Vita.
La contestualizzazione storica. C. nasce
da una famiglia agiata, potremmo dire dell'alta borghesia provinciale,
conscia e fiera delle proprie prerogative di ceto: il padre apparteneva
all'ordine equestre, e la madre veniva da una famiglia che aveva
già dato a Roma dei senatori. Egli è dunque un "homo
novus", nella politica romana, e se sarà il primo della
propria famiglia ad accedere alle magistrature, ciò lo dovrà
- è vero - al proprio talento, ma anche agli appoggi che,
sin dall'adolescenza, troverà presso le famiglie nobili,
legate alla sua in via amicale o parentale.
Ma, evidentemente, ed è bene dirlo subito,
le vere ragioni del suo successo furono più profonde, e prettamente
storico-politiche: esso <<fu dovuto soprattutto al fatto che,
in presenza di gravissime tensioni politiche e sociali, la nobiltà
individuò in lui un candidato capace di sottrarre ai populares
una parte dell’elettorato, e fece pertanto confluire su di lui tutti
i voti che era in grado di mobilitare>>. [E. Narducci]
Gli studi. C. compie studi di retorica e
filosofia a Roma, discepolo del giurista Q. Muzio Scevola e ascoltatore
assiduo di Marco Antonio e di Licinio Crasso, i due oratori più
apprezzati nel senato e fra il popolo. Nella casa di Scevola, venne
a contatto con l'aristocrazia intellettuale romana raccolta intorno
al "circolo degli Scipioni" (Scevola era il genero di Lelio), al
cui interno erano propugnati e salvaguardati i valori della "gravitas",
della dignità personale, ma anche il gusto della cultura.
Queste impressioni giovanili s'imprimeranno duraturamente
nell'animo di C.: verso la fine della sua vita, ogni volta che vorrà
animare, in un dialogo, le sue idee più care, metterà
in scena le figure di quel mondo che sarà per lui una specie
di "età aurea" della repubblica, anche se di quell'età
egli aveva conosciuto solo il crepuscolo. C. vedeva anche, intorno
a sé, il quadro animato degli scrittori, dei poeti, dei filosofi,
dei grammatici venuti dalla Grecia, che a nessuno sarebbe più
venuto in mente di bandire, e di cui anzi i più nobili romani
ricercavano la compagnia: il poeta Archia, i filosofi Diodoto (stoico)
e Fedro (epicureo), nonché Filone di Larissa, rappresentante
della "Nuova Accademia", che tanta influenza avrebbe esercitato
su di lui.
L'esordio in politica e nel foro. Questi
primi studi furono interrotti dalla "guerra sociale", alla quale
C. partecipò nello Stato maggiore di Pompeo Strabone e poi
in quello di Silla. Non appena concluso questo servizio militare,
obbligatorio per chi volesse avviarsi alla carriera politica, C.
cominciò a intervenire ai dibattiti nel Foro: nell'81 debutta
come avvocato e un anno dopo difende Sesto Roscio, accusato di parricidio,
contro importanti esponenti del regime sillano. Vinse la causa del
proprio cliente ma, probabilmente su consiglio di coloro che avevano
utilizzato il suo giovane ingegno, partì per l'Oriente per
farsi dimenticare e rimanere in attesa che Silla abbandonasse il
potere.
Tra il 79 e il 77 compie, dunque, il viaggio in
Grecia e in Asia, dove studia filosofia e retorica per migliorare
il proprio linguaggio. Nel 75 diventa questore in Sicilia (esempio
di onestà ed oculatezza amministrativa) e nel 70 gli verrà
chiesto di sostenere l'accusa di concussione dei siciliani contro
l'ex governatore Verre ("Verrine"): il processo non era limitatamente
giudiziario, ma aveva implicazioni politiche, dato che con la figura
Verre veniva messo in discussione l'intero sistema del regime oligarchico:
C. accettò, correndo il rischio di separarsi dai suoi protettori.
Ortensio Ortalo, più anziano di C. e oratore rinomato per
il suo talento, assunse il compito della difesa. C. portò
avanti le cose in tal modo, riunì testimonianze così
schiaccianti, che Verre non osò neppure perorare la sua causa
e se ne andò in esilio dopo un solo giorno di dibattimento.
L'ascesa e il successo. Edile nel 69, pretore
nel 66, C. è eletto in ciascuna delle consultazioni a cui
gli è consentito di partecipare come candidato, con una schiacciante
maggioranza di voti. Per lui, sono ora schierate non tanto le famiglie
nobili ma, oltre al popolo, che è sensibile alla sua parola,
le famiglie degli equiti, l'ordine equestre del quale, come sappiamo,
è egli stesso originario. Nel periodo in cui è pretore,
C. pronuncia un discorso importante, il "Pro lege Manilia", a favore
del progetto di conferire a Pompeo poteri straordinari in Oriente,
dove la guerra contro Mitridate si prolunga da tempo. Gli aristocratici
erano ostili a questa legge, per timore di queste insolite procedure.
Ma l'assemblea popolare seguì il parere di C., e la legge
fu approvata.
Nel 63 diviene finalmente console, e nel periodo
della sua carica si schiera con fermezza contro un altro progetto
che ledeva gli interessi dell'aristocrazia, una legge agraria appoggiata
sottobanco da Cesare. Le quattro orazioni sulla legge agraria (De
lege agraria), di cui possediamo solo una parte, sbarrarono la strada
a questa mozione.
Lo stesso anno C. ebbe la responsabilità
di difendere l'ordine contro una pericolosa congiura ordita da L.
Sergio Catilina ("Catilinarie") con l'aiuto di alcuni altri nobili
che speravano di ripetere, a proprio vantaggio, l'avventura di Silla:
fu necessaria tutta l'energia del console (il suo collega era sospetto
di simpatie a favore dei congiurati), per evitare che Roma fosse
incendiata e le maggiori autorità dello Stato assassinate.
