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Ovidio


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Livio
Ab urbe condita X, 24
 
originale
 
[24] Q. Inde Fabius quintum et P. Decius quartum consulatum ineunt, tribus consulatibus censuraque collegae, nec gloria magis rerum, quae ingens erat, quam concordia inter se clari. Quae ne perpetua esset, ordinum magis quam ipsorum inter se certamen interuenisse reor, patriciis tendentibus ut Fabius in Etruriam extra ordinem prouinciam haberet, plebeiis auctoribus Decio ut ad sortem rem uocaret. Fuit certe contentio in senatu et, postquam ibi Fabius plus poterat, reuocata res ad populum est. In contione, ut inter militares uiros et factis potius quam dictis fretos, pauca uerba habita. Fabius, quam arborem conseuisset, sub ea legere alium fructum indignum esse dicere; se aperuisse Ciminiam siluam uiamque per deuios saltus Romano bello fecisse. Quid se id aetatis sollicitassent, si alio duce gesturi bellum essent? nimirum aduersarium se, non socium imperii legisse?sensim exprobrat?et inuidisse Decium concordibus collegis tribus. Postremo se tendere nihil ultra quam ut, si dignum prouincia ducerent, in eam mitterent; in senatus arbitrio se fuisse et in potestate populi futurum. P. Decius senatus iniuriam querebatur: quoad potuerint, patres adnisos ne plebeiis aditus ad magnos honores esset; postquam ipsa uirtus peruicerit ne in ullo genere hominum inhonorata esset, quaeri quemadmodum inrita sint non suffragia modo populi sed arbitria etiam fortunae et in paucorum potestatem uertantur. Omnes ante se consules sortitos prouincias esse: nunc extra sortem Fabio senatum prouinciam dare,?si honoris eius causa, ita eum de se deque re publica meritum esse ut faueat Q. Fabi gloriae quae modo non sua contumelia splendeat. Cui autem dubium esse, ubi unum bellum sit asperum ac difficile, cum id alteri extra sortem mandetur, quin alter consul pro superuacaneo atque inutili habeatur? gloriari Fabium rebus in Etruria gestis; uelle et P. Decium gloriari; et forsitan, quem ille obrutum ignem reliquerit, ita ut totiens nouum ex improuiso incendium daret, eum se exstincturum. Postremo se collegae honores praemiaque concessurum uerecundia aetatis eius maiestatisque; cum periculum, cum dimicatio proposita sit, neque cedere sua sponte neque cessurum. Et si nihil aliud ex eo certamine tulerit, illud certe laturum ut quod populi sit populus iubeat potius quam patres gratificentur. Iouem optimum maximum deosque immortales se precari, ut ita sortem aequam sibi cum collega dent si eandem uirtutem felicitatemque in bello administrando daturi sint. Certe et id natura aequum et exemplo utile esse et ad famam populi Romani pertinere, eos consules esse quorum utrolibet duce bellum Etruscum geri recte possit. Fabius nihil aliud precatus populum Romanum quam ut, priusquam intro uocarentur ad suffragium tribus, Ap. Claudi praetoris allatas ex Etruria litteras audirent, comitio abiit. Nec minore populi consensu quam senatus prouincia Etruria extra sortem Fabio decreta est.
 
