Vita.
Premessa. E' impossibile scindere la vita
di C. uomo politico da quella di C. "artista", o avventurarsi in
due diverse valutazioni "settoriali" e "statiche", o subordinare
fittiziamente l'un aspetto all'altro: unico grande scrittore della
latinità ad essere "romano di Roma", egli fu altresì,
e soprattutto, enorme uomo di stato e stratega e combattente, fondatore
del più grande organismo politico della storia antica, l'impero
di Roma (e già questo dice tutto): quasi che la sua esuberanza
e la sua grande volontà di essere sempre e comunque "princeps"
non lo accontentasse dei successi politici, ma lo portasse a voler
anche primeggiare nel campo delle lettere.
La formazione e l'ingresso nella politica.
C. nacque da una famiglia antica e patrizia, che, tuttavia, nello
schieramento politico, era di simpatie popolari. Anch'egli mostrò
presto simpatia per il partito democratico, cui fu presto legato
anche da vincoli familiari (ancora giovanissimo sposò Cornelia,
figlia di Cinna, luogotenente di Mario), e durante la dittatura
di Silla lasciò Roma per il servizio militare in Asia Minore
(81-78), non senza aver prima ricevuto un'accuratissima educazione
grammaticale e letteraria. Quando tornò in patria, dovette
sostenere alcune accuse di concussione mossegli contro. In questo
episodio, mise in luce la propria grande arte oratoria, la freddezza
e la compostezza, mostrando di essersi subito adeguato all'infuocata
vita politica dell'Urbe.
Il "cursus honorum". Nel 68
cominciò il "cursus honorum" in Spagna, come questore.
Continuò poi come edile, accattivandosi il favore del popolo
con grandi feste e spettacoli. Due anni dopo fu eletto pontefice
massimo, la carica più alta nel sistema religioso del periodo,
molto legata alla vita politica. In questi anni, fu spesso coinvolto
in tribunale, per via della congiura di Catilina, che proprio in
quegli anni veniva sventata. Nel 62, ottenne la carica di pretore;
l'anno dopo, il governo della Spagna. In questo periodo ripudiò
la seconda moglie, Pompea, perché coinvolta in scandalo con
Clodio. Intelligentemente, trattò quest'ultimo con mitezza,
mirando all'appoggio politico che poteva trarne dall'amicizia. Nel
60, chiese al Senato la carica di console, ma non gli fu accordata,
per via del suo irriducibile nemico Catone.
Il triumvirato e la conquista della Gallia.
C., comunque, arrivò lo stesso al potere grazie a quella
alleanza che in seguito sarà definita come "I triumvirato":
strinse cioè un accordo del tutto privato con Pompeo Magno
e Marco Licinio Crasso, personaggi potentissimi, scontenti anche
loro dell'atteggiamento del Senato nei loro confronti. C. sposava,
poi, in terze nozze Calpurnia, e contemporaneamente dava in isposa
Giulia, la proprio figlia, a Pompeo. L'accordo portò i suoi
frutti, e nel 59 fu eletto console. Da questo momento in poi, darà
prova delle sue doti militari e politiche, distinguendosi e superando
qualsiasi rivale: proconsole delle Gallie nel 58, ne intraprese
la conquista, terminata nel 51.
La guerra civile: uomo più potente di
Roma. La formidabile ascesa al potere cominciò a procurargli
numerosi e reali nemici: il conflitto col senato e l’aristocrazia
romana e lo scontro con Pompeo sfociarono (49) in guerra civile:
vinti i pompeiani in Spagna e a Marsiglia, C. raggiunse lo stesso
Pompeo in Grecia, sconfiggendolo a Farsàlo (48) e soffocandone
definitivamente i focolai di resistenza. Intanto, padrone assoluto
di Roma, C. ricoprì – talora contemporaneamente – dittatura
e consolato, attendendo ad una radicale riforma della costituzione
dello Stato.
