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Publio Virgilio Marone

--- Andes, 15 ott. 70 – Brindisi, 21 sett. 19 a.C. ---

 

Vita.

*La formazione intellettuale. V. nacque in un piccolo villaggio nei pressi di Mantova, da una oscura famiglia di coltivatori, appartenente alla piccola borghesia locale, romanizzata piuttosto di recente: il padre possedeva un poderetto lungo le rive del Mincio, felice e salubre luogo d'infanzia per il poeta.

La sua formazione ebbe inizio a Cremona, dove frequentò la scuola di grammatica, e dove, a quindici anni, prese la toga virile. Da Cremona si trasferì a Milano e poi nuovamente a Roma, alla scuola del retore Elpidio (esponente dell’indirizzo asiano), il quale annoverava tra i suoi discepoli i giovani che avrebbero formato la futura classe dirigente di Roma, fra cui ad es. Marco Antonio e Ottaviano.

V., tuttavia, schivo per natura, non aveva talento oratorio, né intendeva perseguire la carriera forense (difese una sola causa, forse senza successo). Abbandonò così la retorica per dedicarsi agli studi filosofici, e in particolare all’Epicureismo, che approfondì a Napoli alla scuola di Sirone. Qui divenne intimo amico di Vario Rufo e Plozio Tucca, i futuri curatori della I ed. dell’Eneide.

Il periodo della sua formazione è dominato, sul piano letterario, dalle personalità di Catullo e di Elvio Cinna (del quale scriverà un elogio discreto nella IX Egloga), e dall'astro nascente di C. Gallo, della sua stessa età. Sedotto e affascinato da questo ambiente, V., quasi certamente, scrive in questo periodo almeno alcune delle composizioni che entreranno a far parte della raccolta oggi conosciuta col nome di "Appendix Vergiliana" [per la quale, vd, oltre].

*La perdita delle terre. Dopo la morte di Cesare, fra il 44 ed i primi mesi del 43, V. fece ritorno ad Andes, dove ritrovò l’amico della sua giovinezza, Asinio Pollione, che ricopriva l’incarico di distribuire le terre ai veterani. Grazie a lui, il poeta poté in un primo tempo sottrarre le sue terre all’esproprio: tuttavia, un anno più tardi, mentre era impegnato nella composizione delle "Bucoliche", i suoi campi di Mantova furono assegnati ai soldati di Ottaviano, per i quali si era rivelato insufficiente il territorio di Cremona. V. non dimenticò mai il dolore causato dalla perdita della sua terra, per la quale sentì sempre una viva nostalgia.

*Il trasferimento a Roma. Perdute le sue terre nel mantovano, V. si trasferì a Roma, dove pubblicò le "Bucoliche". L’anno successivo entrò a far parte del circolo letterario di Mecenate. Catullo e Lucrezio erano morti da poco e soltanto la poesia alessandrina, coltivata da Cornelio Gallo, conservava ancora un certo splendore, mentre Orazio, che V. stesso presentò a Mecenate, iniziava allora a scrivere le satire. Mecenate ed Ottaviano offrirono a V. una casa a Roma, nel quartiere dell’Esquilino, ma il poeta spesso preferiva ritirarsi a sud verso il mare ed il sole, mentre si dedicava alla composizione delle "Georgiche", compiute in sette anni, durante un soggiorno a Napoli, fra il 37 ed il 30.

Le "Georgiche" diedero a V. la fama e suscitarono l’ammirazione di Mecenate, che gli era stato particolarmente vicino nelle varie fasi della composizione.

Si presume, in realtà, che V. fosse istintivamente un "cesariano". D'altro canto, l'epicureismo invitava i suoi adepti a non occuparsi di politica, ma ad accettare, come male minore, un padrone che almeno assicurasse la pace.

