Il tradurre. "Tradurre è un atto che si compie al fine di permettere a chi non conosce una lingua straniera di leggere e comprendere quel che si scrive e si dice in quella lingua. La traduzione è un servizio offerto alla comunicazione: letteralmente, tradurre significa 'trasportare, trasferire'. In effetti è proprio questo che fa il traduttore, utilizzando gli strumenti che lo aiutano nel suo lavoro: dizionari di vario tipo, come i bilingue, i monolingue, gli etimologici, gli idiomatici, le enciclopedie. Per poter lavorare con serenità, il traduttore deve conoscere molto bene la lingua di partenza, cioè quella da cui traduce, e benissimo quella di arrivo, cioè quella in cui traduce. Deve anche avere a portata di mano un pozzo di informazioni culturali, sociali e letterarie da cui attingere tutta una serie di informazioni preziosissime sul contesto della lingua da cui traduce. Questo perché il trasporto letterale, di servizio o "parola per parola" di un testo da una lingua a un'altra non sempre è sufficiente per rendere una traduzione leggibile. Non si tratta soltanto di prendere un vocabolo, sistemarselo nello zaino e portarlo da un punto a un altro del mappamondo. Quel vocabolo richiede tutto un insieme di riferimenti senza i quali non avrebbe senso. Lo stesso vale per alcune frasi che possono costituire espressioni idiomatiche, tipiche cioè della lingua in cui vengono utilizzate, ma che, tradotte letteralmente, perdono significato o suonano cariche di oscuri presagi..." [fonte: adnkronos.com]

 

 

Valerio Massimo
Seneca
Cicerone

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SENECA



Nell’analisi dei brani, tocca ora a Seneca. Ho scelto un passo pregno e ricco di riflessioni e di spunti sintattico/grammaticali, non a caso dal “De clementia”, un’opera non proprio “facile” che a tutt’oggi latita, sul web. Il leitmotiv del passo è che bisogna gestire con moderazione le proprie prerogative di padronanza nei confronti dei servi e degli schiavi, anch’essi essere umani, e come tali tutelati da una sorta di principio “bioetico”. E’ quasi un’epitome della famosa lettera 47 a Lucilio, sulla schiavitù, la lettera che più ha attirato, nei secoli, le simpatie verso il filosofo, facendolo apparire (a torto o a ragione) il paladino delle fasce deboli, per quanto ispirato da una temperie filantropica non originale, ma tipicamente stoica, o stoicheggiante. Il paragrafo, pur nella sua brevità, mi conferma un’impressione che ho sempre propugnato, a riguardo del concetto di “clementia” in Seneca, e che si compendia nella definizione che ho coniato ad hoc per essa: “gestione politica del perdono” [cfr. la mia traduzione, per ora interrotta, del De ira].


>>> Seneca, De clementia, III, 16

[XVI] 1. Servis imperare moderate laus est. Et in mancipio cogitandum est, non quantum illud impune possit pati, sed quantum tibi permittat aequi bonique natura, quae parcere etiam captivis et pretio paratis iubet. Quanto iustius iubet hominibus liberis, ingenuis, honestis non ut mancipiis abuti sed ut his, quos gradu antecedas quorumque tibi non servitus tradita sit, sed tutela. 2. Servis ad statuam licet confugere; cum in servum omnia liceant, est aliquid, quod in hominem licere commune ius animantium vetet. Quis non Vedium Pollionem peius oderat quam servi sui, quod muraenas sanguine humano saginabat et eos, qui se aliquid offenderant, in vivarium, quid aliud quam serpentium, abici iubebat? O hominem mille mortibus dignum, sive devorandos servos obiciebat muraenis, quas esurus erat, sive in hoc tantum illas alebat, ut sic aleret.
3. Quemadmodum domini crudeles tota civitate commonstrantur invisique et detestabiles sunt, ita regum et iniuria latius patet et infamia atque odium saeculis traditur; quanto autem non nasci melius fuit, quam numerari inter publico malo natos.