traduzione
 
24 Entrarono poi in carica Quinto Fabio (console per la quinta volta) e Publio Decio (per la quarta), che erano gi? stati colleghi in tre consolati e nella censura, celebri per l'armonia di rapporti pi? ancora che per la gloria militare, per altro ragguardevole. Ma a impedire che il clima di armonia durasse in perpetuo fu una divergenza di vedute, dovuta - a mio parere - pi? che a loro stessi alle rispettive classi sociali di provenienza: mentre i patrizi premevano perch? a Fabio venisse assegnato il comando in Etruria con un provvedimento straordinario, i plebei spingevano Decio a esigere il sorteggio. Se ne discusse in senato e, quando fu chiaro che in quel contesto Fabio avrebbe avuto la meglio, si fin? col ricorrere al giudizio del popolo. Di fronte all'assemblea, cos? come si addiceva a uomini d'armi abituati pi? ai fatti che alle parole, i consoli pronunciarono due brevi discorsi. Fabio sosteneva non fosse giusto che altri raccogliesse i frutti dall'albero che lui aveva piantato: era stato lui a inaugurare la selva Ciminia e ad aprire la strada agli eserciti romani attraverso quegli scoscesi dirupi. Perch? andarlo tanto a sollecitare, se poi intendevano gestire la guerra con un altro comandante? Si rimproverava di aver scelto un avversario, non un compagno nell'esercizio del comando, e rinfacciava a Decio di aver tradito lo spirito di concordia col quale essi avevano insieme condotto tre consolati. Concluse dicendo di non volere altro se non di essere inviato su quel fronte di guerra, qualora per? lo ritenessero degno del comando. Quanto a se stesso, si sarebbe rimesso alla volont? del popolo, cos? come si era rimesso a quella del senato. Publio Decio si lamentava dell'affronto subito da parte del senato, sostenendo che i patrizi si erano sforzati, finch? era in loro potere, di impedire ai plebei l'accesso alle magistrature pi? importanti. Ma poi, da quando i valori morali erano riusciti da soli a superare i pregiudizi sociali, gli ottimati cercavano il modo di eludere non solo il voto del popolo, ma anche le decisioni della sorte, vincolandola alla volont? arbitraria di pochi individui. Tutti i consoli che li avevano preceduti si erano divisi le zone di operazioni ricorrendo al sorteggio: adesso il senato affidava a Fabio il comando della campagna senza alcun sorteggio. Se ci? era dovuto a un atto di onore nei suoi confronti, i meriti di quell'uomo nei riguardi dello Stato e di lui stesso erano cos? grandi, da essere pronto a favorirne la gloria, purch? non risplendesse a spese del suo disonore. Infatti, quando ci si trovava di fronte a una guerra dura e difficile e la si affidava a uno dei due consoli senza il sorteggio, a chi poteva non venire in mente che l'altro console era considerato inutile e di troppo? Fabio vantava imprese compiute in Etruria: anche Publio Decio voleva avere la possibilit? di gloriarsene. E forse avrebbe spento lui il fuoco che quell'altro aveva lasciato acceso sotto la cenere, e che tante volte sarebbe potuto divampare, all'improvviso, in un nuovo incendio. Per concludere, avrebbe lasciato al collega premi e riconoscimenti per il rispetto dovuto all'et? e alla dignit? della persona: quando per? si fosse trattato di andare incontro al pericolo o di gettarsi nella mischia, non si sarebbe tirato indietro di sua volont?, n? lo avrebbe fatto in s?guito. E se non avesse ottenuto nient'altro da quel confronto, avrebbe almeno ricavato questo: e cio? che fosse il popolo a ordinare ci? che spettava al popolo di decidere, piuttosto che a concederlo, come un loro favore, fossero i patrizi. Pregava Giove Ottimo Massimo e gli d?i immortali di concedergli col sorteggio opportunit? pari a quelle del collega, ma che insieme gli concedessero lo stesso valor militare e la stessa buona stella nella conduzione delle operazioni. Era certo naturale ed esemplare e in sintonia con la fama del popolo romano che i consoli avessero una personalit? tale da permetter loro di condurre con esiti positivi la campagna in Etruria, a chiunque dei due toccasse il comando in capo. Fabio, rivolta al popolo un'unica preghiera prima che le trib? venissero chiamate al voto - e cio? di ascoltare i rapporti inviati dall'Etruria dal pretore Appio Claudio -, lasci? l'assemblea. Il comando delle operazioni venne affidato a Fabio senza sorteggio, con un consenso del popolo non inferiore a quello del senato.
 

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