*L’ "Eneide". Nell’estate del 29 Ottaviano, tornato dall’Asia dopo la vittoria conseguita ad Azio su Antonio e Cleopatra, si era fermato ad Atella per riprendersi da un mal di gola. Là V. gli lesse per quattro giorni di seguito i libri compiuti delle "Georgiche", aiutato da Mecenate, che lo sostituiva nella lettura quando era stanco.

Dopo questo episodio, certo non senza un suggerimento da parte dello stesso Augusto, V. fu scelto quale cantore del nuovo impero e del nuovo principe. Da questo momento fino alla fine della vita V. attese all’ "Eneide".

Ancora tre anni dopo l’inizio della stesura del poema, V. scriveva ad Augusto che l'opera era solo "incominciata" e ci vollero ancora tre anni perché la I redazione fosse terminata. Nel 22, V. ne lesse all’imperatore alcuni canti, ma non si trattava ancora della stesura definitiva.

*Il viaggio in Asia e la morte. Nel 19 a.C. V. partì per un lungo viaggio attraverso la Grecia e l’Asia allo scopo di arricchire la propria cultura e, nello stesso tempo, verificare la topografia dei luoghi descritti nel poema. Ad Atene il poeta incontrò Augusto, di ritorno dalle province orientali. Questi, notate le sue precarie condizioni di salute, lo persuase a tornare in Italia. V., che aveva appena visitato Megara sotto un sole cocente, era estenuato ed il suo stato si aggravò durante la traversata verso le coste italiane. Sbarcato a Brindisi, il poeta era in fin di vita, ma prima di morire chiese il manoscritto dell’ "Eneide", ancora incompiuta, per bruciarlo. Gli amici, per fortuna, non gli ubbidirono, forse secondo l'ordine dello stesso imperatore.

Il corpo di V. fu trasferito nell'amatissima Napoli e sepolto sulla via di Pozzuoli. Suoi eredi furono Augusto e Mecenate, che diede incarico a Vario e Tucca di pubblicare il poema.

Opere.

Le "Bucoliche" [42-39 a.C., composte in parte a Mantova e in parte a Roma].*Le "Bucoliche" [dal gr. "boukolos" = pastore] costituiscono forse una scelta (da cui il titolo posteriore, sempre dal greco, di "Ecloghe" = "poesie scelte") giudicata definitiva di 10 componimenti in esametri, d'ispirazione alessandrina, di cui alcuni sono lirico-narrativi, altri in forma dialogica, distribuiti non nella successione cronologica della loro stesura, ma con un ordine d’intento letterario (numerosi sono infatti i rimandi, i parallelismi, le simmetrie).

Questo il contenuto:

*Ecloga I: d’intonazione forse autobiografica. Il dialogo tra i due pastori Titiro (V.?) e Melibeo avviene nella cornice della campagna mantovana. Melibeo è triste perché ha perduto i suoi beni; Titiro è invece sereno, perché un giovane a Roma (Ottaviano?) gli ha concesso la libertà personale e il possesso della sua terra.

Ecloga II: è il lamentevole soliloquio di Coridone innamorato di Alessi.

Ecloga III: Da meta e Menalca si sfidano in una gara d’abilità nel canto.

Ecloga IV: è del tutto singolare e non ha nulla di bucolico. Scritta nel 40, quasi profetizza la palingenesi del mondo e il ritorno all’ "età dell’oro", che inizierà con la nascita di un bambino, sotto il consolato di A. Pollione (e ricordiamo, tra le altre, la strumentalizzazione ideologica che di questi passi ha fatto il Cristianesimo, ritenendo addirittura d’individuare in V. il profeta dell’avvento messianico).

Ecloga V: due pastori, il cantore Menalca e il suonatore di zampogna Mopso, uno dopo l’altro, cantano in onore di Dafni, ucciso crudelmente. Mopso ne canta la morte, l’altro l’apoteosi.

