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Ovidio - database
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Petronio
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Satiricon, 123
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originale
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[CXXIII] "Fortior ominibus movit Mavortia signa
Caesar, et insolitos gressu prior occupat ausus.
Prima quidem glacies et cana vincta pruina
non pugnavit humus mitique horrore quievit.
Sed postquam turmae nimbos fregere ligatos
et pavidus quadrupes undarum vincula rupit,
incalvere nives. Mox flumina montibus altis
undabant modo nata, sed haec quoque -- iussa putares --
stabant, et vincta fluctus stupuere ruina,
et paulo ante lues iam concidenda iacebat.
Tum vero male fida prius vestigia lusit
decepitque pedes; pariter turmaeque virique
armaque congesta strue deplorata iacebant.
Ecce etiam rigido concussae flamine nubes
exonerabantur, nec rupti turbine venti
derant, aut tumida confractum grandine caelum.
Ipsae iam nubes ruptae super arma cadebant,
et concreta gelu ponti velut unda ruebat.
Victa erat ingenti tellus nive victaque caeli
sidera, victa suis haerentia flumina ripis:
nondum Caesar erat; sed magnam nixus in hastam
horrida securis frangebat gressibus arva,
qualis Caucasea decurrens arduus arce
Amphitryoniades, aut torvo Iuppiter ore,
cum se verticibus magni demisit Olympi
et periturorum deiecit tela Gigantum.
"Dum Caesar tumidas iratus deprimit arces,
interea volucer molis conterrita pinnis
Fama volat summique petit iuga celsa Palati,
atque hoc Romano tonitru ferit omnia signa:
iam classes fluitare mari totasque per Alpes
fervere Germano perfusas sanguine turmas.
Arma, cruor, caedes, incendia totaque bella
ante oculos volitant. Ergo pulsata tumultu
pectora perque duas scinduntur territa causas.
Huic fuga per terras, illi magis unda probatur,
et patria pontus iam tutior. Est magis arma
qui temptare velit fatisque iubentibus uti.
Quantum quisque timet, tantum fugit. Ocior ipse
hos inter motus populus, miserable visu,
quo mens icta iubet, deserta ducitur urbe.
Gaudet Roma fuga, debellatique Quirites
rumoris sonitu maerentia tecta relinquunt.
Ille manu pavida natos tenet, ille penates
occultat gremio deploratumque relinquit
limen, et absentem votis interficit hostem.
Sunt qui coniugibus maerentia pectora iungant,
grandaevosque patres onerisque ignara iuventus.
Id pro quo metuit, tantum trahit. Omnia secum
hic vehit imprudens praedamque in proelia ducit:
ac velut ex alto cum magnus inhorruit auster
et pulsas evertit aquas, non arma ministris,
non regumen prodest, ligat alter pondera pinus,
alter tuta sinus tranquillaque litora quaerit:
hic dat vela fugae Fortunaeque omnia credit.
Quid tam parva queror? Gemino cum consule Magnus
ille tremor Ponti saevique repertor Hydaspis
et piratarum scopulus, modo quem ter ovantem
Iuppiter horruerat, quem tracto gurgite Pontus
et veneratus erat submissa Bosporos unda,
pro pudor! imperii deserto nomine fugit,
ut Fortuna levis Magni quoque terga videret.
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traduzione
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123 Rincuorato da tali presagi, le insegne di guerra
Cesare innalza e solo al comando affronta imprese mai viste.
Per prima la terra coperta di ghiaccio e di candide brine
non gli si oppone, restando immobile nel suo orrore.
Ma quando le schiere spezzarono la nebbia compatta
e il cavallo impaurito ruppe le croste gelate dell'acqua,
le nevi si sciolsero. Un attimo e fiumi creati dal nulla
sgorgarono dai monti, ma come a un ordine dato
si bloccavano anch'essi, con il flutto stupito di fronte
all'arresto, e ci? che prima era liquido, adesso era lastra da taglio.
Illuse allora i passi la crosta sempre malfida,
e i piedi sorprese: e insieme le schiere e i guerrieri
con le armi giacevano perduti in un mucchio confuso.
Ecco pure le nubi colpite da gelidi soffi
rovesciare il carico, e i venti irrompere a turbine,
e la grandine turgida scrosciava dal cielo sventrato.
Ormai le nubi stesse crollavano sfatte sulle schiere,
cozzando col ghiaccio come onde sul mare.
Vinta era la terra dal gelo, vinte anche le stelle,
e vinte le correnti che immobili tacevano a riva.
Ma non Cesare ancora, che appoggiato all'asta possente
col suo passo sicuro violava quegli orridi campi,
quale l'Anfitrioniade scese altero dal Caucaso,
o Giove cupo in volto cal? dalle vette d'Olimpo,
quando respinse i dardi dei Giganti al tramonto.
Mentre Cesare irato sconfigge quelle rocche superbe,
con un battito d'ali fremente la Fama veloce s'invola,
e del Palatino il punto pi? alto raggiunge,
ogni statua rimbomba di quel rombo romano:
navi corrono il mare e a ogni giogo delle Alpi
si addensano squadre coperte di sangue germano.
Armi, sangue, massacri, incendi e rovine di guerra
dinanzi agli occhi sfilano. Allora i cuori sconvolti
in tumulto dal panico sono scissi in due schiere.
Scappa questo per terra, confida quello nel mare,
della patria adesso pi? sicuro. Qualcuno vuole invece
la strada delle armi tentare e il fato seguire imperioso.
Quanto grande il terrore, tanto rapida ? la fuga. Ma ancora pi? in fretta,
- vista questa miseranda - nel pieno del caos lascia
il popolo la sua citt? deserta e va dove il cuore lo spinge.
Roma vuole fuggire, e i Quiriti sbaragliati a un semplice suono
di voce le case si lasciano dietro nel lutto.
Chi con mano tremante i figli sostiene, chi in seno
i Penati nasconde e piangendo varca per l'ultima volta la soglia,
e il nemico assente consacra nel voto alla morte.
Alcuni si stringono al petto angosciati le spose,
e i genitori anziani, mentre i giovani inadatti agli sforzi
salvano solo quel che han di pi? caro. Chi incauto trascina
con s? tutto quanto possiede, il bottino trasporta ai nemici.
? come quando l'Austro si leva imperioso dal largo,
e gonfia di colpi le onde, che allora alla ciurma
non serve pi? remo o timone, ma all'albero lega uno il suo peso,
mentre un altro cerca spiagge sicure in fondo a un golfo,
e un altro ancora spiega le vele e in tutto alla sorte si affida.
Ma questo ? ancora poco. Insieme ai due consoli il Grande,
lui terrore del Ponto, lui che ? giunto all'Idaspe selvaggio,
lui flagello dei pirati, che portato tre volte in trionfo,
Giove stesso aveva temuto, cui il Ponto dal vortice infranto
e il Bosforo dall'onda mansueta si erano inchinati,
lui - vergogna! - fuggiva gettando il suo nome di capo,
cos? che la Sorte bizzarra vedesse la schiena anche del Grande.
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