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Ovidio


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autore
brano
 
Petronio
Satiricon, 119
 
originale
 
[CXIX] "Orbem iam totum victor Romanus habebat, qua mare, qua terrae, qua sidus currit utrumque; nec satiatus erat. Gravidis freta pulsa carinis iam peragebantur; si quis sinus abditus ultra, si qua foret tellus, quae fuluum mitteret aurum, hostis erat, fatisque in tristia bella paratis quaerebantur opes. Non vulgo nota placebant gaudia, non usu plebeio trita voluptas. Aes Ephyreiacum laudabat miles in unda; quaesitus tellure nitor certaverat ostro; Hinc Numidae accusant, illinc nova vellera Seres atque Arabum populus sua despoliaverat arva. Ecce aliae clades et laesae vulnera pacis. Quaeritur in silvis auro fera, et ultimus Hammon Afrorum excutitur, ne desit belua dente ad mortes pretiosa; fame premit advena classes, tigris et aurata gradiens vectatur in aula, ut bibat humanum populo plaudente cruorem. Heu, pudet effari perituraque prodere fata, Persarum ritu male pubescentibus annis surripuere viros, exsectaque viscera ferro in venerem fregere, atque ut fuga mobilis aevi circumscripta mora properantes differat annos, quaerit se natura nec invenit. Omnibus ergo scorta placent fractique enerui corpore gressus et laxi crines et tot nova nomina vestis, quaeque virum quaerunt. Ecce Afris eruta terris citrea mensa greges servorum ostrumque renidens, ponitur ac maculis imitatur vilius aurum quae sensum trahat. Hoc sterile ac male nobile lignum turba sepulta mero circum venit, omniaque orbis praemia correptis miles vagus esurit armis. Ingeniosa gula est. Siculo scarus aequore mersus ad mensam vivus perducitur, atque Lucrinis eruta litoribus vendunt conchylia cenas, ut renovent per damna famem. Iam Phasidos unda orbata est avibus, mutoque in litore tantum solae desertis adspirant frondibus aurae. Nec minor in Campo furor est, emptique Quirites ad praedam strepitumque lucri suffragia vertunt. Venalis populus, venalis curia patrum: est favor in pretio. Senibus quoque libera virtus exciderat, sparsisque opibus conversa potestas ipsaque maiestas auro corrupta iacebat. Pellitur a populo victus Cato; tristior ille est, qui vicit, fascesque pudet rapuisse Catoni. Namque -- hoc dedecoris populo morumque ruina -- non homo pulsus erat, sed in uno victa potestas Romanumque decus. Quare tam perdita Roma ipsa sui merces erat et sine vindice praeda. Praeterea gemino deprensam gurgite plebem faenoris inluvies ususque exederat aeris. Nulla est certa domus, nullum sine pignore corpus, sed veluti tabes tacitis concepta medullis intra membra furens curis latrantibus errat. Arma placent miseris, detritaque commoda luxu vulneribus reparantur. Inops audacia tuta est. Hoc mersam caeno Romam somnoque iacentem quae poterant artes sana ratione movere, ni furor et bellum ferroque excita libido?
 
traduzione
 
119 ?I Romani regnavano signori vittoriosi del mondo, per terra e per mare, l? dove corrono entrambi i soli, eppure non erano sazi. E ancora solcavano i flutti battuti da grosse carene. Se un golfo s'apriva nascosto, o qualche terra che l'oro brillante esportasse, l? c'era il nemico e, pronti alla triste guerra i destini, ne predavano i beni. Non piacevano pi? i piaceri di un tempo, non le gioie travolte dall'uso comune. Lodavano il bronzo corinzio i soldati, si cercava nel cuor della terra una luce pi? viva dell'ostro, tessuti mai visti ne traevano Numidi e Seri, e i popoli d'Arabia avevano spogliato i propri campi. Ecco nuove stragi e ferite inferte alla pace. Si acquistano con l'oro le belve nei boschi, si scovano ai limiti dell'africo Ammone, che non manchi la belva dai denti preziosi per la morte. Una fame straniera colpisce le navi, e pace non trova la tigre tradotta con gabbia dorata, a bere il sangue dell'uomo dinanzi a una folla festante. Ahi, che vergogna svelare l'amaro destino che incalza! Come fanno i Persiani, rapiscono i giovani nel fiore degli anni, e il membro gli troncano col ferro, perch? ignorino il sesso, e ritardino il corso del tempo che vola e la fuga degli anni, mentre cerca se stessa natura e non sa ritrovarsi. Son le checche che piacciono a tutti coi loro flaccidi corpi, i capelli al vento, le mille novit? della moda e tutto ci? che eccita il maschio. Sradicata dall'Africa ecco una tavola in cedro che riverbera stuoli di schiavi e di porpore, screziata di macchie simili all'oro, che in bellezza lo vincono e attirano lo sguardo. Sepolta nel vino una folla circonda questa tavola sterile e a torto pregiata, e insegue errabondo il soldato la preda con in pugno le armi per le strade del mondo. Ingegnosa ? la gola. Lo scaro che nuota nel mar di Sicilia lo portano vivo alla mensa, e l'ostrica colta sui lidi lucrini la vendono per cene sontuose, come stimolo subdolo alla fame. Gi? le acque del Fasi son deserte d'uccelli, e nel vuoto fogliame resta solo il sospiro dell'aria. Stessa folle demenza nel Campo. Si svendono i Quiriti, e rivolgono i voti al sonante denaro e al profitto. Una merce ? la massa, una merce ? la Curia dei padri, e il favore ? in vetrina col prezzo. Anche il libero cuore dei senatori ? venuto meno, e dispersi gli averi il potere ad altri ? passato. Giace guasta dall'oro anche la somma maest?. ? sconfitto e scacciato dal popolo Catone, ma pi? triste chi vinse, che a Catone i fasci ha strappato. E infatti - questa ? l'onta del popolo e il crollo di tutti i principi - non fu l'uomo soltanto sconfitto, ma con lui si pieg? in un tratto la potenza e l'onore di Roma. A tal punto era Roma corrotta che vendeva se stessa e chiunque poteva predarla. Travolta nel mentre da duplice gorgo, la plebe cedeva al diluvio d'usura e al debito fatto sistema. Non c'? casa sicura, non c'? corpo che pegno non abbia, come fosse una peste che nata nel cuore dei corpi furiosa dilani le membra tra spasimi atroci. Le armi piacciono ai miseri, perch? i beni distrutti dal lusso, nel sangue ritrovano vita. Osa il povero che nulla rischia. Immersa in un fango cos?, prostrata in pieno letargo, che rimedi potevano scuotere Roma e sanarla, se non della guerra il furore e le brame eccitate dal ferro?
 

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