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Ovidio


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autore
brano
 
Petronio
Satiricon, 136
 
originale
 
[CXXXVI] Dum illa carnis etiam paululum delibat et dum coaequale natalium suorum sinciput in carnarium furca reponit, fracta est putris sella, quae staturae altitudinem adiecerat, anumque pondere suo deiectam super foculum mittit. Frangitur ergo cervix cucumulae ignemque modo convalescentem restinguit. Vexat cubitum ipsa stipite ardenti faciemque totam excitato cinere pertundit. Consurrexi equidem turbatus anumque non sine meo risu erexi; statimque, ne res aliqua sacrificium moraretur, ad reficiendum ignem in viciniam cucurrit. Itaque ad casae ostiolum processi cum ecce tres anseres sacri qui, ut puto, medio die solebant ab anu diaria exigere, impetum in me faciunt foedoque ac veluti rabioso stridore circumsistunt trepidantem. Atque alius tunicam meam lacerat, alius vincula calcumentorum resoluit ac trahit; unus etiam, dux ac magister saevitiae, non dubitavit crus meum serrato vexare morsu. Oblitus itaque nugarum, pedem mensulae extorsi coepique pugnacissimum animal armata elidere manu. Nec satiatus defunctorio ictu, morte me anseris vindicavi: Tales Herculea Stymphalidas arte coactas ad coelum fugisse reor, peneque fluentes Harpyias, cum Phineo maduere veneno fallaces epulae. Tremuit perterritus aether planctibus insolitis, confusaque regia coeli <. . .> Iam reliqui revolutam passimque per totum effusam pavimentum collegerant fabam, orbatique, ut existimo, duce redierant in templum, cum ego praeda simul atque vindicta gaudens post lectum occisum anserem mitto, vulnusque cruris haud altum aceto diluo. Deinde convicium verens, abeundi formavi consilium, collectoque cultu meo ire extra casam coepi. Necdum liberaveram cellulae limen, cum animadverto Oenotheam cum testo ignis pleno venientem. Reduxi igitur gradum proiectaque veste, tanquam expectarem morantem, in aditu steti. Collocavit illa ignem cassis harundinibus collectum, ingestisque super pluribus lignis excusare coepit moram, quod amica se non dimisisset tribus nisi potionibus e lege siccatis." Quid porro tu, inquit, me absente fecisti, aut ubi est faba?" Ego, qui putaveram me rem laude etiam dignam fecisse, ordine illi totum proelium eui, et ne diutius tristis esset, iacturae pensionem anserem obtuli. Quem anus ut vidit, tam magnum aeque clamorem sustulit, ut putares iterum anseres limen intrasse. Confusus itaque et novitate facinoris attonitus, quaerebam quid excanduisset, aut quare anseris potius quam mei misereretur.
 
traduzione
 
136 Mentre lei ? alle prese con un pezzettino di carne e col forchettone cerca di riappendere in dispensa quella testina che, occhio e croce, doveva avere la sua et?, lo sgabello tarlato sul quale era salita per arrivare fin lass? si sfascia e manda a gambe levate la vecchia, facendola planare con tutto il suo peso sul focolare. Di conseguenza si spacca anche l'orlo della pentola e il fuoco, che stava gi? per prendere, si spegne. Lei centra col gomito un tizzone ardente e la cenere che si solleva le sporca tutta la faccia. Io salto su in piedi tutto spaventato e, non senza sghignazzare, aiuto la vecchia a tirarsi su... e, per evitare ritardi al sacrificio, va subito dai vicini a farsi dare il necessario per riattizzare il fuoco. Io allora mi diressi verso l'ingresso della stamberga... quand'ecco che tre oche sacre, abituate intorno a mezzogiorno - mi immagino - a reclamare il becchime dalla vecchia, mi si avventano addosso e mi circondano da ogni parte, spaventandomi pure con un orrendo e rabbioso strepito. Una mi fa a pezzi la tunica, un'altra mi slega le stringhe dei calzari e se li porta via, mentre una terza, che guidava quell'assalto in piena regola, non esita a straziarmi un polpaccio col suo becco seghettato. Siccome di quel brutto scherzo non ne potevo davvero pi?, strappai una gamba alla tavola e cercai di liberarmi a mano armata da quella bestiaccia inferocita. E non mi limitai a qualche semplice colpo dimostrativo, ma mi vendicai stendendola morta al suolo: Cos? costretti dall'astuzia di Eracle, credo, al cielo fuggirono gli uccelli Stinfalidi, e rapide come corrente le Arpie quando a Fineo lordarono i tavoli stillando veleno sulle false mense. Trem? la volta celeste, squassata alle insolite grida, e fu scossa la reggia del cielo. * Nel frattempo le altre due oche si erano spazzolate le fave che, rotolando sul pavimento, si erano sparse dovunque e, sconfortate dalla perdita di quella che a mio avviso doveva essere il capo, se ne erano tornate nel tempio, quando io, raggiante per essermi rifatto portando via anche del bottino, nascondo dietro il letto l'oca uccisa e mi disinfetto con un po' di aceto la ferita non troppo profonda alla gamba. Per paura poi di doverla pagare cara, pensai bene di togliere il disturbo e, raccolta la mia roba, feci per uscire dalla stamberga. Ma non ne avevo ancora varcato la soglia, che vidi Enotea tornare sui suoi passi con un recipiente pieno di braci. Tirai subito indietro il piede e, dopo essermi tolto di nuovo il mantello, rimasi l? sulla porta, come se stessi aspettando il suo arrivo. Lei allora sistem? un po' di brace sotto le canne, ci mise sopra molta legna e cominci? a scusarsi del ritardo, dovuto a una vicina che non l'aveva lasciata andare via se non dopo aver buttato gi? i soliti tre bicchierini. ?E tu? disse poi ?che hai fatto mentre non c'ero? E le fave dove sono finite??. Convinto com'ero di aver compiuto chiss? quale prodezza, le raccontai per filo e per segno tutta la storia della battaglia e, perch? non stesse a pensarci troppo, le offrii l'oca come risarcimento al danno subito. Ma non appena la vecchia la vide, si mise a strillare cos? tanto e cos? forte, da dar l'impressione che le oche fossero di nuovo l? sulla porta. Impressionato, allora, e sbalordito da come si stava mettendo la faccenda, le chiesi perch? mai si fosse scaldata tanto e perch? si preoccupasse pi? dell'oca che di me.
 

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