La nascita e l'etimologia. Nella sua storia,
l'elegia ha conosciuto toni e contenuti molto diversi, pur nell'identità
della struttura metrica, che è quella del distico detto, appunto,
"elegiaco" (un esametro e un pentametro dattilico in coppia). Incerta
ne è la derivazione etimologica (gr. "eleghèia"):
secondo alcuni grammatici antichi, "élegos" avrebbe
avuto il significato originario di "canto di lamento", e l'elegia
si sarebbe conseguentemente sviluppata a partire dalle "lamentazioni
funebri" (anche Orazio mostra di condividere questa versione); e in
effetti, toni di tristezza e di malinconia caratterizzano talvolta
(ma non sempre) l'elegia. Ma forse, e più probabilmente, il
suo nome si ricollega alla designazione frigia (o di altra lingua
vicina) dell' "aulòs", quello strumento simile al flauto
su cui s'intonava la sua recitazione.
Caratteri e temi originari. Nata, comunque,
in ambiente ionico, nel VII sec., l'elegia ebbe carattere guerresco
con Callino e con Tirteo; con Solone divenne politica e sociale;
con Mimnermo cantò la fugacità malinconica della giovinezza
e dell'amore; fu pessimistica e moraleggiante con l'aristocratico
Teognide, filosofica con Senofane. Nella II metà del V sec.,
significativa fu invece l'opera di Antimaco di Colofone, che raccolse
una serie di elegie che narravano vicende mitiche d'amore sotto
il nome di Lide, la sua donna (come Mimnermo aveva fatto per la
flautista Nannò), costituendo un importante tramite per l'elegia
erotica e narrativa di età ellenistica. Abbiamo così,
in età alessandrina, la "Leonzio" di Ermesianatte, "Gli amori"
di Fanocle, forse la "Battide" di Filita, l' "Apollo" di Alessandro
Etolo, la grande elegia eziologica di Callimaco. L'elegia alessandrina
fu sopra tutto l'elegia dell'eros tormentato e doloroso, delle passioni
del mito meno conosciute: fu elegia raffinata che ricercò
ogni recondita dottrina; in essa il poeta, molto più che
parlare di sé, doveva esporre gli antichi, mitici casi d'amore.
Rapporti tra elegia greca ed elegia latina:
il "testimone" di Catullo. Proprio agli elegiaci
alessandrini (come Callimaco e Filita) i Latini dovettero rifarsi
come a maestri (anche per quella a sfondo più spiccatamente
"eziologico": gli "Aitia" callimachei costituiscono l'indubbio punto
di riferimento per le "Elegie romane" di P. e per i "Fasti" ovidiani).
Purtroppo, di quella produzione ellenistica quasi nulla a noi è
pervenuto, e non possiamo dunque verificare se anche negli elegiaci
alessandrini fosse presente, magari in piccola parte, quel carattere
personale e soggettivo che sarà tipico, invece, dei Latini.
Certo, Quintiliano con la sua celebre affermazione
(10, 1, 93 "elegia... Graecos provocamus", "nell'elegia gareggiamo
coi Greci") doveva avvertire concretamente i caratteri in parve
innovatori dell'elegia romana. Di sicuro, a tal proposito, noi possiamo
soltanto sottolineare l'importanza di Catullo (e, forse,
prima di lui, degli stessi "neoteroi") e del suo mondo
poetico per la mediazione con quel mondo greco e per la formazione
dell'elegia propriamente latina: nelle forme e nelle tecniche alessandrine
egli aveva immesso l'intensità passionale del suo temperamento,
gli odi e gli amori, il dolore e l'idealizzazione mitica di una
donna, l'esperienza drammatica della vita vissuta.
Riduttiva dunque, a questo riguardo, appare la
tesi del critico F. Jacoby, secondo la quale l'elegia latina deriverebbe
non direttamente dall'elegia erotica alessandrina (come invece affermava
un altro critico, F. Leo), ma da un ampliamento dell'epigramma greco,
il genere letterario al quale i poeti d'Alessandria avevano affidato
l'espressione diretta del sentimento personale. Spunti epigrammatici
non mancano, certo, presso gli elegiaci latini; tuttavia la momentanea
effusione del poeta ellenistico, che quasi sempre s'esaurisce in
un respiro troppo breve e termina spesso con una conclusione convenzionale,
viene, dagli elegiaci latini, inserita in un componimento che è
già strutturalmente diverso, più ampio e impegnativo,
e decisamente più "personale" o - come meglio si dice - "soggettivo",
autobiografico. Neanche sono assenti punti di contatto tra elegia
latina e "commedia nuova". E, ancora, sia per l'epigramma, sia per
la commedia, tanta parte dovette avere, anche per i poeti elegiaci,
l'insegnamento della scuola, in particolare la retorica, col suo
ricco campionario di temi e situazioni.