Ecloga VI: è trattata l’origine del mondo secondo la dottrina di Epicureo. Il cantore è il vecchio Sileno che due giovani hanno sorpreso ubriaco e hanno legato.

Ecloga VII: Melibeo, trattenuto da Dafni, assiste ad una gara poetica tra Coridone e Tirsi.

Ecloga VIII: presenta il canto mattutino di due pastori, ed è imitata quasi interamente da un modello di Teocrito. E’ dedicata a Pollione, che ritorna vittorioso dalla Dalmazia.

Ecloga IX: d’intonazione forse autobiografica. Menalca (V.?) è stato cacciato dai suoi beni e anulla sono valsi, né varranno, i suoi canti.

Ecloga X: è dedicata a C. Gallo, confortato perché l’infedele Licoride l’ha lasciato.

*L'egloga VI si apre con questa importante dichiarazione: "Prima Syracosio dignata est ludere versu - nostra neque erubuit silvas habitare Thalia" ("Per prima, la mia Talia stimò cosa degna poetare in verso siracusano, né arrossì di abitare le selve"). Con essa, V. rivendicava il merito di aver trattato per primo un genere che la letteratura latina non aveva ancora. In secondo luogo, avvertiva che tale genere era da considerarsi fra i minori: Talia è propriamente la musa della commedia, cioè della forma più dimessa della poesia drammatica, il verbo "ludere" indica un comporre quasi per divertimento, i boschi sono i luoghi più naturali ed incolti. Infine, riconosceva che era stato suo modello il poeta greco Teocrito (III a.C.). Tuttavia, V. lo rifonde in una trama di rapporti talmente complessa che la nuova opera sta alla pari col modello.

I temi riconducono ad un ambiente pastorale, che manca tuttavia di ogni connotazione realistica (nonostante siano vividi i riferimenti ed i ricordi della "bucolica" fanciullezza del poeta), e appare come un’elaborata e stilizzata costruzione: a cantare sono gli stessi personaggi, pastori, mandriani, butteri: Titiro, Melibeo, Mopso, Meri, Menalca… Essi non hanno un'individualità propria, ma (siano innamorati o delusi, vecchi o giovani, entusiasti o malinconici) ci appaiono un poco tutti, come osservò l'Ussani, "Virgili personati", perché in tutti ritroviamo la sua delicata sensibilità, la sua "verecundia", il suo amore per la vita serena e tranquilla, soprattutto quella naturale avversione ad ogni forma di violenza, che era stata acuita dai tumulti delle guerre civili, e che aveva trovato una sua forma filosofica proprio nell'atarassia epicurea: non è un caso, così, che V. non parli mai dell'attività dei pastori o delle loro fatiche, ma dei loro "otia" o dei loro "amores".

Eppure, da un'iniziale imitazione di Teocrito abbastanza aderente all'originale, il poeta man mano allo sfondo aggiunge il senso del suo tempo e l'ansia del suo sentimento e del suo cuore, con sfumature tutte personali di dolcezza e di nostalgia. Così, sullo sfondo, si intuisce tutto un complesso di allegorie e di significati riposti, che ripetute volte si è tentato di penetrare, probabilmente invano. Non è forse Cesare il Daphnis di cui la V Egloga canta la divinizzazione? E’ verosimile, ma in nessun modo dimostrabile. E il Sileno della VI, che fa pensare a Lucrezio, ma anche ad altri poeti contemporanei, e persino a Sirone, l'amato maestro, chi nasconde sotto il suo travestimento? Un personaggio definito oppure un aspetto, un volto della poesia?

Ma forse, gli avvenimenti e i personaggi non devono essere considerati, fino in fondo, allegorie di fatti storici e/o autobiografici e di persone reali, bensì piuttosto simboli della condizione umana in essi rappresentata: la tensione poetica deriva, infatti, dallo scontro fra l’arcadica perfezione di quel mondo e la realtà effettiva, che in vari modi – e spesso gratuitamente – tenta d’insidiarlo, dandosi essa sotto il dolore e gli sconvolgimenti provocati dall’esilio, dalla morte, dalla passione.