 

>>> Seneca, La Clemenza, III, 16

[16] Viene ascritto a titolo di merito il comandare ai servi con moderazione. E anzi, a riguardo di uno schiavo, bisogna pensare non a quanto egli sia in grado di subire impunemente, ma ai limiti che c’impone l’essenza stessa della giustizia e del bene, che ingiunge il rispetto anche nei confronti dei prigionieri e della merce umana e che altresì, tanto più giustamente, ingiunge di non trattare uomini liberi – ovvero di liberi ed onorevoli natali – alla stregua di schiavi, ma quali individui che vengono affidati non al possesso, bensì alla tutela, di un uomo che è loro superiore (non per natura ma solo) per estrazione sociale.
I servi devono avere il diritto di cercare asilo presso le statue! Benché, nei confronti del servo, ogni genere di prevaricazione sia consentita, pur c’è qualcosa che il diritto comune degli esseri viventi vieta che sia perpetrato contro lo schiavo in quanto essere umano.
Chi non odiava, più dei suoi servi, Vedio Pollione, che aveva il vizio di rimpinguare le murene con sangue umano, e faceva gettare nel vivaio di bestie anguilliformi chiunque gli avesse fatto un pur minimo torto? Che uomo meritevole di crepare mille volte, sia che gettasse i propri servi in pasto alle murene, per renderle più succulente, sia che le nutrisse in tal modo, solo per il semplice gusto di farlo!
Ebbene, come i padroni crudeli vengono puntati a dito in tutta la città, e riescono malvisti e detestabili, così, ancor di più, spiccano le prepotenze regali, la cui odiosa nomea diviene lascito ai posteri; ah, quanto sarebbe stato meglio non nascere affatto, piuttosto che esser annoverati nella canaglia di coloro che son nati per attentare al genere umano.

Trad. Bukowski/copyleft

 

 

SPIGOLATURE a proposito...


... di un efferato, mio quasi conterraneo: Publio Vedio Pollione. Come è noto dalle fonti, Publio Vedio Pollione fu uno degli uomini più ricchi della tarda repubblica, che da origini libertine (i Vedii erano una famiglia già facoltosa di Benevento), riuscì a raggiungere il rango di equestre e, nel periodo di confusione successivo alla battaglia di Azio, ad assumere, benché solo cavaliere, il governo dell' Asia, una delle più ricche province romane, prima che fosse istituito il normale posto di proconsole di rango senatorio. La sua cattiva nomea che risale a Cicerone, il quale, dopo un incontro con lui in Cilicia, affermò 'nunquam vidi hominem nequiorem' ('mai ho visto un uomo più iniquo'), fu arricchita anche da alcuni episodi scandalosi: nel suo bagaglio, finito in mani diverse dalle sue a causa della morte del liberto cui era stato affidato, furono trovati cinque medaglioni dipinti, con i ritratti di altrettante signore della migliore società di Roma, che gli avevano incautamente donato tali pegni d'amore. Anche se dopo il governo d'Asia non ricoprì alcuna magistratura, Pollione per tutta la vita restò partigiano fedele di Augusto, in onore del quale, come aveva fatto già in Asia, a Tralles, fece costruire a Benevento, sua città natale, un tempio, il Cesareo. Ma Augusto, dopo Azio, aveva dato inizio a un nuovo modello culturale e politico, propugnando il ritorno agli ideali antichi: Vedio Pollione, ultimo superstite dei grandi piscinarii della generazione precedente, con le sue ricchezze ammucchiate più o meno lecitamente, con il lusso delle sue dimore, con una fama così cattiva, costituiva ormai un peso imbarazzante per l'imperatore. L'occasione per ristabilire le distanze con Pollione avvenne proprio nella villa Pausilypon [“tregua al dolore”; la bellissima Posillipo, a Napoli (nella foto, una vista), prende il nome appunto da tale Villa]: come ci viene riferito da Cassio Dione, Seneca e Plinio, il coppiere di Pollione aveva rotto un prezioso calice murrino e il padrone aveva dato ordine di gettarlo in pasto alle murene che venivano allevate nelle peschiere della villa. Augusto intervenne decisamente, non solo salvando la vita allo schiavo, ma anche ordinando di infrangere l'intera collezione di vetri preziosi sotto gli occhi di Pollione. La rottura non valse tuttavia a cancellare del tutto la macchia di questo antico legame, che, secondo quanto riporta Tacito, alla morte dell'imperatore veniva ancora rimproverato ad Augusto, sebbene questi avesse continuato a prendere le distanze. Quando infatti nel 15 a.C. Vedio Pollione morì lasciandolo erede dei suoi immensi beni, con la clausola che gli fosse eretto a spese pubbliche un monumento funerario, Augusto non consentì su questo punto; anzi fece radere al suolo il suo magnifico palazzo, ora suo, che Pollione aveva eretto sull' Esquilino, in cui nel 22 a.C. erano stati accolti i principi giudei Alessandro e Aristobulo, figli di Erode, e vi costruì sopra un edificio pubblico, il Portico di Livia. [fonte: dentronapoli.it]



... dei... pesci nell'antica Roma. Uno storico attento dei costumi dell'antica Roma potrebbe molto verosimilmente misurare il progressivo ingrandirsi territoriale dell'Impero dalle qualità di pesce che comparivano sulle sue mense, poiché dalle umili origini di una cucina povera e fiera, si passa, in quattro secoli di folgoranti vittorie militari, alle follie deliranti e truculente dei banchetti petroniani.
Nell'antichità la pesca era stata une delle principali risorse alimentari delle mense povere nell'area mediterranea, tanto che i greci non consideravano il pesce degno di essere offerto all'ospite e infatti la pastorizia era ancora fonte primaria di approvvigionamento per i cuochi addetti alle mense di riguardo. Ma, pian piano, proprio per la sagace opera dei cuochi, si comincia ad apprezzarne le carni delicate e le elaborazioni sapienti.