Fedeltà esclusiva del poeta alla donna
e all'amore. Al centro dell'elegia latina è la figura
femminile, una donna dai netti connotati spirituali e dalla presenza
fisica talora assai corposa, e spesso (inconsapevolmente) ossessiva.
Accanto a lei, un poeta che la canta, perché (oltre tutto)
è proprio lei ad esserne l' "ingenium", l'ispirazione
esclusiva; un poeta che la canta e che la adora, pur fra tradimenti,
liti e riappacificazioni, in un vagheggiamento che trascende la
dimensione puramente erotica per approdare ad una dimensione immaginifica
e mitica, spesso ambigua (ma il mito, quando c'è, non è
elemento fondamentale, ma accessorio: fondamentale è piuttosto
la vita del poeta: questa sarebbe, secondo taluni critici, la vera
novità rispetto all'originale greco). Essenziale, nel corteggiamento,
è poi lo stesso esercizio poetico, che prospetta all'amata
una fama imperitura; un esercizio poetico che per il poeta diviene
tutto, assorbe completamente la sua vita, distogliendolo completamente
da quelli ch'erano i doveri (sociali e militari) propri del "civis"
romano: una volontaria, e orgogliosa, "nequitia", un vero
e proprio "otium" amoroso, cui spesso si associava financo
una programmatica "recusatio": ovvero, l'autore elegiaco
confessava di accontentarsi di trattare un genere così umile
e "privato", anche perché non in grado di (un modo garbato
per dire che non voleva) trattare genere più impegnativi
e più scopertamente ideologici, quali ad es. l'epica o l'eziologia
(che fosse, questo, anche un larvato aspetto di polemica o di fronda
politica?).
La donna, musa e delirio del poeta. Immancabilmente
bellissima, la donna è dunque vita del poeta, ed è
idealizzata sin nel nome (Lesbia, Delia, Cynthia...): essa è
l'amica o, meglio, la "domina" alla quale sottomettersi in
un "servitium", ovvero in una sorta di volontaria schiavitù
o vassallaggio d'amore, non senza un dolce arrovellarsi nella sofferenza,
perché la donna è anche (se non soprattutto) traditrice
e volubile. E' comunque amore che vuole durare eterno (almeno nelle
intenzioni del poeta), e non passione intensissima ma labile, come
quella di un epigrammista greco: è eros che va oltre la morte,
e che talora il poeta canta addirittura come nenia funebre ("flebilis"
è, come già accennato, tradizionalmente il componimento
elegiaco).
Il canone degli elegiaci romani. Il canone
degli elegiaci romani appare già in Ovidio, che afferma di
essere quarto dopo Gallo, Tibullo e Properzio; alla fine
del I sec. d.C., lo conferma Quintiliano, nella sua "Institutio
oratoria", in quel famoso trafiletto, in parte già citato,
la cui valenza anche "critica" è, nella sostanza, valida
ancor oggi: <<Elegia quoque Graecos provocamus, cuius mihi
tersus atque elegans maxime videtur auctor Tibullus. Sunt qui Propertium
malint. Ovidius utroque lascivior, sicut durior Gallus>>;
ovvero: <<Anche nel genere elegiaco sfidiamo i greci: di questo
genere, Tibullo mi pare essere il rappresentante più
discreto e raffinato; altri invece gli preferiscono Properzio;
rispetto a questi due, Ovidio è inoltre più
licenzioso (nei toni e nei temi), mentre Gallo risulta più
"compassato">> [trad. N. Castaldi]. Infine, <<Catullo
restò fuori dal canone semplicemente per i criteri esterni
degli antichi, dato che il suo libro era polimetro e non costituito
interamente da elegie>> [I. Mariotti].
[Per gli approfondimenti sui maggiori rappresentanti
dell'elegia latina, rinvio, ovviamente, ai relativi capitoli contenuti
nell'indice della letteratura latina; consiglio, inoltre, d'integrare
il presente capitolo con quello riguardante l' "introduzione alla
letteratura amorosa in Roma", sempre contenuto nell'indice]
...:::Bukowski:::...
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