura della morte, ci paralizza. Ogni proposito ondeggia, nessuna felicità piena ci è possibile. Ma la causa è che non abbiamo raggiunto quel bene non misurabile e oltre il quale non c'è nulla, dove la nostra volontà non può fare altro che fermarsi, perché più su della vetta non vi è altro luogo.
Chiedi perché la virtù non ha bisogno di nulla? Gode di ciò che c'è, non desidera ciò che non c'è; per essa è grande ciò che le basta. Abbandona questa convinzione, e verrà meno il rispetto, la rettitudine; chi desidera l'uno e l'altra, infatti, deve sopportare molti di quelli che si definiscono 'mali'; deve sacrificare molti dei piaceri cui indulgiamo come fossero beni reali.
Scompare la forza d'animo, che deve mettersi alla prova; scompare la grandezza d'animo, che non può risplendere, se non disprezza come insignificanti tutte le cose che la massa desidera come i beni più grandi; scompare la riconoscenza, e la manifestazione della riconoscenza, se temiamo la fatica, se conosciamo qualcosa di più prezioso della rettitudine, se non guardiamo fisso al sommo bene.Il Seneca tanto auspicato ha fatto la sua epifania sul web in tempo reale (alle 8.23) anche quest'anno. Si tratta del Seneca più letto, quello delle splendide Lettere a Lucilio; l'epistola scelta, la numero 74 (10-13), è paradigmatica del suo stile 'nervoso', 'drammatico': frasi brevi, uso copioso dell'anafora, il participio futuro 'assoluto' dal verbo sum (abitura), per 'concentrare il massimo di significato nel minimo di parole' (Traina); e infine quel 'tu', ch'è sì il narratario Lucilio, ma soprattutto Seneca stesso, e i lettori reali, cioè noi, che mai abbiamo smesso di amarlo. Nessuna difficoltà, dunque, neppure per quella litote del pronome negativo (nihil non), anch'essa peculiarità stilistica, che intensifica l'affermazione e, 'sommandosi all'anafora, […] traduce l'ebbrezza intellettuale del sapiens che trionfa del tempo nel pensiero' (Traina). Insomma, il brano proposto è un bel condensato dello stile e del pensiero senecani, con i quali tutti gli studenti del liceo classico hanno sicura familiarità. Così, è forse superfluo ricordare l'adesione di Seneca alla filosofia stoica, di cui egli è il più grande esponente romano; come lo è parlare della sua vita tormentata, vissuta nell'estenuante tentativo di declinare la morale con la politica. Quanto scrive a Lucilio, è frutto della sua esperienza diretta, viene dal fallimento di questo tentativo; la realtà è che virtù e potere sono ossimorici. Seneca ne prende atto, dolorosamente, e alla fine rinuncia all'enorme potere, di cui pure godeva, per tentare di raggiungere quella 'vetta', oltre la quale non est locus, e sulla quale ci attende l'umiltà e la libertà di essere noi stessi. Un'altra lezione preziosa che ci viene dai classici, dalla cultura: che non si mangia, è vero, ma rende liberi.] Il Seneca tanto auspicato ha fatto la sua epifania sul web in tempo reale (alle 8.23) anche quest'anno. Si tratta del Seneca più letto, quello delle splendide Lettere a Lucilio; l'epistola scelta, la numero 74 (10-13), è paradigmatica del suo stile 'nervoso', 'drammatico': frasi brevi, uso copioso dell'anafora, il participio futuro 'assoluto' dal verbo sum (abitura), per 'concentrare il massimo di significato nel minimo di parole' (Traina); e infine quel 'tu', ch'è sì il narratario Lucilio, ma soprattutto Seneca stesso, e i lettori reali, cioè noi, che mai abbiamo smesso di amarlo. Nessuna difficoltà, dunque, neppure per quella litote del pronome negativo (nihil non), anch'essa peculiarità stilistica, che intensifica l'affermazione e, 'sommandosi all'anafora, […] traduce l'ebbrezza intellettuale del sapiens che trionfa del tempo nel pensiero' (Traina).