*La raccolta fu pubblicata quasi certamente negli ultimi mesi dell'anno 39, momento in cui tutto sembrava sorridere ai triumviri, dopo la firma della pace con Sesto Pompeo che aveva fino ad allora affamato Roma con le sue flotte. Le "Bucoliche" respirano perciò, in genere, un'atmosfera serena, e rendono omaggio a quel "giovane dio", simile all'Apollo onorato dai pastori, nel quale è facile (stavolta) riconoscere lo stesso Ottaviano.

Le "Georgiche". [37-30 a.C.] *Il poema delle "Georgiche" (grecamente, "trattato sull'agricoltura"), in 2183 esametri, si riallaccia alla poesia della natura, che è nelle "Bucoliche", ed è insieme preludio al canto epico delle virtù umane, che sarà nell’ "Eneide".

Si dice che V. lo scrivesse su invito di Mecenate, che si faceva interprete del programma di risanamento morale di pace e di lavoro formulato da Augusto, cui realmente stava a cuore la ripresa dell’agricoltura, nel nome anche di un ritorno ideologico alle autentiche radici romane.. Ma ciò che più conta è che l’opera, al di là dell'intento propagandistico ben presto scongiurato, risponde alle vere aspirazioni del poeta.

*Affrontando questa tematica, V. ebbe sicuramente a modelli "tecnici" il "De re rustica" di Varrone e l' "Agricoltura" di Catone, e a modello più propriamente poetico l'Esiodo di "Opere e giorni"; tuttavia, pur rimanendo formalmente nell'ambito dello spirito alessandrino, V. vedeva nel suo progetto (com'egli stesso orgogliosamente affermerà) la possibilità di annettere una nuova regione poetica alle lettere latine; le sue convinzioni epicuree, infine (forse già un po' scosse, ma indubitabili), lo portano a emulare Lucrezio in un'epopea consacrata allo spettacolo del mondo e alle attività umane.

Il mondo dell’Arcadia bucolica, che era fittizio, e che escludeva, a dispetto delle apparenze, l’urgenza del mondo della realtà, lascia qui il posto ad un mondo soltanto (o prevalentemente) reale: mondo di cose comuni, di uomini vivi di lavoro aspro, di attività creativa e redentrice che le immaginate favole del mito e le invenzioni letterarie (anche qui inserite a trapuntare il tessuto narrativo e didascalico) non solo non annullano, ma anzi rilevano con più fermezza.

*Nelle "Georgiche" si registra il miracolo del superamento dei modelli grazie al dolore che connota l’intero poema. Qui il dolore non si mostra come generato dall’ingiustizia sofferta quale destino ineluttabile, superato o stemperato in dolce malinconia per mezzo dell’evasione in Arcadia, ma è dolore esistenziale intuito e scoperto nel quotidiano vivere dell’uomo nel suo contrasto, ad es., con le avversità atmosferiche, che rovinano i seminati. Tale condizione esistenziale non consente evasioni, anzi resta come il segno vistoso della risoluzione in senso drammatico del sogno idillico delle Bucoliche.

V. "vede l’uomo nella sua funzione di trasformatore" (Ferrero), capace di vincere le avversità, di correggere gli errori, di trovare rimedio ai mali grazie al suo impegno costante nel lavoro: il lavoro redime l'uomo, procura lo sviluppo civile e sorregge i legami della società, le istituzioni, i costumi. I Romani, abituati a concepire la fatica dei campi nei termini del loro caratteristico utilitarismo, con il poema virgiliano scoprono gli aspetti autenticamente morali dell’agricoltura. Per tutte queste ed altre ragioni, l’intento didascalico dell’opera, che voleva rispondere all’invito di Mecenate, non risulta affatto fondamentale, anzi cade per fortuna presto nell'oblio, tant’è che non è difficile scoprire che i consigli e gli ammaestramenti dati dal poeta ai contadini non sono tutti o in tutto realizzabili né tutti opportuni o logici in senso strettamente pratico.