L'esercizio della pesca era considerato, già dai tempi di Platone e fino a quelli dello storico Plutarco, un'occupazione non degna di persone perbene, anche se poi sappiamo che furono appassionati pescatori con l'amo Antonio e Cleopatra e gli imperatori Augusto, Marcaurelio e Commodo.
I sistemi di pesca poco si discostavano da quelli di oggi: si pescava con l'amo, con la rete, con il filaccione, con la nassa, con il tridente, con la lampara legata davanti alla barca o alla luce di una torcia di resina. E sebbene fosse considerato un lavoro umile, questa attività occupava un sempre maggior numero di lavoratori, man mano che si diffondeva e prendeva piede il gusto per il pesce raro, raffinato o di grandi dimensioni. I Romani avevano studi molto avanzati sulle condizioni climatiche, sulle ore e sui periodi più adatti alla pesca, sulle abitudini dei pesci. Le campagne di pesca, soprattutto al tonno, erano molto specializzate e si svolgevano dal 15 maggio al 25 ottobre. Esistevano torri di avvistamento sui promontori, nelle quali schiavi particolarmente addestrati erano incaricati di dare il segnale del passaggio dei tonni: stavano ore e ore immobili a fissare l'acqua ed erano abilissimi a riconoscere il sopraggiungere del branco dal movimento dell'acqua o dal suo mutar di colore.

Poi, via via che la richiesta di pesce fresco e raro si fa più pressante, ecco sorgere sempre più numerosi i vivai, alcuni dei quali furono dei veri capolavori di ingegneria idraulica, arte nella quale i Romani non ebbero rivali. Di alcuni vivai marittimi ci sono pervenuti i progetti costruttivi; i primi furono per pesci di acqua dolce, successivamente si costruirono quelli alimentati con l'acqua di mare. Il quarto e quinto piano dei mercati traianei era riservato alle piscine e l'acqua di mare era lì convogliata direttamente da Ostia, cosicché il gourmet poteva farsi pescare dagli schiavi addetti, le trote salmonate della Mosella o quelle pescate nel Danubio, i pesci del Mar Nero o lo storione pescato in Grecia. I mercati di Ancona e Ravenna fornivano in abbondanza il "pesce azzurro", mentre dalla Sicilia arrivavano le prelibatissime murene.

Esplose poi la moda del vivaio personale: i ricchi facevano a gara a chi possedeva quello più fornito di rarità. I più grandi parchi marini furono costruiti in Campania: comincia verso il 90 a.C., Licinio Murena, che pare debba il suo nome al fatto di aver diffuso a Roma questo pesce prelibato, poi fu la volta del console Sergio Orata, che delle orate sapeva vita morte e miracoli, e che per primo costruì a Baia un allevamento di ostriche; per non parlare poi di avvocati famosi come Marcio Filippo, Hortensio, Hirrus e Lucullo, contro i quali si scagliavano gli anatemi dei moralisti, Cicerone in testa, che li chiamava con disprezzo "Aristocrazie di piscinarii", più attenti ai loro vivai di pesci che ai problemi dello stato.
La manutenzione di questi vivai costava ovviamente una fortuna, per quel che in effetti rendessero: Lucullo aveva addirittura fatto bucare una montagna vicino a Baia per portare direttamente l'acqua del mare al suo parco marino. Alla sua morte, la collezione di pesci rari fu venduta per la strabiliante somma di 40 mila assi.
Con l'andare del tempo la piscina diventa quasi un oggetto di culto: Vedio Pollione sembra che gettasse in pasto alle sue lamprede gli schiavi condannati a morte, mentre Antonia, moglie di Druso, ai pesci si era affezionata come ad un cagnolino e aveva fatto infilare degli anelli alle branchie delle sue lamprede preferite. Il poeta Marziale ci parla dei "pesci sacri" che Domiziano aveva nelle piscine della sua villa di Baia, cui accudiva personalmente; e proseguire sull'argomento sarebbe un discorso troppo lungo. [fonte: cucinaevini.it]


 

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