Insomma, il brano proposto è un bel condensato dello stile e del pensiero senecani, con i quali tutti gli studenti del liceo classico hanno sicura familiarità. Così, è forse superfluo ricordare l'adesione di Seneca alla filosofia stoica, di cui egli è il più grande esponente romano; come lo è parlare della sua vita tormentata, vissuta nell'estenuante tentativo di declinare la morale con la politica. Quanto scrive a Lucilio, è frutto della sua esperienza diretta, viene dal fallimento di questo tentativo; la realtà è che virtù e potere sono ossimorici. Seneca ne prende atto, dolorosamente, e alla fine rinuncia all'enorme potere, di cui pure godeva, per tentare di raggiungere quella 'vetta', oltre la quale non est locus, e sulla quale ci attende l'umiltà e la libertà di essere noi stessi. Un'altra lezione preziosa che ci viene dai classici, dalla cultura: che non si mangia, è vero, ma rende liberi.
Chiunque avrà intenzione di essere felice, dovrà pensare che l'unico bene è ciò che è onesto; infatti se egli pensa che esso sia qualcosa altro, innanzitutto pensa male a proposito della provvidenza, poiché molte avversità capitano anche agli uomini giusti e poiché tutto ciò che essa ci ha donato è di breve momento e di scarso valore se lo si paragoni alla durata dell'intero universo.
Da questa lamentela consegue che noi siamo interpreti non riconoscenti dei disegni divini: ci lamentiamo del fatto che ci tocchino e, non per sempre poche cose, instabili e destinate a svanire. Ne risulta che non desideriamo né vivere né morire: ci opprime l'odio della vita, il timore della morte.
È ondeggiante ogni decisione, non può appagarci alcuna felicità. Del resto la causa prima di tutto ciò è il fatto che non siamo giunti a quel bene immenso e insuperabile in cui è necessario che si arresti la nostra volontà, poiché oltre la sommità non c'è altro luogo.
Mi chiedi forse, o mio Lucilio, per quale motivo la virtù non ha bisogno di nulla. Essa gode dei beni presenti, non brama quelli assenti; per la virtù è grande ciò che è abbastanza.Allontanati, dunque, da questa opinione: non rimarrà salda la pietas, né la fides; infatti da parte di colui che desidera dare prova di entrambe devono essere sopportati molti tra quelli che sono chiamati mali, devono essere gettati via molti di quelli ai quali ci dedichiamo come se fossero beni. Scompare la forza d'animo, che deve fare prova di sé; scompare la grandezza d'animo, che non può emergere nella vita se non ha prima disprezzato come insignificante tutto ciò che il volgo desidera in luogo di ciò che è realmente importante; scompare la gratitudine e la testimonianza della gratitudine se abbiamo timore di affrontare la fatica, se nella vita riconosciamo qualcosa di più prezioso della lealtà, se non guardiamo verso i beni maggiori.
Chiunque deciderà di essere felice, ritenga che l'unico bene è ciò che è onesto; infatti, se ha un'opinione diversa, in primo luogo esprime un giudizio erroneo relativamente alla provvidenza, poiché molte disgrazie accadono agli uomini giusti e poiché qualunque cosa la provvidenza ci abbia dato è breve ed inconsistente se tu la confronti con l'eternità dell'universo.
Da questo lamento consegue il fatto che siamo ingrati interpreti delle cose divine: ci lamentiamo del fatto che non sempre le cose ci accadano o che ci accadano poche cose, incerte e destinate a svanire. Da ciò deriva il fatto che non vogliamo né vivere né morire: ci domina l'odio nei confronti della vita, il timore per la morte.
Ogni progetto vacilla, nessuna felicità può riempirci. D'altra parte ne è causa il fatto che non siamo giunti a quel bene immenso e insuperabile presso il quale è necessario che la nostra volontà si arresti dato che non vi è un luogo oltre le vette. Chiedi perché la virtù non abbia bisogno di nulla? Gode di ciò che è presente, non brama ciò che è assente; è grande per lei tutto ciò che le basta. Allontanati da questo giudizio: non resterà saldo il senso del dovere, non resterà salda la lealtà; infatti colui che desidera conservare entrambi questi valori deve subire molti tra quelli che vengono chiamati mali, deve sacrificare molti tra quelli che noi assecondiamo come beni.
Svanisce la fortezza d'animo che deve mettere alla prova se stessa; svanisce la magnanimità che non può emergere se non ha disprezzato come piccole tutte le cose che il volgo desidera come se fossero le più grandi; svaniscono la riconoscenza e la dimostrazione di riconoscenza, se temiamo la fatica, se concepiamo qualcosa di più prezioso della lealtà, se non ci proponiamo gli scopi più elevati.