*Così, se il destinatario delle "Georgiche" dal punto di vista del contenuto strettamente tecnico è il contadino, badando tuttavia al livello artistico e alla perfezione formale (che è frutto di eccezionale cultura e porta i segni di una faticosa elaborazione, per la quale lo stile medio del poema didascalico si eleva al piano dello stile sublime dell’epica) il pubblico di lettori ideali a cui esse si rivolgono è più esattamente quello "urbano", al quale più congruamente si adatta il contenuto etico generale, ispirato - come detto - al programma augusteo volto al recupero dei sani costumi e alla stabilità delle condizioni di pace.

Ciò, anche se, invero, nel suo poema V. cerca di dimostrare una verità che non rientra nell'ordine della mera politica. Egli mette a confronto l'uomo e la natura, e dimostra che quest'ultima è, per eccellenza, l'ambiente fisico e morale suscettibile di condurre l'uomo a una felicità abbastanza prossima a quella predicata dagli epicurei. Tuttavia, a poco a poco, V. è trascinato a rompere gli schemi un po' angusti dell'epicureismo, quasi che lo spettacolo e la meditazione dei grandi momenti della "natura" gli rivelassero, in essa, la presenza degli dèi. Lo fa dapprima attraverso un mito, che mostra come Giove abbia in realtà "dissimulato" negli oggetti ciò che l'uomo deve cercarvi: il fuoco nelle vene silicee o nel legno dei rami, il ferro nelle viscere delle montagne, imponendo così la legge, moralmente salutare, del lavoro. Se in Venere, simbolo della "voluttà", Lucrezio aveva visto, in modo analogo, il motore del mondo, in V. il mito s'ingrandisce fino a dominare. La divinità si trasforma nell'aspetto "oggettivato" della sensibilità del poeta stesso, che si compiace nell'evocare le realtà religiose dell'esistenza rurale. Il calendario del rituale romano riprende il suo primitivo valore a contatto con la realtà fondamentale della terra.

*V., superate le strutture stilistiche delle "Bucoliche", ha modellato le nuove forme, apprestandosi a foggiare quelle, più complesse e più varie, se non ugualmente sempre perfette, dell’ "Eneide" (per alcuni critici, proprio le "Georgiche" sarebbero - per originalità, per perfezione formale e per ricchezza ed umanità di temi - il vero ed unico capolavoro di V.). Ma forse soltanto nella tristezza che ispira le conclusioni di tutti e 4 i libri può rintracciarsi la prova del preciso disegno architettonico dell’opera. Certo è che ognuno dei libri ha una sua tematica distinta, una sua autonomia che si rivela anche per mezzo del particolare proemio che lo introduce:

Libro I: Dopo il proemio generale, la dedica a Mecenate e l’invocazione alle divinità protettrici, prende in esame la natura, la semina e le sue cure specifiche, l’osservazione degli astri, i pronostici. Si conclude con una ulteriore invocazione agli dei perché diano soccorso al mondo, sconvolto dalla guerre.

Libro II: Tratta della cultura delle piante, in particolare della vite e dell’olivo (nell'economia italiana di quel tempo, vino e olio costituivano i prodotti principali delle grandi tenute e la prima fonte d'esportazione verso le province occidentali). Qui si inserisce la famosa apostrofe elogiativa all’Italia: c’è, in questo elogio, non tanto la solennità di un encomio patriottico e di una testimonianza di fede nel destino d’Italia, quanto l’emozione di chi si incanta al miracolo di una realtà di pace (quella appunto augustea) che fino a ieri era solo un’aspirazione.

