Vita.
Un protagonista, non proprio "trasparente",
della politica del suo tempo. S. nacque da famiglia provinciale
e plebea, ma abbastanza agiata, tal che egli poté completare
la sua formazione a Roma, venendo in contatto con la scuola neopitagorica
di Nigidio Figulo; partecipò anche, e volentieri, alla vita
mondana della capitale. Politicamente si affiancò ben presto
a Cesare, e per questo suo impegno ottenne la carica di "questor",
nel 54. Questo fu un anno molto turbolento per la politica romana:
vi fu l'uccisione di Clodio, un demagogo del popolo, ad opera di
Milone. S. si schierò decisamente contro quest'ultimo e anche
contro Cicerone, suo difensore. Nel 50, fu espulso dal senato per
immoralità (aveva infatti - presumibilmente - una relazione
con Fausta, figlia di Silla e moglie in seconde nozze con Milone):
ma in realtà, il provvedimento nascondeva piuttosto mene
politiche e rancori personali. Durante le guerre di quel periodo,
fu sempre fedele a Cesare, aiutandolo anche alle operazioni militari
in cui, però, non risultò sempre vincitore.
Questa fedeltà, tuttavia, gli fu premiata
con la riconquista, nel 48, della questura e della dignità
senatoria. Alla fine del 47 seguì Cesare in Africa, e portò
a compimento un'operazione militare, conquistando l'isola di Cercina.
A seguito di questo successo, Cesare gli affidò il compito
di governatore della cosiddetta Africa Nuova, costituita
dal vecchio regno numidico di Iuba. In quei mesi di governo, poté
accumulare notevoli ricchezze (non diversamente, del resto, dagli
altri colleghi del suo tempo: ma non possiamo giurare sul fatto
che la sua amministrazione fu tanto disonesta e rapace quanto le
testimonianze avversarie ci vogliono far credere), che gli permisero
- dopo la morte di Cesare ed il suo ritiro dalla vita pubblica,
nei celebri e bellissimi "Horti Sallustiani" - di vivere
il resto della sua esistenza in ricchezza, dedicandosi esclusivamente
alla composizione delle sue opere.
Opere.
Di S. abbiamo:
1] due monografie:
- "De coniuratione Catilinae" (42?): con
essa, lo storico interrompe la tradizione annalistica della storiografia
romana e si occupa di un episodio di storia contemporanea – appunto
la congiura e il moto del 63-62 – facendovi precedere un’analisi
della condotta cesariana del 66-63, vista come unica valida alternativa
al corrotto "regime dei partiti", con riflesso sulle sue scelte
politiche.
Dopo un proemio moraleggiante e filosofico, impostato
sull'affermazione che l'uomo è composto di anima e di corpo
e che le facoltà spirituali devono prevalere su quelle materiali
(facoltà spirituali precipue sono l'attività politica,
quella militare, quella oratoria, quella storiografica), tutta la
prima parte restante dell’opera è, praticamente, un’analisi
e un’esegesi dell’inquietante fenomeno rivoluzionario, alla luce
di categorie storiche, morali e psicologiche. Ne risulta, perciò,
un quadro fosco, ma estremamente vivace, di una società profondamente
corrotta, su cui campeggia come figura dominante Catilina, intelligente,
coraggioso e malvagio: una figura sinistra, ma estremamente affascinante,
al cui carisma sembra non riuscire a sottrarsi neanche lo stesso
S.. Accanto a Catilina, troviamo poi altri personaggi "studiati"
con eguale interesse: i congiurati, Sempronia, Cicerone (per quanto
ridimensionato) e soprattutto Cesare e Catone (visti come entrambi
positivi – direi "complementari" – per Roma: uno con la sua liberalità,
munificenza e misericordia; l’altro con la sua "integritas",
"severitas", "innocentia"…).