Il cesaricidio. Il 15 marzo ("idi")
del 44, veniva tuttavia assassinato da un gruppo di aristocratici
di irriducibile fede repubblicana, preoccupati per le tendenze aristocratiche
e regali ch'egli sempre più andava assumendo.
Opere.
Opere minori. Tra le composizioni giovanili
di C., mai pubblicate, si ricordano generalmente il poemetto "Laudes
Herculis" e la tragedia "Oedipus": forse si dedicò
anche alla poesia amorosa. Il poemetto perduto "Iter", a
memoria del viaggio fatto da Roma in Spagna, prima della battaglia
di Munda (46 a.C.), appartiene invece agli anni della maturità.
Compose anche una raccolta di sentenze ("Dicta"), un'opera
di carattere astronomico ("De astris"), delle "Epistulae"
(celebri al suo tempo, ma oggi purtroppo perdute) e alcune importanti
orazioni. Riguardo queste ultime, non ci restano che alcuni
titoli e qualche frammento (un peccato, perché le orazioni
di C. ebbero il plauso di Svetonio, Cicerone, Quintiliano e Tacito,
il che fa pensare che fossero molto belle): una del 77, contro un
Cornelio Dolabella; due nel 63 (mentre era "Pontifex Maximus"),
una in difesa dei Bitini (ne abbiamo solo l'esordio), l'altra in
difesa dei Catilinari (ne possediamo però il rifacimento
sallustiano). Sappiamo che, nel 67, C. compose anche gli elogi funebri
per la zia paterna (vedova di Mario) e per la moglie Cornelia; nonché
è opportuno ricordare anche i discorsi "diretti" contenuti
nei "commentarii" [uno nel B.G., VII 77; due nel B.C., II 31-32
e III 87). C., per tutte queste orazioni, si atteneva agl'insegnamenti
di Molone di Rodi, che evitava rigorosamente gli eccessi dell'asianesimo.
Ma le opere "minori" più importanti del
nostro autore sono decisamente l’ "Antìcato" e il
"De analògia": il primo, in 2 libri, fu scritto [45?]
in polemica, non aliena da intenti politici, con l’elogio di Catone
fatto da Cicerone nel 46; il secondo [55-52?, comunque durante le
pause della campagna gallica] era un’opera grammaticale in 2 libri,
che interveniva nella controversia fra "analogisti" e "anomalisti"
sul problema della natura delle lingue (queste, ci si chiedeva,
dovevano esser sottoposte a regole razionali - quelle appunto dell'
"analogia" - o potevano essere oggetto di creazioni arbitrarie,
"senza leggi" - anomale - secondo la fantasia degli scrittori?):
formatosi alla scuola dell'analogista M. Antonio Grifone, C. risolse
per un ideale linguistico fortemente improntato ai criteri della
"ratio" e del "purismo" (ad es., sosteneva la necessità
di declinare alla latina le parole greche) e tenacemente avverso
a ogni concessione alla "consuetudo" e all' "usus";
insomma, per lui il linguaggio si costruisce mediante una selezione
naturale-razionale-sistematica. Come appare chiaro, il "De analògia"
fungerà da programma e, al tempo stesso, da preparazione
alla composizione delle opere maggiori.
Corpus Caesarianum. I capolavori di C. sono
ovviamente quelli d'impianto storico, contenuti, insieme ad altri
spurii, nel cosiddetto "Corpus Caesarianum"; esso comprende:
- "Commentarii de bello Gallico"
o semplicemente "Bellum gallicum". Sono 7 libri, uno per
ognuno dei 7 anni della guerra gallica, e cioè dalle spedizioni
contro gli Elvezi e contro Ariovisto (58) alla presa di Alesia e
alla sconfitta di Vercingetòrige (52). E’ opera scritta "di
getto", probabilmente fra il 52 e il 51 (ma c’è anche chi
pensa ad una scrittura graduale e contemporanea agli eventi), con
grande equilibrio e straordinario senso della storia.
