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Ovidio


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autore
brano
 
Livio
Ab urbe condita VII, 18
 
originale
 
[18] Quadringentesimo anno quam urbs Romana condita erat, quinto tricesimo quam a Gallis reciperata, ablato post undecimum annum a plebe consulatu [patricii consules ambo ex interregno magistratum iniere, C. Sulpicius Peticus tertium M. Valerius Publicola]. Empulum eo anno ex Tiburtibus haud memorando certamine captum, siue duorum consulum auspicio bellum ibi gestum est, ut scripsere quidam, seu per idem tempus Tarquiniensium quoque sunt uastati agri ab Sulpicio consule, quo Valerius aduersus Tiburtes legiones duxit. Domi maius certamen consulibus cum plebe ac tribunis erat. Fidei iam suae non solum uirtutis ducebant esse, ut accepissent duo patricii consulatum, ita ambobus patriciis mandare: quin aut toto cedendum esse ut plebeius iam magistratus consulatus fiat, aut totum possidendum quam possessionem integram a patribus accepissent. Plebes contra fremit: quid se uiuere, quid in parte ciuium censeri, si, quod duorum hominum uirtute, L. Sexti ac C. Licini, partum sit, id obtinere uniuersi non possint? Vel reges uel decemuiros uel si quod tristius sit imperii nomen patiendum esse potius quam ambos patricios consules uideant nec in uicem pareatur atque imperetur sed pars altera in aeterno imperio locata plebem nusquam alio natam quam ad seruiendum putet. Non desunt tribuni auctores turbarum, sed inter concitatos per se omnes uix duces eminent. Aliquotiens frustra in campum descensum cum esset multique per seditiones acti comitiales dies, postremo uicit perseuerantia consulum: plebis eo dolor erupit, ut tribunos actum esse de libertate uociferantes relinquendumque non campum iam solum sed etiam urbem captam atque oppressam regno patriciorum maesta sequeretur. Consules relicti a parte populi per infrequentiam comitia nihilo segnius perficiunt. Creati consules ambo patricii, M. Fabius Ambustus tertium T. Quinctius. In quibusdam annalibus pro T. Quinctio M. Popilium consulem inuenio.
 
traduzione
 
18 A quattrocento anni dalla fondazione di Roma e a trentacinque da quando venne ripresa ai Galli, i plebei vennero privati del consolato cui avevano avuto accesso per dieci anni [a entrare in carica dopo l'interregno furono due patrizi, Gaio Sulpicio Petico (al terzo consolato) e Marco Valerio Publicola]. Quell'anno la citt? di Empoli venne tolta ai Tiburtini senza che si dovesse ricorrere a battaglie degne di essere menzionate. E questo o perch? quella campagna venne condotta sotto gli auspici dei due consoli, come ? scritto in alcune fonti, oppure perch? il territorio di Tarquinia venne messo a ferro e fuoco dal console Sulpicio proprio nello stesso momento in cui Valerio guid? le sue legioni contro i Tiburtini. I consoli ebbero vita ben pi? difficile in patria, opposti com'erano a plebe e tribuni. I nobili ritenevano che il senso dell'onore e il riconoscimento dei loro meriti ormai rendevano imprescindibile che, come due patrizi avevano ottenuto il consolato, cos? essi dovessero tramandarlo a successori che fossero entrambi patrizi: anzi, sostenevano che bisognasse o rinunciare del tutto a quella carica, e far diventare il consolato una magistratura plebea, oppure mantenere intatto quel possesso che essi avevano ereditato integro dai loro padri. Dall'altra parte i plebei erano in fermento: che senso aveva vivere, che senso aveva essere considerati parte dello Stato, se poi non erano in grado di mantenere, tutti insieme, ci? che il coraggio di due soli uomini, Lucio Sestio e Gaio Licinio, aveva ottenuto per loro? Meglio dover accettare i re o i decemviri o qualunque altra peggior forma di governo, piuttosto che vedere entrambi i consoli patrizi, senza alternanza nell'obbedire e nel comandare, con una parte della cittadinanza che si riteneva investita per sempre dell'autorit? e considerava la plebe come nata per nient'altro che la servit?. Tribuni che agitassero le acque certo non mancavano, ma in quella situazione che vedeva tutti gi? di per s? eccitati i capi emergevano a stento. Dopo alcune inutili discese del popolo nel Campo Marzio e molti giorni dedicati alle assemblee e finiti in scontri, la perseveranza dei consoli ebbe alla fine la meglio: i plebei arrivarono a un punto tale di esasperazione da seguire mestamente i loro tribuni i quali andavano gridando che la libert? era ormai perduta e che bisognava abbandonare non solo il Campo Marzio, ma anche Roma stessa, a sua volta prigioniera e oppressa dalla tirannide patrizia. Ma i consoli, abbandonati da una parte della popolazione, non ostante l'esiguo numero di votanti, portarono a termine le elezioni con pari determinazione. I consoli eletti, Marco Fabio Ambusto e Tito Quinzio (al terzo consolato), erano entrambi patrizi. In alcuni annali come console ho trovato Marco Popilio al posto di Tito Quinzio.
 

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