Data:
19/05/2003 19.32.26
rispondi
al msg
nuovo
msg
cerca nel forum
torna
all'indice |
Tibullo, Elegie, II, 6, vv. 15-52
Acer Amor, fractas utinam tua tela sagittas, si licet, extinctas aspiciamque faces! tu miserum torques, tu me mihi dira precari cogis et insana mente nefanda loqui. iam mala finissem leto, sed credula uitam spes fouet et fore cras semper ait melius. spes alit agricolas, spes sulcis credit aratis semina quae magno faenore reddat ager: haec laqueo uolucres, haec captat harundine pisces, cum tenues hamos abdidit ante cibus: spes etiam ualida solatur compede uinctum: crura sonant ferro, sed canit inter opus: spes facilem Nemesim spondet mihi, sed negat illa. ei mihi, ne uincas, dura puella, deam. parce, per immatura tuae precor ossa sororis: sic bene sub tenera parua quiescat humo. illa mihi sancta est, illius dona sepulcro et madefacta meis serta feram lacrimis, illius ad tumulum fugiam supplexque sedebo et mea cum muto fata querar cinere. non feret usque suum te propter flere clientem: illius ut uerbis, sis mihi lenta ueto, ne tibi neglecti mittant mala somnia manes, maestaque sopitae stet soror ante torum, qualis ab excelsa praeceps delapsa fenestra uenit ad infernos sanguinolenta lacus. desino, ne dominae luctus renouentur acerbi: non ego sum tanti, ploret ut illa semel. nec lacrimis oculos digna est foedare loquaces: lena nocet nobis, ipsa puella bona est. lena necat miserum Phryne furtimque tabellas occulto portans itque reditque sinu: saepe, ego cum dominae dulces a limine duro agnosco uoces, haec negat esse domi: saepe, ubi nox mihi promissa est, languere puellam nuntiat aut aliquas extimuisse minas. tunc morior curis, tunc mens mihi perdita fingit, quisue meam teneat, quot teneatue modis:
Ch'io possa vedere, Amore sfrenato, spezzate le armi tue, le frecce, e, se ? possibile, spente le fiaccole! Tu mi tormenti, infelice che sono; tu mi costringi a imprecare contro me stesso e a bestemmiare come un insensato. Gi? da un pezzo avrei posto fine ai miei mali uccidendomi: ma una speranza ingenua mi scalda la vita, dicendomi sempre che sar? migliore il domani. La speranza alimenta i contadini, la speranza ai solchi arati affida le sementi, perch? il suolo le restituisca ad usura; al laccio lei prende gli uccelli e con la canna i pesci, quando il cibo in cima nasconde la punta dell'amo. La speranza consola anche chi ? avvinto in duri ceppi: gli risuona il ferro alle gambe, ma sul lavoro canta. La speranza mi promette una N?mesi arrendevole, ma invece lei si nega: ahim?, fanciulla spietata, non voler vincere una dea! Risparmiami, ti prego, per le ossa di tua sorella morta anzitempo: riposi la piccola in pace sotto la terra morbida; lei mi ? sacra: al suo sepolcro porter? offerte e corone intrise delle mie lacrime; accanto al suo tumulo mi rifuger?, sedendo supplichevole, e col suo cenere muto compianger? il mio destino. Lei non permetter? che il suo protetto pianga di continuo per causa tua: in nome suo ti proibisco di mostrarti indifferente con me, se non vuoi che i suoi Mani trascurati ti mandino sogni terrificanti e nel sonno non ti appaia davanti al letto la sorella afflitta, com'era il giorno in cui, precipitata dall'alto di una finestra, sanguinante raggiunse gli stagni infernali. Basta! Non voglio rinnovare alla mia donna il suo acerbo dolore: non valgo tanto da farla piangere anche una volta sola; non merita di deturpare con le lacrime quegli occhi suoi che sembrano parlare. ? una ruffiana la nostra rovina: lei, la fanciulla, ? buona. ? la ruffiana Frine che uccide questo infelice: va e viene di soppiatto, portando nascoste in seno le missive; spesso mi dice che lei non ? in casa, mentre io da una soglia impenetrabile riconosco la voce soave della mia donna; spesso, quando mi ? stata promessa una notte, mi annuncia che ? malata o che teme non so quali minacce. Muoio allora di dolore, e la mia mente sconvolta si perde a immaginare chi possieda la mia donna e in quanti modi la possieda.
Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 88-150
Aurea prima sata est aetas, quae vindice nullo, sponte sua, sine lege fidem rectumque colebat. 90 poena metusque aberant, nec verba minantia fixo aere legebantur, nec supplex turba timebat iudicis ora sui, sed erant sine vindice tuti. nondum caesa suis, peregrinum ut viseret orbem, montibus in liquidas pinus descenderat undas, 95 nullaque mortales praeter sua litora norant; nondum praecipites cingebant oppida fossae; non tuba derecti, non aeris cornua flexi, non galeae, non ensis erat: sine militis usu mollia securae peragebant otia gentes. 100 ipsa quoque inmunis rastroque intacta nec ullis saucia vomeribus per se dabat omnia tellus, contentique cibis nullo cogente creatis arbuteos fetus montanaque fraga legebant cornaque et in duris haerentia mora rubetis 105 et quae deciderant patula Iovis arbore glandes. ver erat aeternum, placidique tepentibus auris mulcebant zephyri natos sine semine flores; mox etiam fruges tellus inarata ferebat, nec renovatus ager gravidis canebat aristis; 110 flumina iam lactis, iam flumina nectaris ibant, flavaque de viridi stillabant ilice mella. Postquam Saturno tenebrosa in Tartara misso sub Iove mundus erat, subiit argentea proles, auro deterior, fulvo pretiosior aere. 115 Iuppiter antiqui contraxit tempora veris perque hiemes aestusque et inaequalis autumnos et breve ver spatiis exegit quattuor annum. tum primum siccis aer fervoribus ustus canduit, et ventis glacies adstricta pependit; 120 tum primum subiere domos; domus antra fuerunt et densi frutices et vinctae cortice virgae. semina tum primum longis Cerealia sulcis obruta sunt, pressique iugo gemuere iuvenci. Tertia post illam successit aenea proles, 125 saevior ingeniis et ad horrida promptior arma, non scelerata tamen; de duro est ultima ferro. protinus inrupit venae peioris in aevum omne nefas: fugere pudor verumque fidesque; in quorum subiere locum fraudesque dolusque 130 insidiaeque et vis et amor sceleratus habendi. vela dabant ventis nec adhuc bene noverat illos navita, quaeque prius steterant in montibus altis, fluctibus ignotis insultavere carinae, communemque prius ceu lumina solis et auras 135 cautus humum longo signavit limite mensor. nec tantum segetes alimentaque debita dives poscebatur humus, sed itum est in viscera terrae, quasque recondiderat Stygiisque admoverat umbris, effodiuntur opes, inritamenta malorum. 140 iamque nocens ferrum ferroque nocentius aurum prodierat, prodit bellum, quod pugnat utroque, sanguineaque manu crepitantia concutit arma. vivitur ex rapto: non hospes ab hospite tutus, non socer a genero, fratrum quoque gratia rara est; 145 inminet exitio vir coniugis, illa mariti, lurida terribiles miscent aconita novercae, filius ante diem patrios inquirit in annos: victa iacet pietas, et virgo caede madentis ultima caelestum terras Astraea reliquit. 150
Per prima fior? l'et? dell'oro, che senza giustizieri o leggi, spontaneamente onorava lealt? e rettitudine. Non v'era timore di pene, n? incise nel bronzo si leggevano minacce, o in ginocchio la gente temeva i verdetti di un giudice, sicura e libera com'era. Reciso dai suoi monti, nell'onda limpida il pino ancora non s'era immerso per scoprire terre straniere e i mortali non conoscevano lidi se non i propri. Ancora non cingevano le citt? fossati scoscesi, non v'erano trombe dritte, corni curvi di bronzo, n? elmi o spade: senza bisogno di eserciti, la gente viveva tranquilla in braccio all'ozio. Libera, non toccata dal rastrello, non solcata dall'aratro, la terra produceva ogni cosa da s? e gli uomini, appagati dei cibi nati spontaneamente, raccoglievano corbezzoli, fragole di monte, corniole, more nascoste tra le spine dei rovi e ghiande cadute dall'albero arioso di Giove. Era primavera eterna: con soffi tiepidi gli Zefiri accarezzavano tranquilli i fiori nati senza seme, e subito la terra non arata produceva frutti, i campi inesausti biondeggiavano di spighe mature; e fiumi di latte, fiumi di nettare scorrevano, mentre dai lecci verdi stillava il miele dorato. Quando Saturno fu cacciato nelle tenebre del Tartaro e cadde sotto Giove il mondo, subentr? l'et? d'argento, peggiore dell'aurea, ma pi? preziosa di quella fulva del bronzo. Giove ridusse l'antica durata della primavera e divise l'anno in quattro stagioni: l'inverno, l'estate, un autunno variabile e una breve primavera. Allora per la prima volta l'aria si fece di fuoco per l'arsura o si rapprese in ghiaccio per i morsi del vento; per la prima volta servirono case, e furono grotte, arbusti fitti, verghe legate insieme da fibre; allora in lunghi solchi si seminarono i cereali e sotto il peso del giogo gemettero i giovenchi. Terza a questa segu? l'et? del bronzo: d'indole pi? crudele e pi? proclive all'orrore delle armi, ma non scellerata. L'ultima fu quella ingrata del ferro. E subito, in quest'epoca di natura peggiore, irruppe ogni empiet?; si persero lealt?, sincerit? e pudore, e al posto loro prevalsero frodi e inganni, insidie, violenza e smania infame di possedere. Senza conoscerli bene, il marinaio diede le vele ai venti, e le carene, che un tempo stavano in cima ai monti, si misero a battere flutti sconosciuti. Sulla terra, comune a tutti prima, come la luce del sole o l'aria, il contadino tracci? con cura lunghi confini. E non si pretese solo che questa, nella sua ricchezza, desse messi e alimenti, ma si penetr? nelle sue viscere a scavare i tesori che nasconde vicino alle ombre dello Stige e che sono stimolo ai delitti. Cos? fu estratto il ferro nocivo e pi? nocivo ancora l'oro: e comparve la guerra, che si combatte con entrambi e scaglia armi di schianto con mani insanguinate. Si vive di rapina: l'ospite ? alla merc? di chi l'ospita, il suocero del genero, e concordia tra fratelli ? rara. Trama l'uomo la morte della moglie e lei quella del coniuge; terribili matrigne mestano veleni lividi; il figlio scruta anzitempo gli anni del padre. Vinta giace la piet?, e la vergine Astrea, ultima degli dei, lascia la terra madida di sangue.
Fonte tradd. www.bibliomania.it
|