Descolarizzazione. "[...] si toglie ai poveri il rispetto per se stessi convertendoli a un credo che assicura la salvezza solo mediante la scuola. La chiesa per lo meno lasciava la possibilità di redimersi nell'ora della morte; la scuola lascia soltanto l'aspettativa (contraffazione della speranza) che ce la faranno i nipoti. [...] Sotto l'occhio autoritario dell'insegnante, parecchi ordini di valore si riducono ad uno solo. Le distinzioni tra morale, legalità e dignità personale si attenuano sino a sparire. Ogni trasgressione viene fatta sentire come un cumulo di mancanze: il colpevole è tenuto a rendersi conto che, in un sol colpo, ha violato una regola, si è comportato in modo immorale e si è screditato. L'allievo che riesce abilmente a farsi aiutare durante una prova d'esame è un fuorilegge, un essere moralmente corrotto, una persona indegna. [...] Il mero fatto che esistano scuole obbligatorie divide ogni società in due regni: certi periodi o processi o metodi o professioni sono "accademici" o "pedagogici", mentre altri non lo sono. Il potere della scuola di dividere in questo modo la realtà sociale è illimitato: l'educazione viene staccata dal mondo e il mondo diviene non educativo. [...] Certo il dare a tutti eguali possibilità d'istruzione è un obbiettivo auspicabile e raggiungibile, ma identificare questo obbiettivo nella scolarizzazione obbligatoria è come confondere la salvezza eterna con la chiesa." [fonte: Ivan Illich, "Descolarizzare la società", citato in http://www.geocities.com/CapitolHill/Senate/3671/ILLICH.htm]

 

 

Valerio Massimo
Seneca
Cicerone

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CICERONE



Ed ecco, alla fine, Cicerone, croce e delizia di molti studenti. Ho scelto un brano, anche in questo caso, appartenente ad un’opera non rinvenibile su internet e, anche in questo caso, ricca di particolarità stilistico-sintattiche (con stile epistolare incluso). E’ un brano paradigmatico della polemica (costante) di Cicerone contro Epicuro, polemica che qui assume toni particolarmente ironici (e anche un po’, permettetemi, fuori luogo, data la speculazione fatta sulle sofferenze di Epicuro in punto di morte) e si ritaglia sul tema centrale della concezione della morte. Che la morte abbia un senso e un “oltre” (senso e “oltre” invece negato dall’epicureismo) è per Cicerone di grandissima importanza, ed è anzi – oserei dire – uno degli assunti cardine della sua visione filosofico-politica: solo l’idea e la convinzione di una morte gloriosa, ovvero di un “oltre” glorioso dopo la morte, può infatti essere di sprone per il soldato e per l’uomo politico ad agire, solo ed esclusivamente, per il bene della Patria; e la paura della morte è altresì un’arma efficace di dissuasione contro i nemici e i malvagi e gli inetti; insomma, la morte stessa dà senso alla vita, ad una vita degna di essere vissuta operando a vantaggio della pace, della tranquillità e del benessere comunitari, e non solo personali.


>>> M. Tullius Cicero, De finibus bonorum et malorum, II, 96-97 passim

[96] Audi, ne longe abeam, moriens quid dicat Epicurus, ut intellegas facta eius cum dictis discrepare: 'Epicurus Hermarcho salutem. Cum ageremus', inquit, 'vitae beatum et eundem supremum diem, scribebamus haec. Tanti autem aderant vesicae et torminum morbi, ut nihil ad eorum magnitudinem posset accedere.' Miserum hominem! Si dolor summum malum est, dici aliter non potest. sed audiamus ipsum: 'Compensabatur', inquit, 'tamen cum his omnibus animi laetitia, quam capiebam memoria rationum inventorumque nostrorum. sed tu, ut dignum est tua erga me et philosophiam voluntate ab adolescentulo suscepta, fac ut Metrodori tueare liberos.'