Libro III: Dedicato all'allevamento del grosso e del piccolo bestiame e ai sistemi di sfruttamento dei terreni, italiani e no (Africa, Spagna, Illiria), che non si prestavano alla coltivazione della vite o dell'olivo; contiene un’altra invocazione, a Pale e ad Apollo, le divinità della pastorizia.

Libro IV: Riguardante le api, tratta dell’ubicazione e della costruzione dell’alveare, delle abitudini delle api e delle riproduzioni degli sciami (il miele aveva un posto di rilievo in un'alimentazione, quale quella romana, interamente priva di altre fonti zuccherine). Parlando della necessità di disporre di un giardino con piante e fiori profumati, V. introduce la breve storia del vecchio di Corico, che riuscì grazie alla sua tenacia a sentirsi ricco e beato come un re.

*Ciascun canto presenta una "digressione": nel I il racconto dei prodigi che accompagnarono la morte di Cesare; nel II il già detto elogio dell'Italia; nel III la peste (epizootica) che infierì nel Norico (le Alpi tirolesi); nel IV, infine, a coronamento di tutto, la leggenda di Aristeo, il primo "apicultore", nella quale si inserisce il mito di Orfeo e di Euridice.

*Architettura perfetta, dunque, ma della quale rimangono misteriosi i motivi profondi: forse per V. si trattava solo di colmare, in questo finale del IV libro, il vuoto lasciato dalla soppressione dell'elogio di Gallo (che appunto inizialmente ne era la conclusione), il quale era caduto in disgrazia presso Augusto.

L’ "Eneide". * l’ "Eneide" si inserisce pienamente nel genere epico di ascendenza greca, riuscendo a farsi nel contempo interprete dei valori della romanità e dello spirito di restaurazione morale augusteo, tanto da divenire il poema nazionale di Roma. Essa mantiene quella compresenza di mitologia e storia che caratterizzava l’epica latina arcaica, differenziandosi però per l’argomento: il mito assume un posto centrale e diventa nucleo primario della vicenda tanto che il protagonista non è Augusto, ma Enea. In virtù di questa impostazione, V. evita un coinvolgimento troppo diretto con gli eventi contemporanei e può, in questo modo, ampliare la prospettiva e il significato della propria poesia. Oltre ad Omero, sicuramente modello principale - altri elementi ci riportano ai poeti del ciclo epico, agli alessandrini, e in particolare ad Apollonio Rodio, ai tragici greci e romani, agli orfici, a Nevio e a Ennio. Né bisogna dimenticare che il mito di Enea aveva assunto per i Latini un valore nazionale e che per lo più ne veniva ammessa financo la storicità.

*Eppure, l’ "Eneide" risulta un’opera originale, nella sua straordinaria densità e complessità, grazie all’enorme quantità di materiali culturali: storici, letterari, antiquari e filosofici. Il modello principale – come detto - è Omero, di cui V. ha ripreso entrambi i poemi, capovolgendone la successione originale e riducendoli in uno solo. La prima metà, chiamata parte "odissiaca", ha quindi come tema principale il viaggio, la seconda, detta "iliadica", invece ha la guerra (spartiacque è il libro VI, quello della discesa di Enea negli Inferi). La presenza di Omero è massiccia oltre che nell’intreccio, nella ripresa di molti episodi. V. segue Omero anche in ciò che riguarda l’apparato mitologico, con alcune differenze fondamentali come il rinnovamento dei materiali poetici di cui si serve, che organizza e orienta in modo diverso in funzione del significato complessivo dell’opera. Il punto d’arrivo a cui tende la storia universale è Ottaviano Augusto, che viene unificato così alla celebrazione di Roma su di un piano ideologico.

*All’interno di questa struttura, l’azione si sviluppa abbastanza lineare, procedendo senza divagazioni verso la grande scena finale: infatti, l’interesse del poeta è tutto concentrato sul destino del protagonista, che attraverso molteplici avventure si avvicina sempre più alla meta fissata dal Fato: il nascere e la futura gloria di Roma. I vari episodi del poema non ne sono quindi altro che le necessarie tappe, secondo una curvatura decisamente teleologica.