C. ebbe dunque la meglio e, sostenuto da un senatoconsulto, fece
giustiziare i congiurati che era stato possibile arrestare. Gli
altri, compreso Catilina, perirono sul campo di battaglia ai primi
dell'anno successivo. In quel momento, C. poteva dire di aver realizzato
intorno a sé l'unione di tutte le "persone oneste", gli "optimates",
ma il trionfo non ebbe lunga durata.
Il declino della sua fortuna politica e il ritiro
dalla scena pubblica. Dopo il consolato di Cesare (nel 59),
le violenze del partito popolare condotto da P. Clodio Pulcro, allora
tribuno, portarono alla messa sotto accusa dell'ex console, per
aver fatto giustiziare, senza processo, dei cittadini. La coalizione
degli "ottimati" non fu in grado di resistere alla volontà
dei "triumviri" (Cesare, Pompeo e Crasso) e, mentre Cesare
si avviava verso la Gallia di cui s'iniziava la conquista, C. fu
costretto in esilio in Grecia (marzo 58).
Torna tuttavia a Roma l'anno seguente e cerca di
allacciare rapporti con il triumvirato. Fu questa, per lui, l'occasione
di un'intensa attività oratoria: ringraziamenti ufficiali
("Oratio cum Senatui gratias egit", "Oratio cum populo"), invettive
al senato contro coloro che l'avevano tradito ("In Pisonem", eccetera).
Ma in una repubblica lacerata da ambizioni feroci,
più che altro si dedica a scrivere le sue opere maggiori,
non partecipando - giocoforza - che marginalmente alla vita politica:
nel 55 pubblica il "De oratore", nel 51 portò a termine il
"De repubblica". Nel 51 è governatore in Cilicia.
In seguito allo scoppio della guerra civile, nel
49, dopo molte esitazioni, si unirà (malvolentieri) al partito
del senato, capeggiato da Pompeo. Quando quest'ultimo viene sconfitto,
C. ottiene facilmente il perdono di Cesare. Nel frattempo, divorzia
dalla moglie Terenzia e sposa Publilia. Nel 45 gli muore la figlia
Tullia: in uno stato di profonda angoscia, dove alle delusioni politiche
si univano i dispiaceri familiari, inizia la composizione "consolatoria"
di una lunga serie di opere filosofiche.
L'effimero ritorno e la morte. Nel 44, morto
Cesare, rientra finalmente nella vita politica e comincia la sua
lotta contro Antonio ("Filippiche"). Ma dopo il voltafaccia di Ottaviano,
che stringe il II triumvirato, il suo nome viene inserito nelle
liste di proscrizione: muore di lì a poco, sotto i colpi
dei sicari di Antonio.
Considerazioni
sul personaggio storico e sul suo pensiero politico e filosofico.
C. conservatore "moderato": il suo progetto
politico. Degno testimone e protagonista del tramonto della
Repubblica, C. - nonostante la sua (relativa) chiusura alle esigenze
degli strati più disagiati - non può esser definito
semplicemente un "reazionario", ma più esattamente un conservatore
"moderato": il progetto politico, che cercherà di difendere
nel corso della sua carriera, sarà infatti quello dell'egemonia
di un blocco sociale ("concordia ordinorum"), costituito
sostanzialmente dalla classe possidente dei senatori e dei cavalieri,
allo scopo di porre un argine alle tendenze sovversive che serpeggiavano
nella società del tempo: la necessità di consolidare
e orientare questo blocco sociale significava di per sé un
superamento degli obiettivi tradizionali della politica romana,
per lo più prigioniera di una lotta di fazioni e di cricche
clientelari. [Come vedremo, questo progetto - rivelatosi, col tempo,
fallimentare - sarà adeguatamente "corretto" nel concetto
di "consensus omnium bonorum", cioè "concordia attiva
di tutte le persone agiate e possidenti": tuttavia, identica rimarrà
l'idea di fondo].
Non ultima sua arma politica, a tal proposito,
fu la sua straordinaria capacità oratoria. Il fine dell'oratoria
e della filosofia ciceroniane, infatti, è quello di dare
una solida base ideale, etica, politica a una classe dominante,
il cui bisogno di ordinare non si traducesse in ottuse chiusure,
ma rispettasse gl’ideali dell’ "humanitas", cui l’ossequio per la
tradizione antica non impedisse l'assorbimento della cultura greca.
Le ragioni dell'insuccesso. Quindi, l'intero
operato di C. si può interpretare come la ricerca di una
difficile situazione di equilibrio fra istanze di ammodernamento
e necessità di conservazione delle leggi tradizionali. La
stessa collaborazione con i triumviri fu una risposta al bisogno
di un governo autorevole, ma anche in questo caso - coerentemente
- egli si preoccupò di mantenere saldo il potere del senato.
All'Arpinate, tuttavia, mancarono le condizioni
per crearsi il seguito clientelare o militare necessario a far trionfare
la sua linea politica; inoltre, sottovalutò il peso che gli
eserciti personali avrebbero avuto nella soluzione della crisi;
infine, non tenne conto del fatto che i ceti possidenti avrebbero
potuto ritenere che le loro esigenze fossero meglio garantite dalla
politica di Cesare.
La matrice politica del suo pensiero. Fedele
alla tradizione, come visto, C. non può immaginare un mondo
dove l'impegno nella gestione della cosa pubblica non sia il valore
supremo. Ed è forse qui che si situa il centro e il fine
ultimo di tutti i suoi pensieri. Ciò, ad es., spiega le sue
opzioni filosofiche, la ripugnanza che prova nei confronti dell'epicureismo,
ché giudicava la felicità incompatibile con la partecipazione
ai pubblici affari. Allo stesso modo, le sue simpatie per lo stoicismo
si rivolgevano a quegli aspetti della dottrina che mettevano in
luce l'importanza delle virtù sociali: la giustizia, l'umanità,
il coraggio civico, la devozione alla patria. E, infine, si spiega
anche la sua definitiva predilezione per il "probabilismo pragmatico"
di matrice "accademica", che subordinava la conoscenza teorica (giudicata,
nella maggior parte dei casi, inaccessibile nella sua perfezione)
all'efficacia e soprattutto al valore morale dell'azione: una filosofia
che non mirava all'utopica verità, ma che si "accontentava"
del "verosimile", e metteva questo verosimile alla base pragmatica
di ogni scelta, garantiva un discreto margine all'azione politica,
di cui C. proponeva la figura del princeps "intellettuale"
come guida.
