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Ovidio


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autore
brano
 
Livio
Ab urbe condita V, 21
 
originale
 
[21] Ingens profecta multitudo repleuit castra. Tum dictator auspicato egressus cum edixisset ut arma milites caperent, "tuo ductu" inquit, "Pythice Apollo, tuoque numine instinctus pergo ad delendam urbem Veios, tibique hinc decimam partem praedae uoueo. Te simul, Iuno regina, quae nunc Veios colis, precor, ut nos uictores in nostram tuamque mox futuram urbem sequare, ubi te dignum amplitudine tua templum accipiat". Haec precatus, superante multitudine ab omnibus locis urbem adgreditur, quo minor ab cuniculo ingruentis periculi sensus esset. Veientes ignari se iam a suis uatibus, iam ab externis oraculis proditos, iam in partem praedae suae uocatos deos, alios uotis ex urbe sua euocatos hostium templa nouasque sedes spectare, seque ultimum illum diem agere, nihil minus timentes quam subrutis cuniculo moenibus arcem iam plenam hostium esse, in muros pro se quisque armati discurrunt, mirantes quidnam id esset quod cum tot per dies nemo se ab stationibus Romanus mouisset, tum uelut repentino icti furore improuidi currerent ad muros. Inseritur huic loco fabula: immolante rege Veientium uocem haruspicis, dicentis qui eius hostiae exta prosecuisset, ei uictoriam dari, exauditam in cuniculo mouisse Romanos milites ut adaperto cuniculo exta raperent et ad dictatorem ferrent. Sed in rebus tam antiquis si quae similia ueri sint pro ueris accipiantur, satis habeam: haec ad ostentationem scenae gaudentis miraculis aptiora quam ad fidem neque adfirmare neque refellere est operae pretium. Cuniculus delectis militibus eo tempore plenus, in aedem Iunonis quae in Veientana arce erat armatos repente edidit, et pars auersos in muris inuadunt hostes, pars claustra portarum reuellunt, pars cum ex tectis saxa tegulaeque a mulieribus ac seruitiis iacerentur, inferunt ignes. Clamor omnia uariis terrentium ac pauentium uocibus mixto mulierum ac puerorum ploratu complet. Momento temporis deiectis ex muro undique armatis patefactisque portis cum alii agmine inruerent, alii desertos scanderent muros, urbs hostibus impletur; omnibus locis pugnatur; deinde multa iam edita caede senescit pugna, et dictator praecones edicere iubet ut ab inermi abstineatur. Is finis sanguinis fuit. Dedi inde inermes coepti et ad praedam miles permissu dictatoris discurrit. Quae cum ante oculos eius aliquantum spe atque opinione maior maiorisque pretii rerum ferretur, dicitur manus ad caelum tollens precatus esse ut si cui deorum hominumque nimia sua fortuna populique Romani uideretur, ut eam inuidiam lenire quam minimo suo priuato incommodo publicoque populi Romani liceret. Conuertentem se inter hanc uenerationem traditur memoriae prolapsum cecidisse; idque omen pertinuisse postea euentu rem coniectantibus uisum ad damnationem ipsius Camilli, captae deinde urbis Romanae, quod post paucos accidit annos, cladem. Atque ille dies caede hostium ac direptione urbis opulentissimae est consumptus.
 
