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Ovidio - database
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Livio
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Ab urbe condita VIII, 33
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originale
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[33] His uocibus cum in se magis incitarent dictatorem quam magistro equitum placarent, iussi de tribunali descendere legati; et silentio nequiquam per praeconem temptato, prae strepitu ac tumultu [cum] nec ipsius dictatoris nec apparitorum eius uox audiretur, nox uelut in proelio certamini finem fecit. magister equitum, iussus postero die adesse, cum omnes adfirmarent infestius Papirium exarsurum, agitatum contentione ipsa exacerbatumque, clam ex castris Romam profugit; et patre auctore M. Fabio, qui ter iam consul dictatorque fuerat, uocato extemplo senatu, cum maxime conquereretur apud patres uim atque iniuriam dictatoris, repente strepitus ante curiam lictorum summouentium auditur et ipse infensus aderat, postquam comperit profectum ex castris, cum expedito equitatu secutus. iteratur deinde contentio et prendi Fabium Papirius iussit. ubi cum deprecantibus primoribus patrum atque uniuerso senatu perstaret in incepto immitis animus, tum pater M. Fabius 'quando quidem' inquit 'apud te nec auctoritas senatus nec aetas mea, cui orbitatem paras, nec uirtus nobilitasque magistri equitum a te ipso nominati ualet nec preces, quae saepe hostem mitigauere, quae deorum iras placant, tribunos plebis appello et prouoco ad populum eumque tibi, fugienti exercitus tui, fugienti senatus iudicium, iudicem fero, qui certe unus plus quam tua dictatura potest polletque. uidero cessurusne prouocationi sis, cui rex Romanus Tullus Hostilius cessit.' ex curia in contionem itur. quo cum paucis dictator, cum omni agmine principum magister equitum [cum] escendisset, deduci eum de rostris Papirius in partem inferiorem iussit. secutus pater 'bene agis' inquit, 'cum eo nos deduci iussisti unde et priuati uocem mittere possemus.' ibi primo non tam perpetuae orationes quam altercatio exaudiebantur; uicit deinde strepitum uox et indignatio Fabi senis increpantis superbiam crudelitatemque Papiri: se quoque dictatorem Romae fuisse nec a se quemquam, ne plebis quidem hominem, non centurionem, non militem, uiolatum; Papirium tamquam ex hostium ducibus, sic ex Romano imperatore uictoriam et triumphum petere. quantum interesse inter moderationem antiquorum et nouam superbiam crudelitatemque. dictatorem Quinctium Cincinnatum in L. Minucium consulem ex obsidione a se ereptum non ultra saeuisse quam ut legatum eum ad exercitum pro consule relinqueret. M. Furium Camillum in L. Furio, qui contempta sua senectute et auctoritate foedissimo cum euentu pugnasset, non solum in praesentia moderatum irae esse ne quid de collega secus populo aut senatui scriberet, sed cum reuertisset potissimum ex tribunis consularibus habuisse quem ex collegis optione ab senatu data socium sibi imperii deligeret. nam populi quidem, penes quem potestas omnium rerum esset, ne iram quidem unquam atrociorem fuisse in eos qui temeritate atque inscitia exercitus amisissent quam ut pecunia eos multaret: capite anquisitum ob rem bello male gestam de imperatore nullo ad eam diem esse. nunc ducibus populi Romani, quae ne uictis quidem bello fas fuerit, uirgas et secures uictoribus et iustissimos meritis triumphos intentari. quid enim tandem passurum fuisse filium suum, si exercitum amisisset, si fusus, fugatus, castris exutus fuisset? quo ultra iram uiolentiamque eius excessuram fuisse quam ut uerberaret necaretque? quam conueniens esse propter Q. Fabium ciuitatem in laetitia uictoria supplicationibus ac gratulationibus esse, eum propter quem deum delubra pateant, arae sacrificiis fument, honore donis cumulentur, nudatum uirgis lacerari in conspectu populi Romani, intuentem Capitolium atque arcem deosque ab se duobus proeliis haud frustra aduocatos. quo id animo exercitum, qui eius ductu auspiciisque uicisset, laturum? quem luctum in castris Romanis, quam laetitiam inter hostes fore. haec simul iurgans, querens, deum hominumque fidem obtestans, et complexus filium plurimis cum lacrimis agebat.
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traduzione
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33 Ma con queste parole i luogotenenti riuscirono a incrementare l'insofferenza del dittatore nei loro stessi confronti, invece di placarne il risentimento verso il maestro di cavalleria, e ricevettero l'ordine di scendere dalla tribuna. Dopo aver invano cercato di ottenere il silenzio tramite l'araldo, poich? in quel vociare confuso non era possibile udire n? la voce del dittatore n? quella dei suoi attendenti, la notte - come accade nelle battaglie - pose fine allo scontro.
