Il mio amato Carlo Michelstaedter
scrisse che "la rabbia è il Leitmotiv della vita sociale".
I cosiddetti "fatti di Genova", dello scorso anno, col
loro tragico epilogo, ci hanno proiettato improvvisamente, e malauguratamente,
in questa verità tanto lapalissiana, quanto scomoda. Forse
più di ogni guerra, intelligente o meno, gustata via cavo
o via etere. Ci siamo sorpresi a pensare (anch'io, lo ammetto)
al fatto che anche in Italia cova la rabbia: che strano
Ora, al di là di ogni becero moralismo, mi vien da rincarare
la dose: forse la rabbia è il Leitmotiv dell'intera vita
storica, privata e pubblica, dell'uomo. Questa passione (affectus)
così devastante e rovinosa. Seneca lo intuì molto
bene, e ne dovette avere ampie riprove, lui, ch'era impastoiato
nelle beghe della politica reale almeno quanto nelle sue utopie
di politica ideale. Molte decisioni e azioni della politica reale
sono, infatti, prese in preda alla rabbia: la reazione americana
all'11 settembre ne è stata una tipica dimostrazione.
Poco meno di duemila anni fa (corsi e ricorsi) imperatori, che
la storia ci ha tramandati come scriteriati e "iracondi",
facevano il bello e brutto tempo a Roma.
Di questa politica in certo modo "metereopatica" fu
vittima, come sappiamo, lo stesso Seneca, che già doveva
averne avuto sentore, quando pensò bene di lasciare capra
e cavoli e rifugiarsi in un meditabondo "otium". Ma
l'ira, l'ira. Come sconfiggerla? Come evitare ch'essa si impossessi
degli individui, o ancor peggio, dei popoli o, peggio ancora,
di coloro che hanno nelle mani il destino dei popoli?
Una buona terapia ha bisogno di un'attenta diagnosi: sviscerare
cause palesi e latenti, fare quella che in gergo si chiama "eziologia
del male": attestarne sintomi e fenomenologie, abbozzare
definizioni e rimedi, cercare, insomma, per quanto possibile,
di "razionalizzare" il problema, ricostruirne, direbbe
Foucault, l'archeologia. E' ciò che appunto cerca di fare
Seneca, in questo trattato - "anomalo" rispetto agli
altri per impostazione generale, mole e complessità - in
tre libri, scritto forse nel 41 e dedicato al fratello Novato.
Come impedire il proliferare di tanti Caligola e Claudio?
Personalmente, ritengo il De ira un'opera preparatoria (a prescindere
dalla cronologia) a quel che dovette essere, per Seneca, l'intuizione
lampante e risolutiva: l'antonimo dell'ira è evidentemente
la clemenza (da qui l'omonimo dialogo), la capacità di
perdonare, o meglio di "amministrare il perdono", se
vogliamo dir così. La clemenza, quindi, prima che una virtù
morale e umana è una virtù "politica".
E l'ira, prima che uno strumento "politico" (virgoletto
perché intendo in senso ampio) di distruzione, è
un'aberrazione tipicamente umana.
Il pretesto storico, e l'urgenza insieme politica e morale, spinsero
Seneca ad un affascinante scandaglio "parenetico" dell'animo
umano: la riflessione filosofica e l'attualità si intrecciano
e si confondono, e anche il retaggio stoico fatica a trovare il
bandolo della matassa. E allora Seneca insiste: le sue analisi
si fanno minimaliste, martellanti (per alcuni è solo prova
di ripetività e farraginosità del "dialogo"),
torna più volte sugli stessi punti, in una struttura ad
anello in cui il capo cerca continuamente di afferrare la coda,
in una teoria di distinzioni e polemiche (contro Aristotele, ad
esempio) all'apparenza sottili e "sofisticate", ma in
realtà miranti ad illuminare nel dettaglio.
Cos'è l'ira? Vale allora la pena di scoprirlo insieme.
...:::Bukowski:::...