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Ovidio


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autore
brano
 
Petronio
Satiricon, 117
 
originale
 
[CXVII] Prudentior Eumolpus convertit ad novitatem rei mentem genusque divitationis sibi non displicere confessus est. Iocari ego senem poetica levitate credebam, cum ille: "Vtinam quidem, , sufficeret largior scena, id est vestis humanior, instrumentum lautius, quod praeberet mendacio fidem: non mehercules operam istam differrem, sed continuo vos ad magnas opes ducerem". Atquin promitto, quicquid exigeret, dummodo placeret vestis, rapinae comes, et quicquid Lycurgi villa grassantibus praebuisset: "nam nummos in praesentem usum deum matrem pro fide sua reddituram. -- Quid ergo, inquit Eumolpus, cessamus mimum componere? Facite ergo me dominum, si negotatio placet." Nemo ausus est artem damnare nihil auferentem. Itaque ut duraret inter omnes tutum mendacium, in verba Eumolpi sacramentum iuravimus: uri, vinciri, verberari ferroque necari, et quicquid aliud Eumolpus iussisset. Tanquam legitimi gladiatores domino corpora animasque religiosissime addicimus. Post peractum sacramentum serviliter ficti dominum consalutamus, elatumque ab Eumolpo filium pariter condiscimus, iuvenem ingentis eloquentiae et spei, ideoque de civitate sua miserrimum senem exisse, ne aut clientes sodalesque filii sui aut sepulcrum quotidie causam lacrimarum cerneret. Accessisse huic tristitiae proximum naufragium, quo amplius vicies sestertium amiserit; nec illum iactura moveri, sed destitutum ministerio non agnoscere dignitatem suam. Praeterea habere in Africa trecenties sestertium fundis nominibusque depositum; nam familiam quidem tam magnam per agros Numidiae esse sparsam, ut possit vel Carthaginem capere. Secundum hanc formulam imperamus Eumolpo, ut plurimum tussiat, ut sit modo solutioris stomachi cibosque omnes palam damnet; loquatur aurum et argentum fundosque mendaces et perpetuam terrarum sterilitatem; sedeat praeterea quotidie ad rationes tabulasque testamenti omnibus renovet. Et ne quid scaenae deesset, quotiescunque aliquem nostrum vocare temptasset, alium pro alio vocaret, ut facile appareret dominum etiam eorum meminisse, qui praesentes non essent. His ita ordinatis, "quod bene feliciterque eveniret " precati deos viam ingredimur. Sed neque Giton sub insolito fasce durabat, et mercennarius Corax, detractator ministerii, posita frequentius sarcina male dicebat properantibus, affirmabatque se aut proiecturum sarcinas aut cum onere fugiturum. "Quid vos, inquit? iumentum me putatis esse aut lapidariam navem? Hominis operas locavi, non caballi. Nec minus liber sum quam vos, etiam si pauperem pater me reliquit." Nec contentus maledictis tollebat subinde altius pedem, et strepitu obsceno simul atque odore viam implebat. Ridebat contumaciam Giton et singulos crepitus eius pari clamore prosequebatur. <. . .>
 
traduzione
 
117 Eumolpo, che di noi era quello che la sapeva pi? lunga, si mise a riflettere sulla nuova situazione e ci confess? che a lui quel sistema di rastrellare quattrini non gli dispiaceva affatto. Sulle prime io pensai che il vecchio, un po' suonato com'era per quella sua mania di fare versi, scherzasse, ma lui, invece, disse: ?Se solo potessi disporre di un pi? ricco apparato scenico, cio? di un costume pi? presentabile, un equipaggiamento scelto, per garantire maggiore credibilit? alle mie menzogne! Per dio, ? un lavoretto che non rimanderei un attimo soltanto e vi procurerei soldi a palate in men che non si dica?. Gli prometto di aiutarlo a procurarsi quanto gli serve, basta che si adatti a mettersi il vestito indossato nell'ultima rapina e a servirsi di ci? che avevamo portato via nel colpo alla villa di Licurgo. Quanto poi al denaro necessario l? sul momento, ce lo avrebbe procurato la madre degli d?i, bont? sua. ?E allora cosa aspettiamo? disse Eumolpo, ?a incominciare la nostra messinscena? Se la cosa vi va a genio, fate finta che io sia il vostro padrone?. Nessuno os? criticare quell'iniziativa, che oltretutto non ci costava nulla. E cos?, perch? il segreto di quella farsa non uscisse dalla nostra cerchia, giurammo, attenendoci a una formula di Eumolpo, che ci saremmo fatti bruciare vivi, incatenare, bastonare, passare da parte a parte, e tutto quello che lui ci avesse imposto: ci consegnammo anima e corpo, devotamente, al nostro nuovo padrone, come se fossimo stati dei gladiatori di professione. Dopo aver prestato il giuramento e avere indossato vesti servili, salutiamo Eumolpo come padrone e insieme apprendiamo che Eumolpo aveva perduto un figlio, un ragazzo di eccezionali qualit? e di belle speranze, e che il povero vecchio se ne era andato dalla sua citt? proprio per non avere pi? sotto gli occhi tutti i giorni i clienti e gli amici del figlio e quella tomba per lui causa di continue lacrime. A questo lutto si era poi aggiunto di recente un naufragio nel quale aveva perduto pi? di venti milioni di sesterzi, disastro questo che gli dispiaceva non tanto per la perdita in s? e per s?, quanto piuttosto perch?, avendo perso il suo seguito, non si riconosceva pi? nel suo rango. In Africa aveva per? ancora un capitale di trenta milioni in terreni e in crediti, e un numero cos? elevato di schiavi, sparsi un po' in giro per le campagne della Numidia, che con loro avrebbe potuto conquistare perfino Cartagine. In base a queste premesse di copione, suggeriamo a Eumolpo di tossire spesso, di far finta di avere la gastrite e proprio per questo di rifiutare, davanti agli altri, qualunque tipo di cibo. Di parlare in continuazione di oro e d'argento, dei terreni che non rendono e della costante sterilit? dei suoi sterminati possedimenti. E poi di mostrarsi ogni giorno alle prese con conti vari e di cambiare testamento una volta al mese. Infine, perch? non mancasse proprio nulla a quella sceneggiata, di confondere i vostri nomi ogni volta che ci chiamava, per dare cos? l'impressione di ricordarsi anche dei servi che non erano l? insieme a lui. Dopo avere rifinito il nostro piano, preghiamo gli d?i che ce la mandino buona e poi ci rimettiamo per strada. Ma Gitone non ce la faceva a portare quel carico cui non era abituato, e il servo Corace, imprecando contro il suo mestiere, a ogni passo appoggiava a terra il bagaglio, prendendosela con la nostra fretta e minacciandoci che avrebbe abbandonato l? ogni cosa, o che se la sarebbe svignata con tutta la nostra roba. ?Ma cosa credete che sia? sbott? poi, ?un mulo o una nave da carico? Mi sono messo a disposizione per fare il lavoro di un uomo, non di un cavallo. E non sono meno libero di voi, anche se mio padre mi ha lasciato povero?. Ma dare in escandescenze non gli bastava mica: ogni tanto alzava una gamba e riempiva la strada di rumori vergognosi corredati da adeguati profumini. Queste bizze polemiche di Corace destavano il riso di Gitone, che a sua volta ne accompagnava ogni crepitio con un verso della bocca di uguale efficacia.
 

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