E’ altresì evidente come possa essere giustificato
(e, in una certa misura, anche criticato) l'epiteto di "eclettico"
affibbiato al C. filosofo, laddove però questo eclettismo
non era fatto di elementi sparsi e contingenti, bensì era
una sintesi originale ed autonoma, operata in funzione di bisogni
spirituali ben definiti e soprattutto in funzione delle necessità
politiche di Roma (in tutto questo, C. resta appunto "romano", nonostante
la sua immensa cultura greca). A riprova di ciò, la determinazione
con la quale egli si lanciò nella sua ultima battaglia politica
fu proprio rafforzata da questa meditazione filosofica.
Opere.
*Oratoria. Come già accennato, l'attività
oratoria di C. si intreccia inevitabilmente con le vicende politiche
di Roma negli ultimi cinquanta anni di repubblica. Queste, grosso
modo, le tappe e le orazioni principali:
Esordio. Nell'81, C. debutta nel foro come
avvocato;
Pro Roscio Amerino. Nell'80, durante la
dittatura di Lucio Silla, C. si espone accettando di difendere Sesto
Roscio, accusato di parricidio da alcune potenti figure amiche del
dittatore. Il padre di Sesto Roscio era stato ucciso su mandato
di due suoi parenti, in combutta con Lucio Cornelio, liberto di
Silla: gli assassini, per avere le mani pulite, decisero di sbarazzarsi
del figlio accusandolo di avere ucciso il padre. C. dovette stare
molto attento nell'accusare personaggi vicini al potente dittatore
e, per non sembrare sovversivo, copriva di lodi Silla: il bravo
avvocato non era ostile al buon governo sillano ma, come molti,
avrebbe preferito porre un freno agli arbitrii e alle proscrizioni.
L'orazione "Pro Roscio Amerino" ebbe successo e Sesto Roscio
fu ritenuto innocente.
Verrinae. Nel 70 i siciliani gli proposero
di sostenere l'accusa nel processo da essi intentato contro l'ex
governatore Verre, che aveva sfruttato la provincia, pensando solo
ai propri interessi. C. raccolse rapidamente le prove, il che permise
di anticipare i tempi del processo, per cogliere alla sprovvista
la controparte, che puntava invece alla dilazione: al dibattito,
C. non fece in tempo a esibire tutte le prove e i testimoni (un
espediente rivoluzionario, per allora) che aveva raccolto e organizzato
(la cosiddetta "Actio prima in Verrem"): dopo solo pochi
giorni, infatti, Verre fuggì dall'Italia e venne condannato
in contumacia.
Solo successivamente C. pubblicò quelle
che noi oggi conosciamo come "Verrinae", che si presentano
in forma di arringa accusatoria suddivisa in 5 "discorsi" fittizi,
a formare un lunghissimo e serrato dossier sulle malefatte
compiute da Verre (la cosiddetta "Actio secunda in Verrem").
La vittoria su Ortensio, difensore di Verre, fu
- inoltre - anche una vittoria in campo letterario; lo stile delle
"Verrinae" è già completamente maturo: C. ha eliminato
alcune esuberanze, il periodare è armonioso, architettonicamente
complesso, ma la sintassi e lo stile sono estremamente duttili,
tanto che non rifuggono dall'uso di un fraseggio coinciso e martellante,
se l'occasione lo richiede.
Le orazioni - come detto, mai effettivamente pronunciate
- si rivelano, infine, come un documento storico di grande importanza
per conoscere i metodi di cui si serviva l'amministrazione romana
nelle province.
Pro lege Manilia. Nel 66 a.C., pretore nel
senato, parla a favore del progetto di legge presentato dal tribuno
Manilio, che prevedeva la concessione a Pompeo di poteri straordinari
su tutto l'Oriente, minacciato tra le altre cose da Mitridate, re
del Ponto ("Pro lege Manilia"). Parlando di fronte al popolo
in favore di tale legge, C. insistette sull'importanza dei tributi
che affluivano dalle province d'Oriente; la popolazione di Roma
sarebbe stata privata di tale beneficio se Mitridate avesse continuato
la sua azione. In realtà, C. mirava a tutelare soprattutto
gl'interessi degli appartenenti al ceto finanziario e imprenditoriale
(messi a rischio appunto dalla situazione orientale), cui egli stesso
era legato. C. era completamente contrario a qualsiasi progetto
di distribuzione delle terre pubbliche ai ceti meno abbienti; egli
cominciava a vedere la via d'uscita dalla crisi che minacciava la
repubblica nella "concordia" tra ceti abbienti, senatori e cavalieri
("concordia ordinum").
Catilinarie. C. divenne console nel 63,
e soffocò la congiura di Catilina ai danni dello stato: da
allora in poi sarebbe stato il teorizzatore di quella "concordia
ordinum" che lo aveva portato al potere. Le più celebri
orazioni consolari di C. sono appunto le 4 "Catilinarie",
tenute di fronte sia al senato sia al popolo, con le quali egli
svelò le trame sovversive che il nobile decaduto aveva ordito
una volta vistosi sconfitto nella competizione elettorale: C. lo
costrinse a fuggire da Roma e giustificò la propria decisione
di far giustiziare i suoi complici senza processo.
I toni delle orazioni sono spesso accesi e veementi
(nella I si fa uso, ad es., di un artificio retorico chiamato "prosopopea"
- "personificazione" - della patria, che è immaginata rivolgersi
a Catilina con parole di biasimo), ma vi sono altresì presenti
interessanti spunti più razionali di analisi "sociologica"
del quadro delle forze sociali in campo.