Con quest’opera, C. intese evidentemente reagire
alle critiche degli avversari politici per i grossi sacrifici di
sangue e di denaro che la guerra aveva imposto: egli presentava
così ai Romani la conquista della Gallia come una necessità
storica volta ad evitare che i Germani, passato il Reno, invadessero
appunto quella regione, premendo pericolosamente ai confini di Roma.
Completati e integrati dall’ VIII libro, che copre gli anni 52-51
ed è solitamente attribuito al generale Irzio, furono seguiti
dai
- "Commentarii de bello civili" o
semplicemente "Bellum civile" [47 - 46?]. Questi sono in
3 libri, e narrano i fatti degli anni 49-48 (guerra civile contro
Pompeo), dal passaggio del Rubicone (genn. 49) al principio della
guerra alessandrina (nov. 48). Non è affatto certo che la
divisione in 3 libri risalga allo stesso autore: è possibile,
infatti, che il I e il II formassero un unico libro, dato che (tenendo
presente, in questa supposizione, la scansione del commentario precedente)
narrano gli avvenimenti di un solo anno, il 49, mentre a quelli
del 48 è dedicato il III.
Il tono, rispetto alla precedente opera, è
più partecipe (arrivando addirittura a sfiorare il satirico,
quando assale gli avversari), anche per l’intento - pur se non palesemente
- "apologetico": C., difatti, vuole mostrarsi come colui che si
è sempre mantenuto nella legalità, e che anzi l’ha
sempre difesa; insiste, con ciò, sulla propria costante volontà
di "pax"; mostra i propri esempi di "clementia" verso
i nemici sconfitti; e così via. Manco a dirlo, il destinatario
della sua propaganda è lo strato "medio" e "benpensante"
dell’opinione pubblica romana, pedina fondamentale per oggni velleità
di potere.
Nel corso della narrazione, vengono a trovarsi
di fronte da una parte C. e dall’altra una classe dirigente ormai
indegna di governare: questa contrapposizione "manichea" tra il
vecchio e il nuovo è il fulcro centrale di questa entusiasmante
opera storico-narrativa, ed è anche la sua chiave d’accesso.
E’ lui, infatti, C., l’esecutore di un processo storico rivoluzionario,
che senza alcun dubbio porterà al superamento dell’oligarchia-senatoria
a vantaggio del popolo romano e ad una nuova era di gloria per Roma.
Certamente, essendo stata scritta da C. stesso,
l’opera non può essere asetticamente imparziale: tuttavia,
nessuno può mettere in dubbio la sua grandezza e la sua sincerità.
Egli, infatti, è sincero quando condanna la guerra civile
e ne attribuisce la colpa a Catone e agli ottimati, perché
loro e non Pompeo erano i veri colpevoli. Loro avevano infangato
la sua "dignitas", loro con il "senatus consultum ultimum"
avevano vietato ai tribuni il diritto ad esporre il veto. C., di
per sé, non voleva la guerra civile. Se così non fosse
come si spiegherebbe il suo comportamento nei confronti degli avversari?
Non c’è stato un combattimento, poiché il suo scopo
era far arrendere l’avversario e non distruggerlo, e ciò
avviene soprattutto nella guerra di Spagna contro Afranio e Petreio
e nei primi anni della guerra contro l’esercito di Pompeo. Come
spiegare, ancora, la clemenza di C.? O la mancanza, nell’opera,
di frammenti e di riferimenti riguardanti l’attraversamento del
Rubicone? Inoltre dalla lettura viene fuori anche un grande amore
del generale per i suoi soldati, tanto grande non fargli citare
mai nell’opera l’ammutinamento della nona legione a Piacenza. Egli,
poi, non parla mai di "hostes", ma di "adversarii",
perché gli "hostes" non possono essere cittadini romani.