Come già si può arguire da quanto
detto, il metodo e il fine adottati nell’analisi sono moralistici:
S. ritiene che l’antica grandezza della repubblica fosse garantita
dall’integrità e dalla virtù dei cittadini, e vede
nel successo, nella ricchezza e nel lusso le cause della decadenza
e la possibilità di tentativi come quello di Catilina.
- "Bellum Iugurthinum" (40 ca): narra, in
114 capitoli, la guerra combattuta dai romani (111-105 a. C.) contro
appunto Giugurta, re di Numidia. Ma il pretesto bellico serviva
a mascherare un'altra guerra, quella interna, del popolo che combatteva
la prepotenza della nobiltà senatoria, la quale delle imprese
militari si era creato un monopolio a beneficio dei suoi appaltatori,
avidi di nuovi guadagni provinciali.
Così, anche qui il taglio è moralistico
e scopertamente politico: se infatti, da una parte, S. si dimostra
capace di forti sintesi storiche, dall’altra rivela vigore polemico
nel denunciare l’incompetenza della "nobilitas" nella conduzione
della guerra, e la sua corruzione generale; nel valorizzare le ragioni
espansionistiche della classe mercantile; nell’auspicare la nascita
di una nuova aristocrazia, fondata sulla "virtus" (a tal
proposito, si ricordi il discorso di Mario, contenuto nell'opera).
2] le "Historiae", di cui abbiamo un numero
abbastanza cospicuo di frammenti di 5 libri e alcuni discorsi. Esse
riprendono e sviluppano le "Historiae" di Sisenna, andando dalla
morte di Silla (78) fino (probabilmente) alla guerra di Pompeo contro
i pirati (67). Dai frammenti, si evince che S. era ritornato all’annalistica
(ma, diversamente dall'annalistica tradizionale, non iniziava "ab
urbe condita" e trattava solo una serie di avvenimenti, per
lo più contemporanei) e che il suo pessimismo si era, se
possibile, acuito.
3] Oggi non conosciamo più la sua traduzione
dei poemi di Empedocle (ammesso che l' "Empedoclea", di cui
parla Cicerone in una lettera, sia davvero opera sua). A lui si
attribuiscono anche 2 epistole politiche a Cesare, nelle
quali addita al dittatore le possibili riforme dello stato (in primo
luogo, l'abolizione del capitalismo), che ponessero freno al lusso
dei nobili ed attuassero una più profonda giustizia sociale;
quasi sicuramente spuria è invece un’invettiva contro
Cicerone, di scuola retorica.
Considerazioni.
La storiografia come strumento d'indagine politica
ed arma ideologica. S. - adottando una tecnica a suo modo rivoluzionaria
(ma avendo già l'illustre esempio delle "monografie" cesariane)
- scelse di raccontare la storia di Roma "carptim", ovvero
"per argomento"; e i temi delle sue due "monografie" rispondono
ad intenti ben precisi: mostrare - soprattutto - in che modo un
regime aristocratico, quale quello instaurato dopo la sconfitta
dei Gracchi, fosse andato progressivamente in rovina.
La prima delle cause era - secondo il nostro -
da ricercare negli scandali che avevano accompagnato la guerra contro
il re numida Giugurta, e che avevano messo in luce i compromessi
e la corruzione di quegli stessi uomini che, nel senato, erano i
responsabili della politica romana: la stessa personalità
universalmente rispettata di Metello, cui si era finito per dare
il carico della guerra, non bastò a impedire l'ascesa di
C. Mario, al quale il popolo affidò l'incarico di porre termine
a una guerra quasi conclusa da Metello, raccogliendone quindi i
frutti della gloria. Questo episodio aveva segnato, in effetti,
l'inizio delle guerre civili, che dovevano provocare le smisurate
ambizioni dello stesso Mario.