Pro Archia poeta. Nel 62 a.C. compose, invece,
la "Pro Archia poeta", orazione pronunciata in difesa del
poeta Archia, venuto a Roma nel 102 e accusato di usurpazione della
cittadinanza romana. Essa è celebre per l'appassionata difesa
della poesia che contiene e per la rivendicazione della nobiltà
degli studi letterari.
Pro Sestio. Richiamato dall'esilio nel 57,
C. trova Roma in preda all'anarchia: si fronteggiavano le opposte
bande di Clodio e di Milone (tra l'altro, amico personale del nostro).
Fu in tale clima che, nel 56, trovandosi a difendere Sestio ("Pro
Sestio"), un tribuno accusato proprio da Clodio di atti di violenza,
l'Arpinate espose una nuova versione della propria "teoria" sulla
"concordia" dei ceti abbienti. La "concordia ordinum" si
era rivelata fallimentare: C. ne dilata ora il concetto in quello
di "consensus omnium bonorum", cioè la "concordia
attiva di tutte le persone agiate e possidenti", amanti dell'ordine
politico e sociale. I "boni", una categoria "trasversale"
rispetto agli strati sociali esistenti, senza identificarsi con
alcuno di essi in particolare, saranno d'ora in poi il principale
destinatario della "predicazione" etico-politica di C.: il loro
dovere è quello di non rifugiarsi egoisticamente nel perseguimento
dei propri interessi privati, ma di fornire sostegno attivo agli
uomini politici che rappresentano la loro causa. L'esigenza di un
governo più autorevole spinge tuttavia C. a desiderare che
il senato e i "boni" si affidino alla guida di personaggi
eminenti e illustri: questa teoria verrà approfondita nel
"De repubblica" ed è la principale causa che portò
C. ad avvicinarsi al triumvirato (l'autore cercherà, invano,
di fare sì che il potere dei triumviri non prevarichi su
quello del senato, ma si mantenga nei limiti delle istituzioni repubblicane).
De domo sua. Sempre nel 57 a. C., col "De
domo sua" - discorso tenuto di fronte al collegio dei pontefici
per rientrare in possesso dell’area dove sorgeva la sua casa, che
Clodio aveva fatto demolire per edificare al suo posto un tempietto
di Libertas - C. polemizza con quanti avevano criticato la
presunta scarsa fermezza d’animo mostrata durante il suo esilio:
la grandezza del dolore per le sorti della patria, e l'amara consapevolezza
del proprio fallimento, egli spiega, lo avevano persuaso riguardo
l’impossibilità di affrontare quelle privazioni con una saggezza
di tipo stoico (è, questo, il primo passo nell'avvicinamento
alle posizioni "accademiche").
Pro Celio Rufo. Tra le orazioni anticlodiane,
poi, occupa un ruolo particolare quella in difesa di Marco Celio
Rufo ("Pro Celio Rufo"), un giovane brillante e amico dello
stesso C.. Celio era stato l'amante di Clodia (sorella del tribuno,
probabilmente la Lesbia di Catullo) e ora lo avevano condannato
di tentato avvelenamento nei confronti di quest'ultima. Attaccando
Clodia, in cui indicò l'unica regista di tutte le congiure
contro Celio, C. ebbe modo di sfogare il suo rancore nei confronti
del fratello di lei: la donna è descritta come una persona
infima e viene accusata pure di rapporti incestuosi. Tramite la
descrizione della vita di Celio, C. ha modo - inoltre - di dipingere
uno spaccato della società romana del suo tempo, e si sforza
di giustificare agli occhi della giuria i nuovi costumi, morali
e politici, che l'esuberante gioventù romana (Celio compreso)
ha assunto da tempo e che possono destare scandalo solo allo sguardo
di moralisti "bacchettoni" e retrogradi.
Qui, a ben vedere, aldilà della facezia,
C. propone un originale modello culturale, teso a ricondurre i nuovi
comportamenti all’interno di una scala di valori che continui ad
essere "programmaticamente" tradizionale, laddove però la
stessa tradizione sia opportunamente spogliata del suo eccesso di
rigore e resa più flessibile alle esigenze di un mondo sentito
consapevolmente in trasformazione.
L'orazione è una delle più divertenti,
brillanti e variegate di C.: nell’intento di pilotare i giudici
attraverso gli stati d’animo più diversi, egli si avvale
di una pittoresca alternanza di toni e di registri, che lascia emergere
di preferenza la vena brillante, ironica (soprattutto nei riguardi
di Clodia), talora apertamente comica.
Pro Milone.Gli scontri tra le bande di Clodio
e di Milone durarono ancora a lungo e nel 52 Clodio rimase ucciso.
C. si assunse la difesa di Milone, accusato dell'omicidio. L'orazione
("Pro Milone") è considerata uno dei suoi capolavori,
per l'equilibrio delle parti e l'abilità delle argomentazioni,
basate sulla tesi della legittima difesa e sulla esaltazione del
tirannicidio. C. davanti ai giudici, però, fece un fiasco
completo (evidentemente, l'orazione che noi possediamo è
dunque frutto di una successiva rielaborazione letteraria): gli
cedettero i nervi a causa della situazione di estrema tensione in
cui si trovava la città, e così Milone dovette fuggire
in esilio.
Orazioni cesariane. Dopo la vittoria di
Cesare, C. - come visto - ne ottenne il perdono: nella speranza
di rendere il regime meno autoritario, cercò forme di collaborazione
e accettò di perorare di fronte al dittatore le cause di
alcuni pompeiani pentiti. Le "orazioni cesariane" ("Pro Marcello"…)
si collocano tra il 46 e il 45 e sono caratterizzate da un'abbondanza
di elogi a Cesare la cui completa sincerità è piuttosto
difficile ammettere.
