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L'opera filosofica e il pensiero.
L'antiepicureo
Cicerone fu filosofo che compose molti libri, scritti in
gran parte nell'arco di due anni, tra il 46 e il 44 a.C.,
quando la vittoria di Cesare lo costrinse a tenersi lontano dalla
vita politica e la morte della figlia Tullia lo spinse a cercare
nella filosofia una medicina dell'animo.
Cicerone era stato uno dei protagonisti delle convulse lotte politiche
della prima metà del primo secolo a.C.; nel momento in cui
venne costretto a un ozio forzato, egli scrisse di filosofia, ma
anche allora per lui la politica rimase la dimensione fondamentale
della vita. Infatti, una delle ragioni della sua condanna dell'epicureismo
è anche l'apoliticità di questa scuola. I contenuti
degli scritti filosofici di Cicerone non sono radicalmente nuovi
rispetto a quelli elaborati dalla tradizione filosofica greca; egli,
infatti, condivide con buona parte degli uomini colti del
suo tempo l'idea che le alternative filosofiche fondamentali siano
già date. Il problema non è dunque quello
di trovare nuove filosofie o nuove basi teoriche, in base alle quali
organizzare la propria vita, la tradizione filosofica ha già
provvisto a costruire queste basi. Si tratta soltanto di
saggiarle e renderle operanti, oltre che preliminarmente accessibili
ad un pubblico di lingua latina. Di qui l'importante lavoro linguistico
compiuto da Cicerone, al quale la tradizione filosofica
occidentale deve l'introduzione di termini come moralis, qualitas,
notio e così via. Lo strumento letterario di cui Cicerone
si avvale nella sua opera di diffusione della filosofia greca non
è la poesia, ma il dialogo. Esso gli consente di esporre
argomentazioni opposte, pro e contro una determinata tesi. Così
avviene per i problemi gnoseologici negli Accademici,
che ci sono giunti incompleti, per i problemi fisico/teologici in
Sulla natura degli dei, Sulla
Divinazione, Sul fato, e,
per quelli etici, nelle Dispute tusculane
e Sui termini estremi dei beni e dei mali.
Il modello è dato dalla pratica giudiziaria, nella quale
le parti contendenti si affrontano davanti ai giudici.
Il pubblico a cui Cicerone si rivolge è il giudice che deve
pronunciare il verdetto, dopo aver ascoltato le argomentazioni pro
e contro presentate dai protagonisti del dialogo. Si tratta della
tecnica di discussione tipica dell'Accademia
scettica, da Arcesilao a Carneade, che anche Cicerone
fa propria, in quanto gli appare più consona ad un atteggiamento
libero. Le altre scuole filosofiche, soprattutto la stoica
e l'epicurea,
chiedono ai loro adepti un asservimento totale nei confronti del
patrimonio dottrinale della scuola; la filosofia dell'Accademia,
invece, lascia liberi, secondo Cicerone, di formulare il giudizio
dopo aver ascoltato le parti contendenti. Solo al confronto
tra tesi opposte si può sperare di ricavare qualcosa che
sia almeno vicino al vero, ossia il probabile, ciò che può
essere saggiato e approvato. Sullo sfondo di queste tesi
si staglia la figura del romano di ceto elevato, che non può
asservirsi ai dettati di una scuola né praticare la filosofia
come un'attività professionale in competizione con dei rivali.
All'autorità della scuola, Cicerone oppone il giudizio libero,
corroborato dalla tradizione romana e dai valori impliciti in essa
: i filosofi greci in contrasto tra loro trovano così i veri
arbitri in Roma, in filosofi liberi dai vincoli di scuola. Diversa
appare l'impostazione degli scritti ciceroniani Sulla
repubblica e Sulle leggi,
pervenuteci incompiuti, e della sua ultima opera Sui
doveri, ove, anzichè presentare e discutere
tesi contrapposte, si espongono dottrine positive sulla preferibilità
della costituzione mista, sulle leggi, sulle varie occupazioni confacenti
alle funzioni e al rango occupato da ciascuno nella società.