E’ tale meta, dunque, che illumina, dà senso e giustifica le fatiche, le angosce, la morte che incombono e colpiscono inesorabilmente i personaggi: il mondo dell’ "Eneide", infatti, a differenza di quello omerico, non conosce tanto esuberanze giovanili ed esaltazione eroica, ma appare invece dolente e meditativo, strettamente affine all’universo delle precedenti opere: postulato fondamentale è l’obbedienza al Fato, e anche in ciò personaggio emblematico è ovviamente il "pius" Enea.

*Al poema, V. lavorava dettando un gran numero di versi, e poi rielaborandoli per tutta la giornata. Seguiva uno schema di prosa che si preparava e che poi portava in versi. Qua e là, data la morte prematura, è rimasto qualche segno d'incompiutezza: versi lasciati in sospeso e da lui stesso detti "tbicines", puntelli.

Questa la sintesi dell'opera:

Il racconto delle gesta di Enea non comincia dalla caduta di Troia, ma dal sesto anno degli avventurosi viaggi, dunque "in media re".

Libro I: Una tempesta causata da Giunone, irata contro i Troiani, fa approdare Enea lungo le coste presso Cartagine. Con l’aiuto della madre Venere, Enea viene bene accolto dalla regina Didone, alla quale racconta la fine di Troia.

Libro II: Racconto di Enea: durante la distruzione della città, Enea riesce a scappare con il padre Anchise e il figlio.

Libro III: Racconto di Enea: partito da Troia, Enea si rende conto che una nuova patria lo attende in Occidente. Il viaggio è scandito da favolose e pericolose tappe. Sul finire, Anchise muore.

Libro IV: Dopo la partenza di Enea da Cartagine, Didone - consunta dalla passione e dal dolore del distacco - si uccide, profetizzando l’eterno odio tra Cartagine e i discendenti dei Troiani.

Libro V: I Troiani giungono in Sicilia dove svolgono dei giochi in onore di Anchise.

Libro VI: Enea arriva in Campania, dove consulta la Sibilla ed entra nel mondo dei morti. Qui incontra: Deifobo caduto a Troia, Didone, Palinuro, il timoniere, e il padre che gli mostra la sua eroica discendenza.

Libro VII: Enea arriva alla foce del Tevere, e riconosce in essa la terra promessagli dal padre. Qui stringe un patto con il re Latino, ma interviene Giunone che fa scagliare contro di loro il principe rutulo, Turno. Enea non può più sposare la principessa Lavinia.

Libro VIII: Enea è costretto a risalire il Tevere, dove trova degli alleati in Evandro, re di un piccolo gruppo di Arcadi, e in una coalizione di Etruschi. Il dio Vulcano, intanto, forgia le armi dell'eroe, tutte istoriate coi principali fatti della futura storia di Roma.

Libro IX: Con Enea assente, il campo troiano è in una situazione critica. Inutile il sacrificio dei giovani Eurialo e Niso, nel tentativo di avvisare l'eroe.

Libro X: Enea irrompe nella scena e uccide l’alleato di Turno, Mezenzio, che a sua volta aveva ucciso Pallante, protetto di Enea.

Libro XI: Dopo la vittoria, Enea piange l’amico morto. Le sue offerte di pace non hanno successo. La guerra riprende: la bella e prode Camilla, al comando della cavalleria di Turno, viene uccisa nel segno del destino, nonostante il suo coraggio e la sua forza.

Libro XII: Turno accetta di sfidare Enea a duello, ma un intervento di Giunone fa riprendere ancora la guerra. Enea sconfigge Turno e lo uccide nel nome di Pallante, il cui amaro ricordo vince la pietà del perdono.