Filippiche. Dopo la morte di Cesare, per
indurre il senato a dichiarare guerra ad Antonio, C. pubblicò
invece le "Filippiche" (44), in numero forse di 18 (il titolo,
che risale a una definizione scherzosa dello stesso autore, intendeva
sottolineare il legame ideale coi celebri discorsi di Demostene,
il più grande oratore ateniese, contro le pretese all’egemonia
di Filippo di Macedonia). Uno solo dei discorsi, il II, un attacco
di violenza inaudita, non venne effettivamente pronunciato, ma fatto
circolare come pamphlet. Nelle "Philippicae", Antonio
viene dipinto - con sapiente varietà di toni, dall'ironico
al satirico - come un volgare bandito, programmatore di proscrizioni
e di confische, alla stregua dei suoi loschi fautori. Le "Philippicae"
costituiscono anche un tentativo assai ardito (e fallito) di
influenzare l’opinione pubblica, lanciando in tutto il mondo romano
dei programmi che fissavano di volta in volta l’obiettivo da raggiungere
nella lotta contro Antonio.
*Retorica. Abbiamo visto in quale misura
l'arte oratoria, in C., sia stata legata all'azione; è chiaro,
dunque, che nessuno meglio di lui era in grado di elaborare una
teoria romana dell'eloquenza, come mezzo di espressione e come strumento
politico. Le prime riflessioni al riguardo risalgono già
alla sua giovinezza, anche se, in quell'epoca, egli non ha ancora
concepito il problema in tutta la sua ampiezza. Ecco un resoconto
delle sue opere di retorica principali:
De inventione. Ancora troppo vicino ai suoi
maestri greci, per i quali l'eloquenza era una "tecnica" fra le
altre, scrisse in gioventù un manuale scolastico, il "De
inventione".
De oratore. Solo nel 55, quando le circostanze
lo sollecitarono a riflettere sulla reale funzione dell'eloquenza
all'interno della città, compose il "De oratore",
un’opera in forma dialogica, "platonica" ma con contenuti romani
(opera che, dunque, già nella struttura originale supera
con un balzo tutti i trattati precedenti in materia): Crasso e Antonio,
i due più insigni oratori dei tempi della sua giovinezza,
sono i principali interlocutori (il dialogo è ambientato
nel 91 a.C., e Crasso è l'evidente alterego dello stesso
C.).
La "trattazione" - precisamente - verte non tanto
sull'eloquenza in quanto tale, o sulle regole per praticarla, quanto
piuttosto sulla figura stessa dell'oratore (come recita il titolo,
del resto), assunto come ideale civico e umano, uomo politico della
classe dirigente, guidato dalla "probitas" e dalla "prudentia",
intellettuale garante - nella sua stessa persona - dei valori (morali,
ma anche culturali) dell'aristocrazia: l' "orator" dovrà
servirsi della sua abilità non per scopi demagogici, ma per
invogliare alla volontà dei "boni".
Il vecchio problema di Catone è riproposto
in termini nuovi, ma seguendo il medesimo spirito. Per C. l'oratore
è un pensatore universale, "enciclopedico", che deve conoscere
a fondo tutto ciò su cui si può trovare in obbligo
di parlare (e in ciò C. si avvicina alle tesi di Platone),
ma deve superare anche tutte le tecniche particolari, essere un
artista della parola per persuadere con la grazia, e al tempo stesso
essere un filosofo (e la "filosofia morale" principalmente la sua
guida), per scoprire ogni volta le ragioni profonde delle cose.
Il I libro tratta così proprio della preparazione
generale - appunto "enciclopedica" - dell’oratore (soprattutto,
come detto, filosofica e con predilezione per la filosofia morale);
il II dell’invenzione, della disposizione, della memoria; il III
della elocuzione e dello stile.
Brutus. La riflessione di C. sull'eloquenza
trovò espressione, in seguito, nel "Brutus" (46),
che è un profilo insieme storico e critico, sempre in forma
di dialogo (avente per protagonisti l’autore stesso, l’amico Attico
e Bruto, cui è dedicato), della figura dell'oratore romano,
dalle origini fino allo stesso C.. Vi si combattono gli "atticisti"
(un gruppo di giovani oratori, fautori di uno stile piano, conciso,
incisivo, come quello del loro modello, il greco Lisia); ma forse
- più correttamente - si prende una posizione intermedia
tra quelli e gli "asiani" (più attenti, invece, agli effetti
"plateali" del discorso, e dunque al suo ritmo, alla sua sonorità
e alla sua "ampollosità"), teorizzando, per così dire,
una sorta di "duttilità situazionale" (cioè, legata
alla specifica situazione processuale o assembleare) dell’oratore
stesso, che privilegiasse comunque uno stile dagli effetti potenti
e grandiosi, tali da scuotere davvero in profondità le coscienze.
Il "Brutus" è tuttavia percorso da una fortissima
vena di pessimismo sulle sorti future dell’eloquenza romana, dal
momento che la dittatura di Cesare, secondo C., ormai inibiva la
libera espressione politica e precludeva ogni spazio ai nuovi talenti.
Orator. L' "Orator" (46), infine,
è opera più tecnica, che affronta in modo tutto particolare
il problema del ritmo e dello stile nella prosa.
*Politica. Le opere politiche di C. nascono,
al pari delle successive opere filosofiche, dal bisogno di cercare
un risposta alla gravissima crisi politica e morale che Roma stava
attraversando. Partendo dalle cose più urgenti, in una città
in piena decomposizione politica, scrisse soprattutto:
De republica. Il "De republica" (tra
il 54 e il 52), in 6 libri, un trattato sullo Stato, il cui proposito
era ispirato dal celebre dialogo di Platone (ma, a differenza dello
"stato ideale" da quest'ultimo auspicato, lo stato descritto da
C. ha trovato già, come vedremo, una realizzazione storica
pressoché "perfetta" nella Repubblica romana). Noi ne conosciamo
solo una parte - buona parte dei primi 2 libri e frammenti degli
altri - trasmessaci principalmente da un palinsesto scoperto nel
1822 da Angelo Mai. L’opera è, più specificamente,
costituita da 3 dialoghi, tenuti in 2 giorni, a ognuno dei quali
sono dedicati 2 libri.