Ma in queste opere, che pure attingono al patrimonio concettuale
dei filosofi, soprattutto di Platone,
domina Roma con le sue istituzioni e i suoi valori. In questo caso
non c'è più spazio per tesi contrapposte; occorre
invece far emergere l'immagine totalmente positiva dei costumi antichi
e della concordia tra i ceti, cardini della grandezza di Roma oltre
che modello e programma politico anche per il presente.
Nelle pagine di Cicerone antichi personaggi romani, come Catone
o Scipione, diventano eroi filosofici : non è necessario
essere filosofi di professioni per non temere la morte. A proposito
dell'attività politica del popolo romano nel suo complesso,
essa è rappresentata nella Repubblica come una"sapientia"che
si è realizzata in leggi e istituzioni, più che in
parole, come era avvenuto in Grecia. Lo scritto Sui doveri,
poi, si presenta come una sorta di lunga lettera indirizzata al
figlio Marco, con esplicito intento pedagogico. Qui Cicerone, ispirandosi
in parte a Panezio,
si appropria di una forma rielaborata e addolcita di stoicismo,
spogliata dai paradossi tipici di questa scuola. Egli sostiene
che sui problemi dei comportamenti da assumere nella vita quotidiana
non è possibile rinviare il giudizio o abbracciare posizioni
scettiche, tanto meno contrapporsi ai valori diffusi; la soluzione
più adeguata gli appare consistere in un giusto contemperamento
di virtù e utilità.
Esaminiamo ora più nel dettaglio gli scritti filosofici dell'Arpinate.
Innanzitutto, va detto che gran parte dell'opera di Cicerone è
pervasa da un difficile tentativo di ricerca di un complesso equilibrio
tra istanze di ammodernamento e necessità di conservazione
dei valori tradizionali. Dietro la vicenda intellettuale dell'Arpinate
si profila una società attraversata da spinte contrastanti,
spesso laceranti : l'afflusso di ricchezze dai paesi conquistati
ha da tempo reso anacronisticamente improponibile la rigida moralità
delle origini; ma il veloce distacco dalle virtù e dai valori
che avevano fatto la grandezza di Roma mette ora in forse la stessa
sopravvivenza dello stato repubblicano. D'altronde lo scopo
stesso delle sue opere filosofiche è dare una solida base
ideale, etica, politica a una classe dominante (gli optimates) il
cui bisogno di un ordine non si traduca in ottuse chiusure, cui
il rispetto per la tradizione nazionale (mos maiorum) non impedisca
l'assorbimento della cultura greca; una classe che l'assolvimento
dei doveri verso lo Stato non renda insensibile ai piaceri di un
otium nutrito di arti e letteratura, né, in generale, di
quello stile di vita garbatamente raffinato che riassume il termine
di humanitas.
Quella di Cicerone, chiaramente, rimane un'ottica di parte, legata
al progetto di egemonia di un blocco sociale (sostanzialmente i
ceti possidenti) : egli è fermamente contrario a qualsiasi
progetto di redistribuzione delle terre pubbliche e di sgravio dei
debiti, Cicerone scorge la via d'uscita dalla crisi che minaccia
la repubblica nella concordia dei ceti abbienti, senatori e cavalieri
(concordia ordinum). La sua, in fin dei conti, è e rimane
una natura moderata in campo politico. In un secondo tempo, però,
Cicerone espone una nuova versione della propria teoria sulla concordia
dei ceti abbienti. In quanto semplice intesa tra il ceto senatorio
ed equestre, la concordia ordinum si era rivelata fallimentare:
Cicerone ne dilata ora il concetto in quello di consensus omnium
bonorum, cioè la concordia attiva di tutte le persone
agiate e possidenti, amanti dell'ordine sociale e politico, pronte
all'adempimento dei propri doveri nei confronti della patria e della
famiglia. Il dovere dei boni è quello di non rifugiarsi
egoisticamente nel perseguimento dei propri interessi privati a
discapito di quelli pubblici: essi devono fornire un sostegno attivo
agli uomini politici che rappresentano la loro causa.
