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Ovidio - database
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autore
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brano
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Petronio
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Satiricon, 122
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originale
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[CXXII] "Vixdum finierat, cum fulgure rupta corusco
intremuit nubes elisosque abscidit ignes.
Subsedit pater umbrarum, gremioque reducto,
telluris pavitans fraternos palluit ictus.
Continuo clades hominum venturaque damna
auspiciis patuere deum. Namque ore cruento
deformis Titan vultum caligine texit:
civiles acies iam tum spirare putares.
Parte alia plenos extinxit Cynthia vultus
et lucem sceleri subduxit. Rupta tonabant
verticibus lapsis montis iuga, nec vaga passim
flumina per notas ibant morientia ripas.
Armorum strepitu caelum furit et tuba Martem
sideribus tremefacta ciet, iamque Aetna voratur
ignibus insolitis, et in aethera fulmina mittit.
Ecce inter tumulos atque ossa carentia bustis
umbrarum facies diro stridore minantur.
Fax stellis comitata novis incendia ducit,
sanguineoque recens descendit Iuppiter imbre.
Haec ostenta brevi soluit deus. Exuit omnes
quippe moras Caesar, vindictaeque actus amore
Gallica proiecit, civilia sustulit arma.
"Alpibus aeriis, ubi Graio numine pulsae
descendunt rupes et se patiuntur adiri,
est locus Herculeis aris sacer: hunc nive dura
claudit hiemps canoque ad sidera vertice tollit.
Caelum illinc cecidisse putes: non solis adulti
mansuescit radiis, non verni temporis aura,
sed glacie concreta rigent hiemisque pruinis:
totum ferre potest umeris minitantibus orbem.
Haec ubi calcavit Caesar iuga milite laeto
optavitque locum, summo de vertice montis
Hesperiae campos late prospexit, et ambas
intentans cum voce manus ad sidera dixit:
'Iuppiter omnipotens, et tu, Saturnia tellus,
armis laeta meis olimque onerata triumphis,
testor ad has acies invitum arcessere Martem,
invitas me ferre manus. Sed vulnere cogor,
pulsus ab urbe mea, dum Rhenum sanguine tingo,
dnm Gallos iterum Capitolia nostra petentes
Alpibus excludo, vincendo certior exul.
Sanguine Germano sexagintaque triumphis
esse nocens coepi. Quamquam quos gloria terret,
aut qui sunt qui bella vident? Mercedibus emptae
ac viles operae, quorum est mea Roma noverca.
At reor, haud impune, nec hanc sine vindice dextram
vinciet ignavus. Victores ite furentes,
ite mei comites, et causam dicite ferro.
Iamque omnes unum crimen vocat, omnibus una
impendet clades. Reddenda est gratia vobis,
non solus vici. Quare, quia poena tropaeis
imminet, et sordes meruit victoria nostra,
iudice Fortuna cadat alea. Sumite bellum
et temptate manus. Certe mea causa peracta est:
inter tot fortes armatus nescio vinci.'
Haec ubi personuit, de caelo Delphicus ales
omina laeta dedit pepulitque meatibus auras.
Nec non horrendi nemoris de parte sinistra
insolitae voces flamma sonuere sequenti.
Ipse nitor Phoebi vulgato laetior orbe
crevit, et aurato praecinxit fulgure vultus.
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traduzione
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122 Aveva appena finito di parlare, che una nube squassata
da un lampo corrusco trem? vomitando lingue di fuoco.
Il padre delle ombre si china, rinserra il grembo del suolo,
e pallido in volto paventa le saette fraterne.
I presagi divini tosto annunciano stragi di umani
e flagelli imminenti. Sfigurato nel volto da macchie di sangue,
il Titano si copre la faccia di nebbia: gi? da allora
fiutare potevi l'orrore delle guerre civili.
Dal suo canto velandosi il candido volto,
Cinzia nega luce allo scempio. Stroncate le cime dei monti
franano tra strepiti, e i fiumi in un cieco vagare
vanno verso la morte scorrendo tra rive non note.
Il cielo infuria per strepito d'armi e un tremulo squillo fra gli astri
chiama Marte a battaglia, e gi? l'Etna divorano
fiamme mai viste e al cielo arrivano i lampi.
Tra le tombe e le ossa dei morti insepolti,
ecco falbe parvenze levano minacce con strida sinistre.
Sparge fiamme una cometa seguita da stelle inaudite,
e Giove subito riversa sul mondo una pioggia di sangue.
Un dio scioglie rapido i presagi, perch? Cesare ha rotto
gli indugi, e sospinto dall'ansia di vendetta,
le armi galliche butta e brandisce spade civili.
Sulle altissime Alpi sconfitte dal Greco divino,
dove i sassi si abbassano e cedono il passo a chi sale,
l? c'? un luogo che a Eracle ? sacro: dura neve lo copre
d'inverno e su fino al cielo lo innalza con bianca vetta.
L? diresti che il cielo ? crollato: quel luogo non si stempera ai raggi
del sole cocente, n? alla brezza della nuova stagione,
ma tutto congelano il ghiaccio e la brina invernale.
Tutto il mondo potrebbe sorreggere col suo dorso minaccioso.
Come Cesare il passo calc? coi soldati festanti,
e scelse un punto di sosta, dalla cima pi? alta del monte
abbracci? con lo sguardo le vaste terre d'Esperia,
e levando le mani alle stelle e insieme la voce, cos? disse:
"Onnipotente Giove, o terra saturnia un tempo
felice delle mie gesta e greve di tanti trionfi,
? a voi che m'appello: mio malgrado qui Marte risveglio a battaglia,
mio malgrado riporto la guerra. Grave offesa mi spinge,
cacciato dalla mia terra, mentre il Reno coloro di sangue,
mentre ancora respingo i Galli che di nuovo si spingono
dalle Alpi a assediare la rocca, io ne vengo bandito
sebbene in trionfo. Dopo il sangue germano e sessanta vittorie,
mi si dice sei reo. A chi fa paura la mia gloria?
Chi sono quelli che vogliono la guerra? Solo masse assoldate
da vile mercede, per le quali la mia Roma ? matrigna.
Ma non senza vendetta, credo, n? senza castigo, un codardo
legher? questa mia destra. Correte furenti alla vittoria,
correte, compagni, e la causa col ferro trattate.
Una per tutti ? l'accusa e tutti sovrasta un'unica strage.
Voglio rendervi grazie, non ho vinto da solo.
Ma se sono colpa i trofei e infamia le nostre vittorie,
il dado sia tratto e giudice sia la Fortuna. Guerra portate,
date prova di voi nello scontro. Certo la causa per me ? risolta:
tra tanti guerrieri armato, non so cosa sia la sconfitta!".
Dopo aver tuonato cos?, dal cielo l'uccello d'Apollo
diede fausti presagi muovendosi in volo per aria.
A sinistra si udirono poi da una selva paurosa
voci strane seguite da bagliori di fiamma.
Anche il disco di Febo si fece pi? vivo e pi? grande
di sempre, e il volto si cinse di un raggio di oro splendente.
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