Nel dialogo, ambientato nel 129 a. C., intervengono
Scipione Emiliano e altri membri della sua cerchia; la conversazione
ha per oggetto quale sia la migliore forma di stato. Delle tre forme
di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia) nessuna è
buona ed esaustiva per se stessa [il rischio palese è che
esse, separatamente prese, degenerino nelle rispettive forme "estreme"
della "tirannide" (governo dispotico di uno solo), della "oligarchia"
(governo dei pochi) e della "oclocrazia" (governo della feccia del
popolo)]: ideale è, dunque, la Repubblica romana, in cui
queste tre forme trovano giusto temperamento ed equa applicazione
("costituzione mista", il cui primo referente ideologico è
lo storico Polibio) nella "collaborazione" tra consolato (elemento
monarchico), senato (elemento aristocratico) e comizi (elemento
democratico): tuttavia, in verità, viene preferita la repubblica
aristocratica realizzatasi nell’età scipionica [I libro];
inoltre, la costituzione romana supera le altre perché non
si deve ad uno solo, ma è opera di più generazioni
e di molti uomini d’ingegno [II libro].
In realtà, <<nell’analisi ciceroniana,
la tripartizione dei poteri si risolve in una più fondamentale
bipartizione tra elemento aristocratico (senato e consoli insieme)
e elemento democratico; a un’interpretazione largamente estensiva
dell’autorità del senato, [l'autore] ne affianca una altrettanto
limitativa dei poteri del popolo. Ciò mostra come la dottrina
della costituzione mista ubbidisca in sostanza a una tendenza conservatrice:
il mantenimento dei vigenti rapporti di potere e di proprietà,
e la contemporanea garanzia, per i ceti inferiori, di una voce più
o meno nominale negli affari politici>>. [E. Narducci]
Nel III libro, si disputa del fondamento della
costituzione: se, cioè, essa debba basarsi sulla giustizia
o sull’utilità e sul diritto del più forte. Argomento
dei libri IV e V sono invece le istituzioni morali e politiche,
la scienza del governo e i doveri del "princeps" (ma il singolare
si riferisce piuttosto al "tipo" dell’uomo politico eminente: C.
sembra pensare, infatti, più ad un’elite di personaggi eminenti
che si ponga alla guida del senato e dei "boni"), visto –
utopisticamente – come un "dominatore asceta", formato da un'opportuna
e profonda educazione filosofica, animato da un giusto desiderio
di gloria, laddove però l'interesse personale non è
mai anteposto a quello dello stato.
I protagonisti del De re publica si impegnano,
tra l’altro, in un'approfondita discussione sulla giustizia del
dominio romano sugli altri popoli: l’imperialismo romano è
pienamente giustificato in quanto apportatore di civiltà
a popolazioni di per sé incapaci di autogoverno (confutati,
dunque, gli argomenti coi quali il filosofo greco Carneade, in conferenze
rimaste famose, ne aveva indicata la ragione fondamentale nella
sete predatoria dei Romani).
Infine, nel VI libro, si tratta della felicità
riservata dopo la morte agli uomini che hanno ben meritato della
patria: a tal proposito, nel "Somnium Scipionis", l'episodio
che conclude il libro e l'opera (così come il "mito di Er"
concludeva la "Repubblica" di Platone), C. racconta, con lucida
e vivace capacità visionaria, un sogno appunto dell’Emiliano,
al quale l’avo adottivo, Scipione Africano, mostra la piccolezza
e l’insignificanza delle cose umane (ideali e materiali) ed espone
le dottrine dell'immortalità dell'anima e i premi oltremondani
concessi ai grandi uomini di stato, benefattori della patria.
De legibus. Il "De legibus" (52-?)
forse constava di 6 libri (ma ce ne sono pervenuti 3, e per giunta
non interi), che dovevano evidentemente affiancarsi al "De re
publica", proprio come le "Leggi" alla "Repubblica"
di Platone..
C. tratta, dunque, del diritto razionale e naturale,
e del concetto di giustizia da cui derivano le leggi: esse hanno
in se stesse la ragione che vincola l’uomo al loro rispetto. Nella
pratica, C. trova che le "dodici tavole" sono il plus non ultra
(libro I). Negli altri 2 libri, è contenuta tutta una serie
di prescrizioni religiose e civili, scritte nel latino arcaico della
primitiva legislazione romana.
L'opera, insomma, tradisce matrice e finalità
sostanzialmente conservatrici e tradizionalistiche, auspica l’accrescimento
dei poteri del senato, ma altresì valuta importante evitare
un impatto frontale col popolo, le cui esigenze dovrebbero essere
opportunamente considerate e risolte (un aspetto lampante, questo,
del "moderatismo" di C., strategia volta alle esigenze politiche
della sopravvivenza dello stato).
*Filosofia. Pensatore fondamentalmente "asistematico",
C. si diede alla filosofia propriamente intesa soltanto dopo i 50
anni; ovvero, si dedicò alla pura speculazione e compose
le sue opere filosofiche soprattutto nei 2 determinati periodi di
forzato ritiro dalla scena politica: il primo risale a quando fu
instaurato il triumvirato, il secondo è sotto la dittatura
di Cesare; e ciò, almeno con due finalità: sia per
rispondere ad una intima esigenza "consolatoria", sia (e direi soprattutto)
con l’intento di far conoscere ai Romani i contenuti del pensiero
filosofico greco: ai suoi occhi, la rigenerazione etico-politica
della res publica richiedeva infatti che la cultura filosofica
- la quale comportava, tra l’altro, una riflessione sui valori che
erano alla base della convivenza sociale - divenisse elemento costitutivo
dell'educazione dei gruppi dirigenti (coevi e futuri) di Roma e
dell’Italia. Le opere filosofiche di C. dipendono, dunque, largamente
dalla produzione di pensatori greci, ma hanno un taglio profondamente
originale, soprattutto per ciò che ne riguarda l’adattamento
alla situazione romana.