Il progetto di concordia dei ceti abbienti, nelle due diverse formulazioni
che Cicerone ne diede, significò in ogni caso un tentativo
almeno embrionale (è ovvio che i boni preferirono in ogni
caso tutelare i propri interessi) di superare in nome del superiore
interesse della collettività, la lotta tra i gruppi e le
fazioni all'epoca dominanti la scena politica romana. Tuttavia il
pensiero politico ciceroniano comprende anche altre questioni: da
tempo si dibatteva in Grecia se l'oratore dovesse accontentarsi
della conoscenza di un certo numero di regole retoriche o gli fosse
invece necessaria una vasta cultura nel campo del diritto, della
filosofia e della storia.
In gioventù Cicerone aveva iniziato, senza portarlo a termine,
un trattatello di retorica, il De inventione
(inventio indica il reperimento dei materiali da parte dell'oratore).
Un interesse particolare riveste il proemio, dove il giovane avvocato
si pronuncia in favore di una sintesi di eloquenza e sapientia (cioè
cultura filosofica), quest'ultima ritenuta necessaria alla formazione
della coscienza morale dell'oratore: l'eloquenza priva di sapientia
ha portato più volte gli stati in rovina. La soluzione ciceroniana
è pensata esplicitamente per la società romana: molti
anni dopo egli ritorna sulle stesse tematiche nel De oratore, una
delle sue opere"più curate". Composto nel 55, durante
un periodo di ritiro dalla vita politica, mentre Roma era travagliata
dalle bande di Clodio e di Milone, è ambientato nel 91, al
tempo dell'adolescenza di Cicerone; sotto forma di dialogo (sulle
orme di Platone)
vi prendono parte alcuni fra i più insigni oratori dell'epoca,
fra i quali spiccano Marco Antonio (143 - 87 a.C.), nonno del triumviro
che fece uccidere l'Arpinate, e Lucio Licinio Crasso, portavoce
del pensiero di Cicerone stesso. Nel I libro Crasso sostiene, per
l'oratore, di una vasta formazione culturale. Antonio gli contrappone
l'ideale di un oratore più istintivo e autodidatta, la cui
arte si fondi sulla fiducia nelle proprie doti naturali, sulla pratica
del foro e sulla dimestichezza con l'esempio degli oratori precedenti.
Nel II libro si passa alla trattazione di questioni più analitiche,
ed Antonio espone i problemi concernenti la inventio (la raccolta
di materiale), la dispositio (l'organizzazione del materiale) e
la memoria (l'insieme delle tecniche per memorizzare i concetti).
Compare anche un personaggio spiritoso e caustico, Cesare Strabone,
al quale è assegnata una lunga e piacevole digressione sulle
arguzie e i motti di spirito. Nel III libro Crasso discute le questioni
relative alla elocutio e alla pronuntiatio, cioè in genere
all'actio (recitazione) dell'oratore, non senza ribadire la necessità
di una vasta cultura generale e della formazione filosofica. La
scelta del 91 per l'ambientazione del dialogo ha un preciso significato
: è l'anno stesso della morte di Crasso e precede di poco
la guerra sociale e i lunghi conflitti civili tra Mario (l'homo
novus) e Silla, nel corso dei quali soccomberanno crudelmente alcuni
altri degli interlocutori principali, fra cui lo stesso Antonio.
La crisi dello stato è un'ossessione incombente su tutti
i partecipanti al dialogo e stride volutamente con l'ambiente sereno
e raffinato in cui essi si riuniscono per tenere le loro conservazioni,
la villa tuscolana di Crasso. La consapevolezza della terribile
fine di tutti i partecipanti al dialogo conferisce una nota tragica
ai proemi che precedono i singoli libri. Cercando di conservare
la verosimiglianza della caratterizzazione dei propri personaggi,
Cicerone si è sforzato di ricreare l'atmosfera degli ultimi
giorni di pace dell'antica repubblica. Il modello a cui si ispira
è sostanzialmente quello del dialogo platonico: con gesto
aristocratico, alle strade e alle piazze di Atene viene tuttavia
sostituito il giardino della villa di campagna di un nobile romano.