[97] non ego iam Epaminondae, non Leonidae mortem huius morti antepono, quorum alter cum vicisset Lacedaemonios apud Mantineam atque ipse gravi vulnere exanimari se videret, ut primum dispexit, quaesivit salvusne esset clipeus. cum salvum esse flentes sui respondissent, rogavit essentne fusi hostes. cum id quoque, ut cupiebat, audivisset, evelli iussit eam, qua erat transfixus, hastam. ita multo sanguine profuso in laetitia et in victoria est mortuus. Leonidas autem, rex Lacedaemoniorum, se in Thermopylis trecentosque eos, quos eduxerat Sparta, cum esset proposita aut fuga turpis aut gloriosa mors, opposuit hostibus. Praeclarae mortes sunt imperatoriae; philosophi autem in suis lectulis plerumque moriuntur. Refert tamen, quo modo. <beatus> sibi videtur esse moriens. Magna laus. 'Compensabatur', inquit, 'cum summis doloribus laetitia.'

 

>>> M. Tullio Cicerone, I termini estremi del bene e del male, II, 96-97

[96] Non mi dilungo: ascolta piuttosto ciò che Epicuro scrive in punto di morte, tal che tu possa comprendere che le sue azioni contraddicono le sue parole: “Epicuro saluta Emarco. Ti scrivo questa lettera in un giorno che, per me, è felice, benché ultimo. Soffro dolori insopportabili – nulla potrebbe aumentarne la soglia – alla vescica ed all’intestino”. Pover’uomo! Se il dolore è veramente il più grande dei mali (come lui afferma), non lo si potrebbe definire altrimenti! Ma ascoltiamo ancora le sue parole: “Ogni cosa dolorosa è però compensata dalla letizia dell’animo, letizia ch’io provo riandando col pensiero alle nostre acquisizioni filosofiche. Ma tu, come s’addice all’amore ed al rispetto che provi verso di me e verso la filosofia, amore che nutri da quand’eri giovinetto, prenditi cura dei figli di Metrodoro”.

[97] Ora, io non voglio certo anteporre la morte di Epaminonda o quella di Leonida alla morte di costui. Epaminonda, dopo aver sconfitto gli Spartani a Mantinea, sentendosi venir meno per una grave ferita riportata, non appena rinvenne, chiese se il suo scudo era salvo; dopo che i suoi intimi, piangendo, gli ebbero risposto che, sì, lo scudo era salvo, egli chiese se i nemici erano stati sbaragliati; sentitosi rispondere, anche su ciò, come desiderava, si fece estrarre l’asta da cui era stato trafitto; morì così in seguito al dissanguamento, ma lieto e vittorioso.
Passando a Leonida, il re di Sparta, costui, alle Termopili, dovendo scegliere tra una vergognosa fuga o una gloriosa morte, pur si oppose al nemico, insieme ai trecento uomini che aveva condotto, ai propri ordini, da Sparta.
Le morti dei grandi condottieri si fregiano d’immensa gloria; i filosofi, invece, muoiono generalmente sui loro pensatoi! Del resto, importa il modo in cui si muore.
Epicuro, in punto di morte, si reputa felice: grande merito. “Ogni cosa dolorosa è compensato dalla letizia dell’animo”, queste le sue parole.

Trad. Bukowski/copyleft

 

 

SPIGOLATURE a proposito...