Per l’esposizione e il confronto delle diverse
dottrine filosofiche, egli seppe trovare una forma letteraria capace
di interessare un pubblico relativamente vasto, che trascendesse
la componente "professionistica" della filosofia stessa: una forma
dialogica accattivante, per la quale egli si rifaceva alla tradizione
accademica e peripatetica; di conseguenza, egli insiste moltissimo
sulla necessità del legame tra filosofia ed eloquenza elegante
e persuasiva.
In precedenza, a Roma la filosofia era appannaggio
pressoché esclusivo di insegnanti greci, il cui status
sociale era in genere poco elevato. Del tutto nuovo, così,
è il tipo di impegno filosofico realizzato per la prima volta
da C.: quello del cittadino eminente (ch'è poi il protagonista
privilegiato dei dialoghi) per cui la filosofia non è appunto
una "professione", bensì uno degli ingredienti di una vita
spesa al servizio dello stato. Per orientarsi tra le diverse posizioni
filosofiche in conflitto, l'Arpinate si rivolse - come detto - allo
scetticismo della "Nuova Accademia", nella sua formulazione "probabilistica"
[ma vd., a proposito, sopra]: questo spirito di ricerca indefessa,
che superava la mera istanza di critica "corrosiva", si propose
così uno sbocco altamente positivo e produttivo, per il vaglio
delle soluzioni possibili alla crisi, già praticamente in
atto, dello stato e delle istituzioni romane. Ecco un resoconto
delle sue principali opere filosofiche:
"Paradoxa Stoicorum" (46 a.C.): hanno più
che altro il carattere di un’esercitazione retorica;
"Consolatio" (45-44) per la morte della
figlia Tullia: il ruolo "consolatorio" della filosofia (in specie,
della dottrina dell'immortalità dell'anima) ha qui la sua
espressione più palese;
"Hortensius" un protrettico, ovvero un dialogo
di esortazione alla filosofia: scritto che, evidentemente, ebbe
grande fama e risonanza, se agì persino su Agostino (delle
due opere appena citate non restano purtroppo che frammenti);
Accademica. Gli "Accademica" (45)
sono un’opera dialogica, composta in due tempi. C. compose prima
2 dialoghi ("Catulus" e "Lucullus"), che rifuse, poi, in una II
ed., in 4 libri con altri personaggi, Attico e Marrone.
A noi è pervenuto il II libro della I ed.
("Accademica priora") e il I – incompleto – della II ed.
("Accademica posteriora"); vi si tratta del problema della
conoscenza secondo lo spirito della "nuova accademia": l’uomo non
può arrivare alla conoscenza, ma deve accontentarsi della
"verosimiglianza".
De finibus bonorum et malorum. Dedicata
a Bruto, il "De finibus" (45) è un’opera dialogica in 5 libri,
in cui appunto si tratta dell’ "essenza del sommo bene e del sommo
male".
In ordine a tale problema, è esposta nel
I libro la teoria epicurea ("edonismo materialistico": sommo bene
è la voluttà con i piaceri dello spirito, sommo male
il dolore), teoria confutata con decisione nel II libro, anche alla
luce del suo carattere larvatamente eversivo (atteggiamento di astensione
dall’impegno nella vita pubblica); nel III è svolta la teoria
stoica (il cui dogmatismo e rigorismo sono confutati nel IV, anche
se ne è apprezzata la nobiltà): sommo bene è
l’onesta e la sapienza. Il V libro, infine, contiene il vero e genuino
pensiero di C., ed è un’esposizione delle dottrine accademiche
e peripatetiche, secondo cui il sommo bene si consegue solo vivendo
secondo la legge naturale, che esige la salvaguardia dell’animo
mediante la virtù e quella del corpo mediante la soddisfazione
degli appetiti naturali.
Tusculanae disputationes. Le "Tusculanae
disputationes" (45), dedicate a Bruto, riportano un dialogo
che s'immagina dipanarsi in 5 giorni, in 5 libri, uno per ogni giorno,
ambientato nella villa di Tuscolo (da cui il titolo).
Si segue il metodo accademico-peripatetico di esame
delle opinioni diverse, dimostrandone la parziale falsità
e ricavandone ciò che v’è di più verosimile.
Il problema è quello della felicità, una questione,
per così dire, di "etica pratica". Nei primi 4 libri si parla
di ciò che impedisce all’uomo di essere felice: il timore
della morte (ma la morte è un bene, che l’anima sia immortale
o no, perché dà eterna beatitudine); il dolore (il
peggiore dei mali: ma la ragione lo sconfigge con la sopportazione
ed il "buon senso"); la tristezza ed i turbamenti dello spirito
(fondati su passioni e false opinioni, che la ragione però
rimuove). Il V libro mostra, invece, come la virtù sola basti
alla vita felice, affrancando l’uomo da timori, dolore e sofferenza:
chi la possiede è forte, magnanimo, impassibile, addirittura
invincibile.
Le "Tusculanae" rispecchiano uno stato d’animo
profondamente angosciato, e bisognoso di consolazioni d’ogni sorta
(C. soffriva sia per la recente scomparsa della figlia, sia per
l’oppressione della dittatura): la (conseguente) convinzione della
necessità dell’assoluto dominio delle passioni da parte della
ragione riavvicina l'autore al rigorismo stoico quanto lo allontana
dalla sua più consueta simpatia per l’ampia, umana tolleranza
dei peripatetici.
De officiis ("Sui doveri"). Trattato dedicato
al figlio Marco: i primi 2 libri trattano "dell’onesto e dell’utile"
(Panezio), il III del loro conflitto (Posidonio). C. cerca, in definitiva,
nella filosofia (nella fattispecie, lo stoicismo "riformato", più
aperto e "mondano", di Panezio), i fondamenti di un progetto di
vasto respiro, indirizzato alla formazione etico-politica della
gioventù e alla costruzione di un modello di comportamento,
pubblico e privato, in linea con la trasformazione politica (anche
in senso largo) del tempo, per i membri della futura classe dirigente.