La "Congiura di Catilina", mettendo in luce i crimini
di cui erano stati complici un pugno di aristocratici, esaminava
- a sua volta - le cause morali di tale decadenza: gusto del piacere,
corruzione dei costumi, sfrenata avidità di denaro. La forza
di Catilina, e il suo pericolo per lo stato, era consistita soprattutto
nella sua abilità demagogica nel farsi interprete dei malcontenti
e dei disagi di una plebe anarchica e faziosa, di nobili ridotti
in rovina, di giovani squattrinati amanti del piacere, di uomini
- insomma - una volta appartenuti al partito di Silla.
La contraddizione. Dunque, S. considerò
la storiografia - ritenuta comunque inferiore alla politica attiva
- non solo come cronaca di fatti, ma anche come "archeologia", cioè
come ricerca delle loro cause: essa quindi tende a configurarsi
come indagine sulla crisi, e l’impostazione appunto monografica
ben si prestava alla messa a fuoco di un periodo o problema storico:
analisi che lo storico conduce a partire comunque e sempre da un
moralismo di fondo, da una profonda contraddizione - che appartenne
al suo tempo ed alla sua stessa vita - tra essere e dover essere,
tra le parole e i fatti, tra i propositi e le realizzazioni. Il
quadro che lo storico dipinge è, così, già
quasi degno di Tacito, nelle sue movenze drammatiche, per non dire
tragiche.
Uno sguardo al recente passato, velato di ideologia
e malinconia. S. scrive le sue pagine dopo la rivoluzione guidata
da Cesare (senza dubbio dopo la morte dello stesso dittatore), e
dopo che il mondo da lui evocato, anche se appartiene ad un passato
recentissimo, si è già definitivamente dissolto sul
campo di battaglia di Farsàlo; questa movenza "retrospettiva"
ha, tuttavia, anch'essa una motivazione politica: per lo scrittore
sabino, <<il punto d'arrivo della storia di Roma è
Cesare, egli non procede oltre; anzi risale "a ritroso" il corso
delle generazioni, per "spiegare" e "giustificare" Cesare e l'opera
sua (e quindi se stesso)>> [I. Lana]. Di qui l'incapacità
dell'uomo di elevarsi ad una visione obbiettiva e spassionata dei
fatti.
Tuttavia, S. non è un "democratico" che
rivendica al popolo una parte di potere: come i suoi predecessori,
da Catone a Cicerone, si propone piuttosto come l'avvocato dei valori
morali essenziali, un adepto di quel "conservatorismo intelligente"
che - nella convinzioni di questi intellettuali - è il solo
a poter salvare Roma. E’ il programma che Augusto riprenderà
alcuni anni dopo.
Uno stile originale: l' "inconcinnitas".
Un'altra caratteristica dell'opera di S. è la consapevole
originalità del suo stile, nel quale si giustappongono ricercati
arcaismi e ardite innovazioni ("arcaismo innovatore"), termini presi
dal linguaggio familiare ed ellenismi. Egli vuole, innanzitutto,
dare un'impressione di vita, in virtù di un periodo serrato
e vibrante, di scorci rapidi e di giri sintattici "atemporali" (è
la famosa "inconcinnitas" sallustiana), come l'impiego ripetuto
di ellissi, dell'infinito narrativo o lo sviluppo sistematico di
proposizioni participiali che costituiva, tra l'altro, uno dei tratti
caratteristici e di maggior rilievo dello stile narrativo dei greci.
Questa lingua composita suscita oggi l'impressione
di una certa artificiosità, o comunque rimane lontana da
quella "naturalezza" ciceroniana, che ci è invece familiare:
non dobbiamo credere, tuttavia, che il periodo ciceroniano fosse
più vicino alla lingua parlata e la frase di S., invece,
la libera creazione di un artista. La lingua quotidiana si collocava,
in realtà, alla medesima distanza sia dall'uno che dall'altra.
Per sua natura, non era né periodizzata né ritmata.
Ma neppure disponeva delle molteplici risorse che S. mette insieme.
...:::Bukowski:::...
|