traduzione
 
21 Un'enorme massa di persone si mise in movimento e and? a riversarsi nell'accampamento. Il dittatore allora, dopo aver tratto gli auspici, usc? dalla tenda e diede ordine alle truppe di armarsi. ?Sotto il tuo comando - disse poi -, o Apollo Pizio, e ispirato al tuo volere, mi accingo a distruggere la citt? di Veio e a te dedico la decima parte del bottino che ne verr? tratto. Ma nello stesso tempo imploro te, o Giunone Regina, che adesso dimori a Veio, di seguire noi vincitori nella nostra citt? presto destinata a diventare anche la tua, dove ti accoglier? un tempio degno della tua grandezza?. Dopo aver innalzato queste preghiere, il dittatore, forte di un numero soverchiante di uomini, si butt? all'assalto della citt? aggredendola da ogni parte, in maniera tale che gli abitanti si rendessero conto il meno possibile del pericolo che incombeva sulle loro teste dalla galleria sotterranea. I Veienti, non sapendo che tanto i vati di casa quanto gli oracoli stranieri li davano gi? per spacciati e che alcune divinit? erano gi? state chiamate a dividere le loro spoglie, mentre altre, invitate con suppliche ad abbandonare Veio, stavano gi? cominciando a vedere nei santuari dei nemici le loro nuove dimore, e ignorando che quello era destinato ad essere il loro estremo giorno di vita, siccome l'ultima cosa di cui potevano aver paura erano l'idea di un cunicolo scavato sotto le fortificazioni e l'immagine della cittadella ormai piena di nemici, si armarono ciascuno per proprio conto e si andarono a riversare sulle mura. E si chiedevano con meraviglia come mai, mentre per tanti giorni non c'era stato un solo Romano che si fosse mosso dai posti di guardia, adesso, come spinti da un furore improvviso, si riversassero in massa alla cieca contro le mura. A questo punto si inserisce una leggenda: mentre il re dei Veienti era intento a celebrare un sacrificio, nella galleria si sarebbe udita la voce dell'aruspice dire che la vittoria avrebbe premiato chi fosse riuscito a tagliare le viscere di quella vittima. Questa voce avrebbe spinto i soldati romani a sfondare l'ingresso della galleria e a impossessarsi delle viscere riportandole al dittatore. Trattandosi di vicende cos? antiche sarei gi? contento se il verosimile fosse accettato come vero: ma racconti come questo sembrano adatti al palcoscenico di un teatro (dove c'? l'abitudine a compiacersi del meraviglioso) pi? che alla credibilit? di un'opera storica, e non vale la pena n? di rifiutarli in blocco n? di accettarli passivamente. La galleria, piena com'era in quel momento di truppe scelte, all'improvviso rivers? il suo carico di armati all'interno del tempio di Giunone sulla cittadella di Veio: parte di quegli uomini prese alle spalle i nemici piazzati sulle mura, parte and? a svellere dai cardini le sbarre che chiudevano le porte e altri ancora appiccarono il fuoco alle case dai cui tetti i servi e le donne scagliavano una gragnuola di sassi e tegole. Dappertutto echeggiavano clamori: alle urla minacciose degli aggressori miste ai suoni spaventati degli assaliti si univano le lacrime delle donne e dei bambini. In un attimo tutti gli uomini armati vennero scaraventati gi? dai vari punti delle mura e le porte si spalancarono, permettendo cos? a parte dei Romani di riversarsi all'interno in formazione compatta e ad altri di scalare le mura ormai prive di difesa. La citt? straripava di nemici. Si combatteva dovunque. Poi, quando il massacro era gi? arrivato all'estremo, la battaglia cominci? a perdere d'intensit? e il dittatore attraverso gli araldi ordin? agli uomini di risparmiare chi non era armato. Questa mossa pose fine alla carneficina. Quanti non portavano armi iniziarono allora a consegnarsi spontaneamente, mentre i soldati romani ottennero dal dittatore via libera al saccheggio. Poich? gli oggetti accatastati di fronte ai suoi occhi si rivelarono pi? numerosi e preziosi di quanto non fosse dato sperare o supporre, si racconta che il dittatore innalz? questa preghiera con le mani levate al cielo: se la fortuna sua e del popolo romano sembrava eccessiva a qualcuno tra gli d?i e tra gli uomini, che almeno quella gelosia potesse venir placata con il minor danno per s? e per il popolo romano. Pare che mentre si girava nel corso della preghiera agli d?i Camillo scivolasse e perdesse l'equilibrio finendo a terra. Quando a fatti compiuti si cominci? a congetturare sull'episodio, sembr? che quel sinistro presagio dovesse esser messo in relazione tanto alla condanna inflitta in s?guito a Camillo, quanto alla catastrofica caduta di Roma avvenuta pochi anni dopo. Nell'arco di quell'intera giornata, i Romani non fecero altro che massacrare i nemici e saccheggiare le ricchezze infinite di quella citt
 

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