... di Stoicismo ed Epicureismo a Roma. Come Il fatto che lo stoicismo abbia incontrato nella Roma antica il maggior successo, sta a testimoniare il suo carattere conformistico, ligio al potere dominante. Da questo punto di vista l'epicureismo è stato più trasgressivo dello stoicismo, seppure in maniera individualistica, spoliticizzata.
A Roma lo stoicismo si affermò non in maniera "pura" (alla greca), ma frammisto a eclettismo e scetticismo (vedi Cicerone), mentre l'epicureismo si legò alla cultura trasgressiva (vedi Lucrezio [a fianco, un suo busto]). Lo stoicismo ha sofferto soltanto sotto l'oppressione di alcuni imperatori tiranni, ma se gli stoici, in quei periodi, venivano espulsi da Roma, gli epicurei venivano addirittura perseguitati.
Tuttavia, è degno di nota il fatto che proprio nella civiltà romana lo stoicismo (in Seneca) ha saputo così tanto approfondire il lato umano delle cose e l'interiorità soggettiva, da avvicinarsi (moralmente) alla migliore speculazione cristiana. In tutta la filosofia greca non si era mai arrivati ad affermare il dualismo tra piena consapevolezza della verità e non-volontà di applicarla.
La filosofia greca aspirava alla coerenza oggettiva di teoria e prassi, mentre quella latina ha sempre dato per scontato che tale coerenza fosse una meta impossibile. Paradossalmente vi è stato più soggettivismo nello stoicismo romano che non in quello greco, austero e rigoroso.
Lo stoicismo romano, pur riflettendo una struttura politico-istituzionale molto più imponente di quella greca, pur avendo accentuato il lato pratico della filosofia greca (a totale discapito di quello logico-dialettico e fisico), si è sempre posto su di un terreno del tutto conformistico e soggettivo.
Questo forse sta a significare che l'oggettività può essere anche un'acquisizione meramente intellettuale, a prescindere cioè dalle realizzazioni politiche che lo Stato cui si appartiene riesce a conseguire. Anzi, può essere stata proprio la scarsa capacità di riflessione ad aver indotto il mondo romano ad attribuire poca importanza all'oggettività teoretica.
Per il mondo romano l'unica vera oggettività era costituita dalla ragion di stato (che altro non era se non il frutto dell'arbitrio imperiale), nonché dal diritto, il quale però non faceva che riflettere gli interessi soggettivi, antagonistici, delle classi dominanti.
[fonte: dentronapoli.it]



... della concezione della morte in Epicuro. […] Abìtuati a pensare che per noi uomini la morte è nulla, perché ogni bene e ogni male consiste nella sensazione, e la morte è assenza di sensazioni. Quindi il capir bene che la morte è niente per noi rende felice la vita mortale, non perché questo aggiunga infinito tempo alla vita, ma perché toglie il desiderio dell'immortalità. Infatti non c'è nulla da temere nella vita se si è veramente convinti che non c'è niente da temere nel non vivere più. Ed è sciocco anche temere la morte perché è doloroso attenderla, anche se poi non porta dolore. La morte infatti quando sarà presente non ci darà dolore, ed è quindi sciocco lasciare che la morte ci porti dolore mentre l'attendiamo. Quindi il più temibile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c'è la morte, quando c'è la morte non ci siamo più noi. La morte quindi è nulla, per i vivi come per i morti: perché per i vivi essa non c'è ancora, mentre per quanto riguarda i morti, sono essi stessi a non esserci.

La maggior parte delle persone, però, fuggono la morte considerandola come il più grande dei mali, oppure la cercano come una liberazione dai mali della vita. Il saggio invece non rifiuta la vita e non ha paura della morte, perché non è contro la vita ed allo stesso tempo non considera un male il non vivere più. Il saggio, così come non cerca i cibi più abbondanti, ma i migliori, così non cerca il tempo più lungo, ma cerca di godere del tempo che ha. è da stolti esortare i giovani a vivere bene ed i vecchi a morire bene, perché nella vita stessa c'è del piacere, ed è la stessa cosa l'arte di vivere bene e di morire bene.
Certo, è peggio chi dice: è bello non esser mai nati "ma, se si è nati, è bello passare al più presto le soglie dell'Ade". Se chi dice queste cose ne è convinto, perché non abbandona la vita'? è in suo potere farlo, se questa è la sua opinione e parla seriamente. Se invece scherza, parla da stolto su cose su cui non c'è proprio da scherzare.
Dobbiamo inoltre ricordarci che il futuro non è interamente nelle nostre mani, ma in qualche modo lo è, anche se in parte. Quindi non dobbiamo aspettarci che si avveri del tutto, ma non dobbiamo neppure disperare che esso non si avveri affatto. […]
[fonte: Lettera e Meneceo, in ilgiardinodeipensieri.com]


 

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