A sintetizzare la tesi principale di tutta l'opera potrebbe valere
un'espressione di Sulpicio, uno dei partecipanti al dialogo :"non
l'eloquenza è nata dalla teoria retorica, ma la teoria retorica
dall'eloquenza". Si richiede quindi una vasta preparazione
culturale (soprattutto filosofica - morale) all'oratore : bisogna
che egli sia versatile, abile a sostenere il pro e il contra su
qualsiasi argomento, riuscendo sempre a convincere e a trascinare
il proprio uditorio; ma questo di per sè non basta : il tutto
deve essere accompagnato dalla virtus, la quale deve mantenere l'intero
sistema oratorio ancorato all'apparato dei valori tradizionali,
in cui la"gente perbene"si riconosce. Crasso insiste
perché probitas (integrità) e prudentia (saggezza)
siano saldamente radicate nell'animo di chi dovrà apprendere
l'arte della parola: consegnarla a chi mancasse di queste virtù
sarebbe come mettere delle armi nelle mani di forsennati.
La formazione dell'oratore viene quindi a coincidere con quella
dell'uomo politico della classe dirigente. Egli dovrà servirsi
della sua abilità oratoria non per blandire il popolo copn
proposte demagogiche, ma per piegarlo alla volontà dei boni.
Nel 46 Cicerone riprese le tematiche del De oratore
in un trattato più esile, l'Orator,
aggiungendovi una sezione sui caratteri della prosa ritmica. Disegnando
il ritratto dell'oratore ideale (come Platone
aveva tratteggiato le figure del sofista e del politico), l'Arpinate
sottolinea i tre fini ai quali la sua arte deve indirizzarsi: probare
(argomentare la propria tesi), delectare (produrre un effetto
piacevole sull'uditorio), flectere (muovere le emozioni
tramite il pathos). Ai tre fini corrispondono i tre registri stilistici
che l'oratore dovrà sapere alternare : umile, medio, e elevato
o"patetico". Nel 44, poi, Cicerone compone i Topica, ispirati
all'opera omonima di Aristotele,
i quali trattano dei topoi, i luoghi comuni ai quali può
far ricorso l'oratore alla ricerca degli argomenti da sviluppare
nel discorso. Ma possono farvi ricorso anche i filosofi, gli storici
e i giuristi.
Il modello del dialogo platonico ritorna poi, con maggiore evidenza,
nel De re publica, al quale Cicerone si
dedicò assiduamente fra il 54 e il 51. Non cercò,
tuttavia, di costruire a tavolino uno stato ideale, come Platone
aveva fatto nella sua"Repubblica": con gesto che gli diventava
sempre più consueto, l'Arpinate si proiettò nel passato,
per identificare la migliore forma di stato nella costituzione romana
del tempo degli Scipioni. Il dialogo si svolge nel 129, nella villa
suburbana di Scipione Emiliano, che con l'amico e collaboratore
Lelio è uno dei principali interlocutori. La ricostruzione
della trama è purtroppo resa fortemente ipotetica, soprattutto
per alcune sezioni, dalle condizioni estremamente frammentarie in
cui il dialogo ci è stato conservato. Nel I libro Scipione
parte dalla dottrina aristotelica delle 3 forme fondamentali di
governo (monarchia, aristocrazia, democrazia) e della loro necessaria
degenerazione nelle forme estreme, rispettivamente della tirannide,
della oligarchia e della olocrazia (governo della "feccia"
del popolo). Scipione mostra come lo stato romano dei maiores (gli
antenati) si salvasse da quella necessaria degenerazione per il
fatto di aver saputo contemperare le tre forme fondamentali: l'elemento
monarchico si rispecchia nell'istituzione del consolato, l'elemento
aristocratico nell'istituzione del senato, l'elemento democratico
nell'istituzione dei comizi. Il libro II si occupa della costituzione
romana, mentre il III tratta della iustitia, ed è in larga
parte dedicato a un tentativo di confutazione dell'acutissima critica
che l'accademico Carneade aveva svolto dell'imperialismo romano
: la critica si incentrava soprattutto sul concetto di "guerra
giusta", ricorrendo al quale i Romani, col pretesto di soccorrere
i loro alleati, (cioè sudditi) in difficoltà, avevano
progressivamente esteso il proprio dominio ed ampliato la propria
sfera d'influenza. Il IV libro si occupa dell'educazione dei cittadini
e dei princìpi che devono regolare i loro rapporti. Nei libri
IV e V Cicerone introduceva la figura del rector et gubernator rei
publicae (rettore e governatore dello stato) o princeps. Nel VI
libro il dialogo si conclude con la rievocazione, da parte di Scipione
l'Emiliano, del sogno in cui tempo addietro gli era apparso l'avo,
Scipione Africano, per mostrargli, dall'alto del cielo, la piccolezza
e l'insignificanza di tutte le cose umane, anche della gloria terrena,
e rivelargli tuttavia la beatitudine che attende nell'aldilà
le anime dei grandi uomini di stato: questa parte, che costituisce
la sezione finale dell'opera, va generalmente sotto il nome di Somnium
Scipionis. La teoria del regime misto cui si appella
Scipione risaliva agli stessi Platone
(vedi le Leggi)
e Aristotele.
