Ed ecco, alla fine, Cicerone, croce e delizia di molti studenti.
Ho scelto un brano, anche in questo caso, appartenente ad un’opera
non rinvenibile su internet e, anche in questo caso, ricca di particolarità
stilistico-sintattiche (con stile epistolare incluso). E’
un brano paradigmatico della polemica (costante) di Cicerone contro
Epicuro, polemica che qui assume toni particolarmente ironici (e
anche un po’, permettetemi, fuori luogo, data la speculazione
fatta sulle sofferenze di Epicuro in punto di morte) e si ritaglia
sul tema centrale della concezione della morte. Che la morte abbia
un senso e un “oltre” (senso e “oltre” invece
negato dall’epicureismo) è per Cicerone di grandissima
importanza, ed è anzi – oserei dire – uno degli
assunti cardine della sua visione filosofico-politica: solo l’idea
e la convinzione di una morte gloriosa, ovvero di un “oltre”
glorioso dopo la morte, può infatti essere di sprone per
il soldato e per l’uomo politico ad agire, solo ed esclusivamente,
per il bene della Patria; e la paura della morte è altresì
un’arma efficace di dissuasione contro i nemici e i malvagi
e gli inetti; insomma, la morte stessa dà senso alla vita,
ad una vita degna di essere vissuta operando a vantaggio della pace,
della tranquillità e del benessere comunitari, e non solo
personali.
>>> M. Tullius
Cicero, De finibus bonorum et malorum, II, 96-97 passim
[96]
Audi,
ne longe
abeam, moriens
quid dicat
Epicurus, ut intellegas facta eius cum dictis discrepare: 'Epicurus
Hermarcho salutem.
Cum
ageremus',
inquit, 'vitae beatum et eundem supremum diem, scribebamus haec.
Tanti autem aderant vesicae et torminum morbi, ut nihil ad eorum
magnitudinem posset accedere.' Miserum hominem! Si dolor summum
malum est, dici aliter non potest. sed audiamus ipsum: 'Compensabatur',
inquit, 'tamen cum his omnibus animi laetitia, quam capiebam memoria
rationum inventorumque nostrorum. sed tu, ut dignum est tua erga
me et philosophiam voluntate ab adolescentulo suscepta, fac ut Metrodori
tueare liberos.'
[97] non ego iam Epaminondae,
non Leonidae mortem huius morti antepono, quorum alter
cum vicisset Lacedaemonios apud Mantineam atque ipse gravi vulnere
exanimari se videret, ut primum
dispexit, quaesivit
salvusne esset clipeus. cum salvum esse flentes sui respondissent,
rogavit essentne fusi hostes. cum id quoque, ut cupiebat, audivisset,
evelli iussit
eam, qua erat transfixus, hastam. ita multo sanguine profuso in
laetitia et in victoria est mortuus. Leonidas autem, rex Lacedaemoniorum,
se in Thermopylis trecentosque eos, quos eduxerat Sparta,
cum esset proposita aut fuga turpis aut gloriosa mors, opposuit
hostibus. Praeclarae mortes sunt imperatoriae;
philosophi autem in suis lectulis plerumque moriuntur. Refert tamen,
quo modo. <beatus> sibi videtur esse moriens. Magna laus.
'Compensabatur', inquit, 'cum summis doloribus laetitia.'
>>> M.
Tullio Cicerone, I termini estremi del bene e del male, II, 96-97
[96]
Non mi dilungo: ascolta piuttosto ciò che Epicuro scrive
in punto di morte, tal che tu possa comprendere che le sue azioni
contraddicono le sue parole: “Epicuro saluta Emarco. Ti scrivo
questa lettera in un giorno che, per me, è felice, benché
ultimo. Soffro dolori insopportabili – nulla potrebbe aumentarne
la soglia – alla vescica ed all’intestino”. Pover’uomo!
Se il dolore è veramente il più grande dei mali (come
lui afferma), non lo si potrebbe definire altrimenti! Ma ascoltiamo
ancora le sue parole: “Ogni cosa dolorosa è però
compensata dalla letizia dell’animo, letizia ch’io provo
riandando col pensiero alle nostre acquisizioni filosofiche. Ma
tu, come s’addice all’amore ed al rispetto che provi
verso di me e verso la filosofia, amore che nutri da quand’eri
giovinetto, prenditi cura dei figli di Metrodoro”.
[97] Ora, io non voglio
certo anteporre la morte di Epaminonda
o quella di Leonida alla morte di costui. Epaminonda, dopo aver
sconfitto gli Spartani a Mantinea, sentendosi venir meno per una
grave ferita riportata, non appena rinvenne, chiese se il suo scudo era salvo; dopo che i suoi intimi, piangendo, gli ebbero risposto
che, sì, lo scudo era salvo, egli chiese se i nemici erano
stati sbaragliati; sentitosi rispondere, anche su ciò, come
desiderava, si fece estrarre l’asta da cui era stato trafitto;
morì così in seguito al dissanguamento, ma lieto e
vittorioso.
Passando a Leonida, il re di Sparta, costui, alle Termopili, dovendo
scegliere tra una vergognosa fuga o una gloriosa morte, pur si oppose
al nemico, insieme ai trecento uomini che aveva condotto, ai propri
ordini, da Sparta.
Le morti dei grandi condottieri si fregiano d’immensa gloria;
i filosofi, invece, muoiono generalmente sui loro pensatoi! Del
resto, importa il modo in cui si muore.
Epicuro, in punto di morte, si reputa felice: grande merito. “Ogni
cosa dolorosa è compensato dalla letizia dell’animo”,
queste le sue parole.
Trad. Bukowski/copyleft
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