Al maestro di cavalleria venne ingiunto di presentarsi il giorno seguente. Ma siccome tutti sostenevano che Papirio sarebbe stato ancora pi? furibondo, agitato ed esacerbato com'era per l'opposizione incontrata, Fabio lasci? di nascosto l'accampamento e fugg? a Roma. Qui, su consiglio del padre (che era gi? stato tre volte console e dittatore), convoc? immediatamente il senato. E mentre si stava lamentando con i senatori della violenza e l'affronto subito dal dittatore, all'improvviso si sentirono fuori della curia le grida dei littori che si facevano largo in mezzo alla gente e apparve di fronte a loro Papirio in persona, il quale, non appena saputo che Fabio era fuggito dall'accampamento, si era gettato all'inseguimento con uno squadrone di cavalleria armato alla leggera. Ricominci? cos? la contesa, e Papirio diede ordine di arrestare Fabio. E dato che, non ostante le suppliche dei membri pi? autorevoli del senato e di tutto il senato stesso, il dittatore persisteva irremovibile nel suo proposito, allora Marco Fabio, padre del giovane, disse: ?Poich? su di te non hanno alcun effetto n? l'autorit? del senato n? la mia et?, che tu vuoi rendere priva di figli, e nemmeno il coraggio e la nobilt? d'animo del maestro di cavalleria da te stesso nominato, e tanto meno ne hanno le suppliche, che spesso hanno indotto alla piet? i nemici e placato l'ira degli d?i, io mi appello ai tribuni della plebe e al popolo; e a te, che rifiuti il verdetto del tuo esercito e quello del senato, io propongo quell'unico giudice il cui potere stia al di sopra della tua dittatura. Vedremo se ti piegherai di fronte a quel diritto di appello di fronte al quale si pieg? Tullo Ostilio, uno dei re di Roma?.
Dalla curia si pass? all'assemblea popolare. Il dittatore sal? sulla tribuna da solo, mentre il maestro di cavalleria arriv? accompagnato dal gruppo di tutti i personaggi pi? influenti. Papirio ordin? a Fabio di scendere dai Rostri nella zona sottostante. Il padre lo segu? esclamando: ?Hai fatto bene a ordinarci di scendere in un punto da dove potremo dire la nostra anche in qualit? di privati cittadini?. In un primo tempo non si udivano discorsi ordinati, ma uno scambio di battute accese. Poi per? il disordine dell'alterco venne sovrastato dalla voce indignata del vecchio Fabio che inveiva contro la crudelt? e l'arroganza di Papirio: era stato dittatore anche lui, e mai nessuno - neppure un plebeo, un centurione o un soldato semplice - aveva subito abusi. Ma Papirio cercava di ottenere la vittoria e il trionfo su un comandante romano, come se si trattasse di un comandante nemico. Com'era grande la differenza tra la moderazione degli antichi e questa nuova crudele superbia! Quando il dittatore Quinzio Cincinnato aveva salvato il console Lucio Minucio dall'assedio nemico, non gli aveva inflitto altra punizione se non quella di retrocederlo da console a luogotenente del proprio esercito. Marco Furio Camillo, quando Lucio Furio, disprezzando la sua et? avanzata e la sua autorit?, aveva combattuto con il peggiore dei risultati, non soltanto aveva controllato la propria indignazione al momento (al punto da non inviare al senato e al popolo alcun rapporto sfavorevole al collega), ma una volta rientrato a Roma, ottenuto il permesso dal senato, aveva scelto proprio lui, tra tutti i tribuni consolari, come associato al comando. E poi neppure il popolo, che aveva in mano sua il potere assoluto, nei confronti di quanti, per temerariet? o per inesperienza, avevano perso interi eserciti, aveva mai spinto la sua ira al di l? di un'ammenda in denaro: fino a quel giorno non era mai stata richiesta la pena capitale per un comandante che avesse subito una disfatta militare. Ma ora i comandanti romani (e questo non era mai stato permesso, nemmeno quando uscivano sconfitti in guerra) venivano minacciati con le verghe e le scuri, pur avendo ottenuto la vittoria e meritato giustissimi trionfi. Che cosa mai sarebbe toccato allora a suo figlio, nel caso in cui avesse perso l'esercito, se fosse stato travolto, messo in fuga e allontanato dall'accampamento? Fin dove sarebbero arrivate la rabbia e la violenza del dittatore, dopo averlo fatto fustigare e mettere a morte? Non sarebbe stata un'assurdit? che, proprio per merito di Quinto Fabio, la cittadinanza festeggiasse la vittoria con ringraziamenti e suppliche, mentre lui, l'uomo per il quale i santuari degli d?i erano stati aperti, le are fumavano di sacrifici ed erano piene di doni e di offerte, fosse denudato e straziato a colpi di verga di fronte al popolo romano, con gli occhi rivolti al Campidoglio, alla cittadella e agli d?i, da lui invano invocati in occasione di due battaglie? Con che animo avrebbe sopportato quello strazio l'esercito che aveva trionfato sotto il suo comando e i suoi auspici? Che lutto ci sarebbe stato nell'accampamento romano, e che gioia tra i nemici!
Cos? inveiva e insieme si lamentava, invocando la protezione degli d?i e degli uomini e abbracciando il figlio tra le lacrime.
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