Quando si parla del princeps bisogna stare attenti a non farsi trarre
in inganno: il singolare si riferisce al "tipo" dell'uomo
politico eminente, non alla sua unicità (come invece sarà
invece per Machiavelli);
in altre parole, l'Arpinate sembra pensare ad una cerchia ristretta
di personaggi eminenti che si ponga alla guida del senato e dei
boni e si raffigura probabilmente il ruolo di princeps sul modello
di quello che nella repubblica romana aveva ricoperto proprio Scipione
Emiliano. Il princeps dovrà armare il proprio animo
contro tutte le passioni egoistiche, principalmente contro il desiderio
di potere e di ricchezza: è questo il senso del disprezzo
verso tutte le cose umane che il Somnium Scipionis addita ai reggitori
dello stato. Cicerone disegna così l'immagine di un dominatore
- asceta, rappresentante in terra della volontà divina, rinsaldato
nella dedizione al servizio verso lo stato dalla sua despicentia
verso le passioni umane. L'ideale ciceroniano era tuttavia
difficilmente realizzabile: probabilmente proprio la convinzione
della necessità di un governo di maggiore autorevolezza,
e d'altra parte la consapevolezza dei pericoli che comportava l'accentramento
di enormi poteri nelle mani di pochi capi, spinsero Cicerone a tentare
un avvicinamento a Pompeo e ai triumviri, nella speranza di mantenere
l'operato sotto il controllo del senato.
Ispirandosi ancora al modello di Platone,
che alla Repubblica aveva fatto seguire le Leggi, l'Arpinate completò
il dialogo sullo stato col De legibus,
iniziato nel 52 e probabilmente non pubblicato durante la sua vita.
L'azione stavolta non è posta in un'epoca passata, ma nel
presente, e interlocutori sono lo stesso Cicerone, il fratello Quinto,
e il grande amico Attico. L'ambientazione è nella villa di
Cicerone ad Arpino e nei boschi delle campagne circostanti, raffigurati
secondo una modulazione del motivo del locus amoenus che ha il suo
modello soprattutto nel Fedro di Platone.
Quinto è tratteggiato come un ottimate estremista, Cicerone
come un conservatore moderato, Attico come un epicureo
che quasi si vergogna delle sue scelte filosofiche. Nel libro I
Cicerone espone la tesi stoica
secondo la quale la legge non è sorta per convenzione, ma
si basa sulla ragione innata in tutti gli uomini ed è perciò
data da Dio. Nel libro II l'esposizione delle leggi che dovrebbero
essere in vigore nel migliore degli stati si basa non su una legislazione
utopica (alla Platone)
ma sulla tradizione legislativa romana, che ha i suoi punti di riferimento
nel diritto pontificio e sacrale. Nel libro III Cicerone presenta
il testo delle leggi riguardanti i magistrati e le loro competenze.
In gioventù l'Arpinate aveva seguito le lezioni dei filosofi
più diversi, e ad interessarsi di filosofia continuò
per tutta la vita: a scriverne, tuttavia, iniziò solo nel
46, con l'operetta sui Paradossi degli Stoici, dedicata a Marco
Bruto e incentrata soprattutto sull'esposizione delle tesi stoiche
maggiormente in contrasto con l'opinione comune.