Nella sua opera, insomma, non c’è odio, né nei confronti
di Catone e degli ottimati, né tantomeno nei riguardi di
Pompeo. Quest’ultimo si rammaricava di non essere cittadino romano
ed era geloso dei successi di C., che offuscavano il suo nome; C.,
da parte sua, definiva Cnaeus Pompeius Magnus come un uomo che aveva
sbagliato i calcoli e che si era fatto troppo entusiasmare dagli
ottimati e dal desiderio della dittatura, ma egli stesso sapeva
benissimo che era anche il solo in grado di poterlo valutare e di
poter comprendere il suo vero ideale politico. Il nostro autore
non commenta la morte di Pompeo, la narra e nel suo silenzio c’è
angoscia: non a caso, l’opera termina con l’assassinio di Potino,
ordinato proprio da C. per vendicare il grande Pompeo.
- "Bellum Alexandrinum" (sull’omonima
guerra, 48-47), di cui pare essere autore il già citato Irzio;
- "Bellum Africanum" (in "sermo
vulgaris") e "Bellum Hispaniense", in cui scrittori di
molto minore levatura, forse essi stessi generali di C., narrano
appunto le guerre d’Africa e di Spagna (46).
Considerazioni.
Fra tendenza all'oggettività storica
e subliminale distorsione ideologica. Nei suoi "Commentarii",
C. si propose di fornire materiali agli storici per stendere un’opera
criticamente valida; smentì, del resto, di voler fare un’opera
d’arte, limitandosi a descrivere le vicende di cui fu protagonista
e testimone, e spiegando, senza mezzi termini, le ragioni del suo
comportamento militare e politico. E’ da dire, comunque, che sotto
questa pretesa d'impassibilità, la critica recente ha tuttavia
ritenuto di scoprire interpretazioni tendenziose e deformazioni
quasi "subliminali" degli avvenimenti, a fine di propaganda.
Comunque, proprio il suddetto presunto proposito
di verità, nonché la semplicità stilistica,
conferiscono a tali opere bellezza, dignità ed eleganza,
frutto anche di lunga consuetudine di studio e di lima. Lo stesso
titolo di "Commentarii" può significare che si tratta
di libri di memorie o di appunti presi giorno per giorno; una sorta
di diario che riporta il nudo tessuto degli avvenimenti.
Sulla traccia del greco Senofonte, poi, C. racconta
i fatti in terza persona, al fine di attribuire il massimo di oggettività
agli avvenimenti narrati e ai suoi comportamenti; da questo scrupolo
dell'oggettività è derivato il rifiuto di inserire
lunghi discorsi in forma diretta, così cari, invece, agli
storici antichi.
Il valore artistico. Ma accanto al valore
storico non si può dimenticare l'effettivo valore artistico
di queste opere, che in tutti i tempi hanno costituito un testo
base per lo studio della lingua latina. <<Nudi sono – diceva
già Cicerone – schietti e semplici questi Commentarii, che,
pur essendo privi di ogni ornamento, sono pieni di grazia>>.
Non minori sono gli elogi tributati all’opera dagli studiosi moderni:
il Marchesi, ad es., afferma che nessuno degli antichi seppe scrivere
un opera <<dove siano adoperate meno parole per dire tutto,
dove tutte le cose più complicate siano espresse con così
sobria e precisa chiarezza da sembrare disegnate>>. La narrazione,
come visto, è sempre condotta in modo personalissimo e sempre
fresco e non viene mai appesantita dall’autocelebrazione.
