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Ovidio


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autore
brano
 
Petronio
Satiricon, 120
 
originale
 
[CXX] "Tres tulerat Fortuna duces, quos obruit omnes armorum strue diversa feralis Enyo. Crassum Parthus habet, Libyco iacet aequore Magnus, Iulius ingratam perfudit sanguine Romam, et quasi non posset tot tellus ferre sepulcra, divisit cineres. Hos gloria reddit honores. Est locus exciso penitus demersus hiatu Parthenopen inter magnaeque Dicarchidos arva, Cocyti perfusus aqua; nam spiritus, extra qui furit effusus, funesto spargitur aestu. Non haec autumno tellus viret aut alit herbas caespite laetus ager, non verno persona cantu mollia discordi strepitu virgulta locuntur, sed chaos et nigro squalentia pumice saxa gaudent ferali circum tumulata cupressu. Has inter sedes Ditis pater extulit ora bustorum flammis et cana sparsa favilla, ac tali volucrem Fortunam voce lacessit: 'Rerum humanarum divinarumque potestas, Fors, cui nulla placet nimium secura potestas, quae nova semper amas et mox possessa relinquis, ecquid Romano sentis te pondere victam, nec posse ulterius perituram extollere molem? Ipsa suas vires odit Romana iuventus et quas struxit opes, male sustinet. Aspice late luxuriam spoliorum et censum in damna furentem. Aedificant auro sedesque ad sidera mittunt, expelluntur aquae saxis, mare nascitur arvis, et permutata rerum statione rebellant. En etiam mea regna petunt. Perfossa dehiscit molibus insanis tellus, iam montibus haustis antra gemunt, et dum vanos lapis invenit usus, inferni manes caelum sperare fatentur. Quare age, Fors, muta pacatum in proelia vultum, Romanosque cie, ac nostris da funera regnis. Iam pridem nullo perfundimus ora cruore, nec mea Tisiphone sitientis perluit artus, ex quo Sullanus bibit ensis et horrida tellus extulit in lucem nutritas sanguine fruges.'
 
traduzione
 
120 La sorte tre capi forn?, che tutti in regioni diverse la mortifera Enio ha travolto in un cumulo d'armi. Crasso ? preda dei Parti, giace il grande nel mare di Libia, Giulio Roma l'ingrata del suo sangue ha cosparso, e, quasi la terra non reggesse simili tombe, ne disperse le ceneri. Ecco gli onori che d? la gloria. Giace immerso nel mezzo di un'ampia voragine un luogo tra Partenope e i campi dell'alta Dicarchi, che lo bagna il Cocito: e l'efflato che fuori ne spira tutto intorno si spande infuriando come vampa funesta. Non ? questa una terra che verdeggi nel tempo d'autunno, non ne allietano il suolo le erbe, n? dai molli virgulti a primavera si leva il suono di voci tra loro discordi, ma caos informe soltanto e rocce di pomice nera godono dei cipressi che spuntano intorno funerei. In quel luogo il padre Plutone solleva la testa, cosparsa di fiamme di roghi e di cenere bianca, e con tali parole eccita la Fortuna dal rapido volo: "Tu che reggi ogni cosa, umana o divina che sia, o Sorte, cui mai piacque troppo certa potenza, che sempre ami il nuovo e appena lo hai lo rigetti, non ti senti per caso schiacciata dal peso di Roma, n? pi? puoi sollevare la mole gi? avviata allo sfascio? Le sue stesse forze dispregia la giovent? di Roma, e quanto ha creato sostiene a fatica. Guarda ovunque che sfarzo di prede e sostanze smaniose d'estinguersi. Costruiscono case dorate che toccano il cielo, con le rocce ricacciano l'acqua, fanno nascere il mare nei campi, e ribelli sconvolgono l'ordine dato alle cose. Ecco assaltano pure i miei regni. Solcata da macchine folli, la terra si squarcia, nei monti svuotati gemono gli antri, e mentre la pietra s'adatta a folli usi, i Mani infernali confessano di ambire al cielo. Per questo trasforma, o Sorte, in guerra il tuo volto pacato, e risveglia i Romani, fornisci di anime il mio regno. Da troppo non bagno le mie labbra nel sangue, n? l'amata Tisifone v'intinge le membra assetate, dal giorno che il brando di Silla ne bevve a fiumi e diede la terra alla luce orride messi nutrite di sangue".
 

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