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Progetto
Ovidio - database
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Livio
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Ab urbe condita V, 20
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originale
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[20] Dictator cum iam in manibus uideret uictoriam esse, urbem opulentissimam capi, tantumque praedae fore quantum non omnibus in unum conlatis ante bellis fuisset, ne quam inde aut militum iram ex malignitate praedae partitae aut inuidiam apud patres ex prodiga largitione caperet, litteras ad senatum misit, deum immortalium benignitate suis consiliis patientia militum Veios iam fore in potestate populi Romani; quid de praeda faciendum censerent? Duae senatum distinebant sententiae, senis P. Licini, quem primum dixisse a filio interrogatum ferunt, edici palam placere populo ut qui particeps esse praedae uellet in castra Veios iret, altera Ap. Claudi, qui largitionem nouam prodigam inaequalem inconsultam arguens, si semel nefas ducerent captam ex hostibus in aerario exhausto bellis pecuniam esse, auctor erat stipendii ex ea pecunia militi numerandi ut eo minus tributi plebes conferret; eius enim doni societatem sensuras aequaliter omnium domos, non auidas in direptiones manus otiosorum urbanorum bellatorum praerepturas fortium praemia esse, cum ita ferme eueniat ut segnior sit praedator ut quisque laboris periculique praecipuam petere partem soleat. Licinius contra suspectam et inuisam semper eam pecuniam fore aiebat, causasque criminum ad plebem, seditionum inde ac legum nouarum praebituram; satius igitur esse reconciliari eo dono plebis animos, exhaustis atque exinanitis tributo tot annorum succurri, et sentire praedae fructum ex eo bello in quo prope consenuerint. Gratius id fore laetiusque quod quisque sua manu ex hoste captum domum rettulerit quam si multiplex alterius arbitrio accipiat. Ipsum dictatorem fugere inuidiam ex eo criminaque; eo delegasse ad senatum; senatum quoque debere reiectam rem ad se permittere plebi ac pati habere quod cuique fors belli dederit. Haec tutior uisa sententia est quae popularem senatum faceret. Edictum itaque est ad praedam Veientem quibus uideretur in castra ad dictatorem proficiscerentur.
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traduzione
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20 Il dittatore si rese conto che ormai la vittoria era a portata di mano: una citt? ricchissima stava per essere conquistata e la preda sarebbe stata enorme, quale non avevano dato tutte le guerre precedenti messe insieme. Di conseguenza, per evitare di incappare nel risentimento dei soldati per una spartizione taccagna del bottino o di suscitare il malcontento dei senatori con una divisione eccessivamente prodiga, scrisse una lettera al Senato nella quale diceva che grazie al favore degli d?i immortali, alla sua condotta strategica, alla costanza dello sforzo da parte delle truppe la citt? di Veio sarebbe presto finita in mano al popolo romano. Che cosa ritenevano si dovesse fare con il bottino? Il senato era diviso tra due diverse risoluzioni. La prima, avanzata dall'anziano Publio Licinio (che, stando alla tradizione, sarebbe stato il primo a parlare su richiesta del figlio), suggeriva di proclamare pubblicamente al popolo che chi avesse voluto partecipare alla spartizione del bottino si sarebbe dovuto recare all'accampamento sotto Veio. L'altra fu sostenuta da Appio Claudio: considerando quell'inedita elargizione eccessiva, avventata, e ineguale, egli riteneva che, se il versare nelle casse dello Stato stremate dalle guerre il denaro sottratto ai nemici veniva considerato un delitto, sarebbe stato consigliabile utilizzare quella enorme somma per il pagamento degli stipendi ai soldati, in maniera tale da alleviare in parte la plebe dalla contribuzione di quella tassa. Con questo sistema tutte le famiglie avrebbero risentito in maniera uguale del beneficio di quell'elargizione, evitando cos? che gli sfaccendati della citt?, abituati com'erano al saccheggio, mettessero le grinfie sui premi destinati ai combattenti valorosi (poich? succede sempre che chi di solito cerca la parte pi? rilevante di pericoli e fatiche poi risulta pi? lento quando si tratta di mettere le mani sulla preda). Licinio sosteneva invece che quel denaro sarebbe sempre stato motivo di sospetti e gelosie, offrendo cos? il destro per accuse di fronte alla plebe, disordini e leggi rivoluzionarie. Sarebbe stato di gran lunga preferibile riconciliarsi con quell'elargizione la simpatia dei plebei, venendo loro in aiuto nello stato di prostrazione e miseria nella quale erano stati trascinati da anni di tassazioni belliche, e offrendo cos? nel contempo l'opportunit? di godere del frutto del bottino fatto in una guerra che li aveva visti quasi diventar vecchi. Per tutti sarebbe stata una gioia ben pi? forte riportarsi a casa ci? che ciascuno di essi aveva strappato con le proprie mani al nemico, piuttosto che ottenere un premio molto pi? grande ad arbitrio di altri. Oltretutto anche il dittatore avrebbe evitato il malcontento e le accuse che ne sarebbero derivate. E per questo aveva rimesso al Senato la decisione. Quindi anche il Senato doveva delegare alla plebe la risoluzione che gli era stata addossata, lasciando cos? che a ciascun combattente restasse ci? che le sorti della guerra potevano aver dato. Questo suggerimento sembr? il pi? sicuro in quanto avrebbe reso popolare il Senato. Perci? venne annunciato che chi avesse voluto prendere parte alla spartizione del bottino di Veio avrebbe dovuto recarsi all'accampamento del dittatore.
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