"Manicheismo" politico, ma grande rispetto
per gli "adversarii". Sul piano strutturale dell'intera
opera, ogni elemento linguistico punta direttamente a mettere in
mostra la figura dello scrittore, che è insieme demiurgo-ordinatore
di ogni azione; autore-narratore di ogni piano e di ogni progetto;
attore-protagonista di ogni scena ideata e realizzata. Una preziosa
spia, in tal senso, è il fatto che il racconto - come accennato
- è sapientemente riportato in terza persona e in essa il
nome di "Caesar" oppure, in sua vece, "is" o "ipse"
appare quasi in ogni capitolo. Prevale nella narrazione spesso anche
la prima persona plurale ("nostri", "nostrum", "nostrorum"):
e ciò sia per mettere sempre in prima linea la persona dell'autore
sia per coinvolgere, per quanto su un piano inferiore a quello del
comandante, gli attori secondari del racconto, che sono, poi, sempre
"i soldati di Cesare". Ad essi si contrappongono, nella veste di
soggetti passivi, oggetto del racconto, i nemici, che, nel "De bello
gallico" sono i barbari con i loro vari nomi, nel "De bello civili",
invece, sono gli oppositori politici dello scrittore, anch'essi
puntualmente individuati. Naturalmente, alcuni di questi nemici
hanno una grande personalità (ad esempio, Vercingetorige
nel "De bello gallico" e il già detto Pompeo nel "De bello
civili"), tuttavia nessuno di essi sopravanza la statura del narratore,
che tutti riesce a superare.
C. "regista" e "attore"
della storia e del racconto: il ruolo delle forme verbali. In
questo contesto, ha molta importanza, quindi, mettere in evidenza
i termini del linguaggio che esprimono le azioni continue e turbinose
della guerra, quali siano soprattutto i verbi: attraverso i loro
significati è facile cogliere l'intima ansia dello scrittore,
che pone su un versante i predestinati, i privilegiati, i vincitori,
ossia quelli della sua parte; sul versante opposto, invece, egli
colloca i nemici, tutti destinati alla sconfitta. Gli scenari delle
battaglie vengono concepiti sempre come degli immensi palcoscenici,
in cui le azioni del "regista-attore" vengono scandite appunto dall'uso
dei tempi del verbo, in cui prevale il presente storico, che consente
allo scrittore, da un parte, di vivacizzare il racconto, suscitando
l'attenzione del lettore, dall'altra, di "rappresentare" quasi cinematograficamente
gli eventi narrati (non mancano il perfetto e 1'imperfetto, ma ciò
avviene con minore frequenza e il loro uso è subordinato
alla volontà del narratore di frapporre una netta separazione
tra se stesso e la narrazione).
Stile e lessico. Sul piano stilistico, poi,
a C. vengono concordemente riconosciute dalla critica le seguenti
qualità: la chiarezza (= "perspicàitas"), ossia
un procedimento lineare e terso, alieno da ogni pensiero contorto
e involuto; la brevità (= "brevitas"), che mira all'essenzialità
e alla rapidità; l'assenza di ornamenti superflui, come bene
intuì il già citato Cicerone; l'eleganza del dettato
(= "urbanitas"), al punto che pochi sono gli scrittori dell'intera
latinità che possano gareggiare con 1ui in purezza e proprietà
di linguaggio; sotto questo punto di vista, egli incarnò
quel "puri sermonis amator", che, in uno scritto minore,
aveva vista realizzato nel poeta comico Terenzio; infine, l’armonia
e simmetria dei costrutti, che gli antichi (con Cicerone ancora,
che ne fu il massimo maestro) chiamavano "concinnitas". Sul
piano lessicale, inoltre, C. lascia da parte la tendenza all’arcaismo
e compie determinate scelte sui vocaboli, senza preoccuparsi se
poi ciò causerà molte ripetizioni. Infine, sul piano
sintattico, egli predilige la paratassi all’ipotassi, soprattutto
per motivi di chiarezza, e riesce a costruire sempre un periodare
lineare e lucido.
Valore "socio-geo-politico" dell'opera.
Grande, infine, risulta il valore dei "Commentarii" sia per ciò
che si riferisce alla geografia, all'etnografia, all'economia, alla
civiltà dell'Europa nord-occidentale, sia specialmente (e
ovviamente) per quanto riguarda le istituzioni e gli usi militari
dei Romani. C., anzi, si presenta davvero come l'unico grande storico
militare della latinità e come uno dei più autorevoli
informatori geografici dell'antico mondo germanico.
...:::Bukowski:::...
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