Ma è nel 45 che i lavori filosofici si infittiscono in maniera
incredibile in coincidenza con eventi dolorosissimi nella vita di
Cicerone, quali la morte della figlia Tullia. L'Hortensius,
perduto, era un'esortazione alla filosofia, sul modello del Protrettico
di Aristotele.
Gli Academica, che trattavano i problemi gnoseologici, ebbero una
duplice redazione: la prima, i cosiddetti Academica
priora, in due libri; la seconda, gli Academica
posteriora, in quattro libri.
Il De finibus bonorum et malorum (I limiti
del bene e del male) è da alcuni considerato il capolavoro
filosofico di Cicerone: tratta questioni etiche, e cioè il
problema del sommo bene e del sommo male, che è affrontato
in 5 libri, comprendenti 3 dialoghi. Nel primo è esposta
la teoria degli epicurei, cui segue la confutazione ciceroniana;
nel secondo si mette a confronto la teoria stoica
con le teorie accademica e peripatetica; nel terzo è esposta
la teoria eclettica di A. Ascalona, maestro di Cicerone e di Varrone,
la più vicina al pensiero dell'autore.
Ancora di questioni etiche tratta un'altra fra le maggiori opere
filosofiche ciceroniane e certo la più appassionata, le Tusculanae
disputationes, dedicate anch'esse a Bruto e ambientate
nella villa di Cicerone a Tuscolo. L'opera, in 5 libri, che segna
il massimo avvicinamento dell'Arpinate alle tesi propugnate dagli
stoici, è condotta in forma di dialogo tra Cicerone e un
anonimo interlocutore. Nei singoli libri sono trattati, rispettivamente
i temi della morte, del dolore, della tristezza, dei turbamenti
dell'animo e della virtù come garanzia della felicità
: siamo dunque di fronte ad una grande summa dell'etica antica.
Nelle Tusculanae l'Arpinate cerca una risposta ai suoi personali
interrogativi, una soluzione ai suoi dubbi: di qui la profonda partecipazione
emotiva dell'autore agli argomenti trattati.
Di argomenti religiosi e teologici trattano tre dialoghi, il De
natura deorum, in 3 libri, anch'esso dedicato a Bruto;
il De divinatione, in 2 libri, e il De
fato giuntoci incompleto. Le due ultime opere sono
presentate esplicitamente dall'autore come integrative e complementari
rispetto alla prima. Nelle opere filosofiche Cicerone viene ripesando
tutto il corpus di metodi e teorie cresciuto entro le scuole ellenistiche.
L'impegno ciceroniano nell'attività filosofica è soprattutto
moralistico, e non dimentica i doveri del cittadino al servizio
dello stato. Interessante in questi dialoghi è il ricercare
sempre la conseguenza pratica, la ricaduta in termini di azione
e partecipazione politica a cui possono portare le teorie filosofiche
: si tratta di ricucire le membra lacerate del pensiero ellenistico
per trarne fuori una struttura ideologica efficacemente operativa
nei confronti della società romana.
In sede di teoria della conoscenza Cicerone aderì,
nei suoi anni maturi, al probabilismo degli Accademici,
una sorta di scetticismo pragmatico, che senza negare l'esistenza
di una verità oltre i fenomeni, si preoccupa principalmente
di garantire la possibilità di una conoscenza probabile,
utile a orientare l'azione e ad essa funzionalizzata. Nel
libro II degli Academica Lucullo rimprovera a Cicerone di distruggere
la stessa possibilità della conoscenza rifiutandosi di ammettere
l'esistenza di criteri sicuri delle nostre percezioni : se tutto
è opinabile, allora non vi sarà più né
certezza né verità. L'Arpinate replica che anche un
dubbio generalizzato non comporta la negazione della verità;
nemmeno pensa, come gli scettici che esistano più verità.
In un celebre passo delle Tusculanae Cicerone definisce il metodo
che egli segue nel trattare dei problemi di maggiore importanza:
astenendosi egli stesso dal formulare un'opinione precisa, si sforza
di esporre le diverse opinioni possibili, e di metterle a confronto
per vedere se alcune siano più coerenti e probabili di altre.