3 dialoghi di argomento religioso e teologico:
a. "De natura deorum", dedicato a Bruto,
in 3 libri: nel I, Velleio espone la dottrina epicurea sull’esistenza
degli dei e la loro natura; nel II, L. Balbo espone la dottrina
stoica a riguardo: è il più interessante, in particolare
per la parte che descrive l’ordine e le bellezze dell’universo,
concepito finalisticamente come destinato al bene dell’uomo,
secondo una "Provvidenza" invisibile, ma indubitabile; nel III,
infine, A. Cotta – alterego di C. – presenta una visione scettico-razionalistica
del problema: probabilismo applicato alla teologia, senza il
dogmatismo ateo degli epicurei o quello panteistico degli stoici;
b. "De divinatione",in 2 libri, sulla
validità dell’arte divinatoria, che C. considera un’impostura;
c. "De fato", dove si esamina il problema
del rapporto tra fato e libero volere, e si espone una tesi
– peraltro non originale – contraria al fatalismo stoico.
Cato maior de senectute. Nel "Cato maior",
dedicato ad Attico (44), si finge che Catone il censore appunto,
giunto in venerabile età, esalti alla presenza di Lelio e
di Scipione Emiliano, attraverso numerosi esempi, la saggezza e
i beni spirituali della vecchiaia: l’operosità non interrotta,
l’integrità delle forze e dello spirito, i godimenti spirituali
non certo inferiori a quelli dei sensi, la contemplazione serena
della morte.
Laelius de amicizia. Dinanzi a C. Fanno
e M. Scevola, nel "Lelius" (sempre del 44), Lelio appunto esalta
l’amicizia: il dialogo si immagina avvenuto in occasione della morte
di Scipione Emiliano. Viene affermato il valore morale dell’amicizia
e si sostiene che colui che intende l’amicizia in modo utilitario
concepirà in modo utilitario anche la morale, cioè
non disinteressatamente (e ciò detto in aperta polemica con
gli epicurei).
*Epistolario. Si compone, nella forma in
cui ci è tramandato, di 16 libri "Ad familiares" (parenti
e amici, dal 62 al 43 a.C.); 16 libri "Ad Atticum" (Tito
Pomponio Attico, il migliore amico di C.: 68-44 a.C.); 3 libri "Ad
Quintum fratrem" (dal 60 al 54) e 2 libri "Ad Marcum Brutum"
(il secondo di autenticità controversa). Il tutto per un
totale di 900 lettera circa, in cui la varietà dei contenuti,
delle occasioni e dei destinatari si rispecchia fedelmente in quello
dei toni. Si tratta - è bene sottolinearlo - di lettere "vere",
ovvero esse nascono in buona parte da genuine esigenze di comunicazione
privata e personale: per questo motivo, ci mostrano un C. "segreto",
intimo, o comunque "non ufficiale", nonché uno spaccato importantissimo
(un documentario storico-politico, quasi) della Roma del suo tempo.
*Poesia. Gli interessi poetici occupano,
nel quadro della complessiva produzione di C., uno spazio ridotto
ma non insignificante. Specificamente, di lui ci restano alcuni
poemi: una traduzione in versi dei "Fenomeni" (poema
astronomico, d'ispirazione stoica, scritto dall'alessandrino Arato);
un poemetto epico, in stile enniano, dedicato alla vita e alle gesta
del suo nobile concittadino C. Mario ("Marius"); un altro
poemetto, ancora in stile enniano, dedicato alla propria attività
nel periodo del consolato ("De consulatu meo"). Come appare
chiaro, dopo gli esordi "alessandrineggianti" (di argomento prevalentemente
mitologico), dalla sua esperienza di uomo politico C. si sentì
spinto piuttosto verso l’epica di argomento nazionale.
Tuttavia, nel quadro complessivo, si tratta generalmente
di opere di mediocre valore artistico e di scarsa rilevanza letteraria,
se non per la più mobile struttura dell’esametro.
Considerazioni
sulla lingua e sullo stile.
Infine, alcune notazioni sulla lingua e sullo stile:
come abbiamo visto, <<[C. privilegiò,] nell’eloquenza,
uno stile capace di esercitare un forte impatto emotivo sugli ascoltatori.
A questa intenzione va ricondotta la sua "magniloquenza", criticata
dagli atticisti, e che si esprime, prima ancora che nel ricorso
alla "copia verborum" ("abbondanza di parole", che spesso
significa ridondanza espressiva al fine di ribadire un concetto)
e alla "amplificatio" (la "dilatazione" di un concetto, al
fine di farlo apparire più grandioso, maestoso, o spaventoso),
nella sapiente costruzione del periodo prosastico, che nella letteratura
latina è essenzialmente una innovazione ciceroniana.
Ispirandosi soprattutto ai modelli di grandi oratori
greci come Isocrate e Demostene, C. eliminò la paratassi
("coordinazione") tipica della prosa arcaica a favore della ipotassi
("subordinazione"), e costruì un periodo ampio e armonioso,
basato sull’equilibrio e sulla rispondenza delle parti >>
[E. Narducci]
Anche nella prosa retorica e filosofica, l'Arpinate
sfruttò ampiamente lo stile che aveva elaborato per l’eloquenza:
particolarmente nella filosofia, poi, egli dovette cimentarsi anche
con la povertà espressiva e costitutiva del latino, inadatto
ad una resa adeguata dei corrispettivi termini e concetti del lessico
intellettuale greco: l’accanita sperimentazione, che ne derivò,
fruttò l’introduzione nel latino di molti neologismi che
sarebbero poi divenuti patrimonio della tradizione intellettuale
europea ("qualitas", "quantitas", "essentia",
e così via).
Insomma, alla luce di quanto detto, quelli di C.
furono uno stile e una lingua che benissimo si piegarono al compito
"politico" che C. aveva assegnato alla sua oratoria, alla sua filosofia
e alla sua scrittura tutta.
...:::Bukowski:::...
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