L'eclettismo filosofico di Cicerone obbedisce alle esigenze di un
metodo rigoroso, che si sforza di stabilire fra le diverse dottrine
un dialogo dal quale sia bandito ogni spirito polemico. La stessa
ideologia della humanitas, alla cui elaborazione l'Arpinate diede
un contributo notevolissimo, invitava a un atteggiamento intellettuale
di aperta tolleranza: dai suoi stessi dialoghi traspare questa grande
apertura e si può notare come i vari interlocutori non polemizzino
mai tra loro con toni aspri e cerchino sempre di rispettare il loro
turno per prendere la parola: siamo insomma di fronte ad una cerchia
ristretta di uomini perbene che vedono nelle teorie diverse dalle
loro un arricchimento culturale.
Ma c'è un caso in cui il contraddittorio e la confutazione,
pur senza scadere nella zuffa, si fanno talora più violenti
e indignati: l'eclettismo ciceroniano, come già anticipato,
mostra una chiusura radicale verso l'epicureismo, alla cui esposizione
e confutazione sono dedicati i primi due libri del dialogo De
finibus bonorum et malorum. I motivi dell'avversione ciceroniana
verso l'epicureismo sono soprattutto due, tra loro strettamente
connessi : in primo luogo la filosofia epicurea
porta al disinteresse per la vita politica ("vivi di nascosto"
era il loro motto), mentre dovere dei boni è l'attiva partecipazione
alla vita pubblica; inoltre l'epicureismo esclude la funzione provvidenziale
della divinità (per quanto non ne neghi l'esistenza) e indebolisce
così i legami con la religione tradizionale, che per Cicerone
rimane la base fondamentale dell'etica. Va poi detto che l'Arpinate
vedeva negativamente la ricerca del piacere (voluptas) propugnata
dagli epicurei, i quali non esitavano a collocarla tra le somme
virtù : ora è evidente che se ogni cittadino vivesse
"di nascosto" alla ricerca del piacere personale lo stato
si sfascerebbe; inoltre mettere la voluptas tra le virtù
è come mettere una prostituta tra signore per bene, dice
Cicerone. Tutte queste argomentazioni spiegano in parte il senso
dei dialoghi di argomento religioso e teologico. Nel De natura
deorum viene esposta e confutata la tesi epicurea
dell'indifferenza degli dei rispetto alle vicende umane. Successivamente
viene presa in esame la tesi stoica
del panteismo provvidenziale, mentre in uno dei libri successivi
(il III) l'Arpinate si schiera a favore dello scetticismo accademico.
Più interessante risulta il De divinatione, anche
perché legato a vicende più contemporanee a Cicerone,
che si dimostra incerto se denunciare la falsità della religione
tradizionale o proporre il suo mantenimento al fine di conservare
il dominio sui ceti inferiori. Tornando al De finibus bonorum
et malorum, Cicerone, dopo aver confutato la tesi epicurea,
esamina quella stoica
: riconosce che lo stoicismo fornisce le basi morali più
solide all'impegno dei cittadini verso la collettività, ma
tuttavia si sente lontano per cultura e gusti : il loro rigore etico
gli appare anacronistico e impraticabile nella società romana.
Cicerone, invece, apprezza le tesi scettiche: la verità è
per lui irraggiungibile, e l'uomo si può solo avvicinare
ad essa applicando la virtus; l'eclettismo ciceroniano non a caso
si basa su ideali scettici: dato che la verità è irraggiungibile,
tanto vale esaminare tutte le diverse filosofie ed estrapolare da
ognuna di esse il meglio.
Un posto particolare tra le opere filosofiche occupano anche il
Cato maior de senectute e il Laelius
de amicitia. Nel Cato maior de senectute Cicerone
trasfigura l'amarezza per una vecchiaia la quale, oltre al decadimento
fisico e all'imminenza della morte, sembra soprattutto temere la
perdita della possibilità di intervento politico. Tuttavia
Cicerone, immedesimandosi nell'austera figura di Catone il Censore,
tratteggia una vecchiaia nella quale si armonizzano in maniera perfetta
il gusto per l'otium e la tenacia dell'impegno politico, due opposte
esigenze che l'Arpinate ha cercato invano di conciliare lungo tutto
l'arco della sua vita. Diversa, più combattiva, è
l'atmosfera che si respira nel Laelius de amicitia, il quale, all'indomani
dell'uccisione di Cesare, accompagna il rientro di Cicerone sulla
scena politica. Il dialogo è immaginato svolgersi nel 129,
lo stesso anno del De re publica : pochi giorni dopo la scomparsa
di Scipione nel corso delle agitazioni graccane. Rievocando la figura
dell'amico scomparso, Lelio ha modo di intrattenere i propri interlocutori
sul valore e sulla natura dell'amicizia stessa. Amicitia
per i Romani era soprattutto la creazione di legami personali a
scopo di sostegno politico. Nascendo dal tentativo di superare la
tradizionale logica clientelare e di fazione propria dello stato
aristocratico, il dialogo muove tuttavia alla ricerca dei fondamenti
etici della società nel rapporto che lega fra loro le volontà
degli amici. La novità dell'impostazione ciceroniana
consiste soprattutto nello sforzo di allargare la base sociale delle
amicizie al di là della cerchia ristretta della nobilitas:
a fondamento dell'amicizia sono posti valori come virtus e probitas
riconosciuti a vasti strati della popolazione. L'amicizia propagandata
da Lelio non è solo un'amicizia politica: si avverte in tutta
l'opera un disperato bisogno di rapporti sinceri, quali Cicerone,
preso nel vortice delle convenienze imposte dalla vita pubblica,
potè forse trovare solo in Attico.
La stesura del De officiis venne iniziata
probabilmente nell'autunno del 44: si tratta stavolta di un trattato,
non di un dialogo, dedicato al figlio Marco, allora studente di
filosofia ad Atene. L'opera è il prodotto di un'elaborazione
rapidissima, per lo più contemporanea alla composizione di
alcune delle Filippiche: mentre sta combattendo colui che ai suoi
occhi sta portando la patria alla rovina definitiva, Cicerone
cerca nella filosofia i fondamenti di un progetto di vasto respiro,
indirizzato alla formulazione di una morale della vita quotidiana
che permetta all'aristocrazia di riacquistare il pieno controllo
della società. La base filosofica viene offerta dallo stoicismo
moderato di Panezio.
Nel De officiis Cicerone afferma di rivolgersi in primo luogo ai
giovani: ciò conferma la funzione pedagogica che egli in
generale attribuisce al suo lavoro di divulgazione filosofica. I
3 libri di cui il De officiis è composto trattano rispettivamente
dell'honestum, dell'utile e del conflitto tra di loro. Lo stoicismo
di Panezio
si differenziava dallo stoicismo comune soprattutto per un giudizio
assai più positivo sugli istinti da parte di Panezio:
le virtù fondamentali venivano reinterpretate in modo da
essere viste come organico sviluppo di questi istinti fondamentali.
La virtù fondamentale per Panezio
era la socialità, cui si affiancava la beneficenza: se alla
prima spetta di "dare a ciascuno il suo", la seconda ha
il compito di collaborare positivamente al benessere della comunità
e di mettere a disposizione dei concittadini la persona e gli averi
del singolo. La beneficenza teorizzata da Panezio
corrispondeva benissimo allo stile di vita degli aristocratici romani,
che, attraverso gli officia e l'elargizione nei confronti dei concittadini,
sapevano procurarsi un seguito politico capace di innalzarsi alle
più alte cariche dello stato; tuttavia per Cicerone la beneficenza
può causare seri problemi: può essere strumento di
corruzione, infatti, il donare denaro oppure l'effettuare benefici
ingiusti o ancora abbassare le tasse. Perciò l'Arpinate sottolinea
con forza che la beneficenza non deve essere posta al servizio delle
ambizioni personali. Alla tipica virtù cardinale della fortezza
Panezio
aveva sostituito la grandezza d'animo; ebbene, Cicerone riprende
questa concezione, ma, paradossalmente, a fondamento della magnitudo
animi il De officiis pone un disprezzo quasi ascetico per tutti
i beni terreni, come gli onori, la ricchezza, il potere.
...:::Diego Fusaro:::...
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