*Si compie così il primo atto del destino di Roma. L'evoluzione religiosa del poeta fa dunque sì che egli approdi, dal suo epicureismo primitivo, a un platonismo mistico (o, se si preferisce, a un "neo-pitagorismo"), che ammette l'esistenza di anime sopravvissute al corpo e discerne nel mondo un disegno della Provvidenza. V. si avvicina, per questa strada, alle idee professate dagli storici intrisi di stoicismo, epigoni di Polibio. Si realizza, in tal modo, la sintesi delle principali correnti spirituali di Roma, che consente all' "Eneide" di farsi immagine di quest'ultima e giustificazione del suo straordinario valore storico.

*I protagonisti. Enea: il divino figlio di Anchise è lo strumento obbediente della divinità, nella prima parte come profugo errabondo, nella seconda come guerriero: tuttavia egli, a differenza degli eroi di Omero, presenta una sua intimità, una sua umanità che lo avrebbe trattenuto ben volentieri fra le rovine di Troia (rimane nel fondo del suo animo un’indistinta nostalgia del ritorno) o fra le braccia di Didone. Insomma, la sua "humanitas" spesso non va d’accordo con la sua "pietas", ma lo rende altresì più umano e più vero.

Didone: è il personaggio, tragico e appassionato, meglio riuscito del poema, che supera abbondantemente i modelli cui potè ispirarsi, la Medea di A. Rodio e l’Arianna di Catullo.

Turno: come eroe è un personaggio meglio caratterizzato di Enea, anche se è, per così dire, ritagliato sull’Ettore omerico.

Camilla: è un altro personaggio ben riuscito: la sua forza e il suo coraggio di guerriera nulla tolgono alla sua femminile bellezza e alla sua palese e fatale vanità.

Figure minori, ma non meno valide, sono: Latino, Evandro, Eurialo e Niso, Lauso e Mesenzio.

Considerazioni sulla poetica e sullo stile.

<< "Lo stile di V. è un miracolo come l'anima sua" è stato detto: e l'originalità della sua lingua è non meno grande di quella della sua arte. Egli sapientemente amalgama la tradizione arcaica di Ennio e di Lucrezio con quella neoterica ed alessandrina, con una consumata tecnica di ricreazione (anche dal greco) e di intarsio. Così, allitterazioni, omeoteleuti ecc. acquistano una nuova vita: analogamente, e le tracce volute di lingua popolare, e gli arcaismi, ed i tecnicismi, specialmente nelle "Georgiche", ed i grecismi, seppur parchi, assumono una funzione speciale, ora per animare la scena, ora per suscitare visioni lontane, ora per evocare mondi sconosciuti. Particolare abilità V. mostra nell'uso dei suoni vocalici, nel riportare in grafia vicina all'originale nomi propri esotici, onde creare illusioni misteriose e suscitare fascini remoti. Poeta di gusto parnassiano e di tendenza riflessa, meditativa e non istintiva, sa dare alle parole, oltre al significato proprio, una espressività latente e vastissima: veramente il loro senso spesso sembra essere infinito. Così il suo esametro, che pure è quello normale, ha sempre un'eco immensa e inafferrabile. I suoi versi, isolati dal contesto, paiono assumere spesso valori del tutto nuovi, rivelare recondite verità, essere detti di sovrumana saggezza o di umani eterni aneliti e di moderne ansie implacate. Il suo stile, che ora ha movenze narrative, quasi storiche, di cronaca e di epigrafe, alle volte assurge alla levità della fiaba. Talora preferisce il tono drammatico: ma è una drammaticità raccolta, interiore, di lotte d'anima. Né manca l'andatura colloquiale, che può essere anche un po' cruda, specialmente nelle "Ecloghe": che però sa diventare pure solennità sentenziosa. La forza arcaica dell'espressione latina della preghiera, del trattato, degli "annales" si sposa alla "souplesse" dello studioso dei Greci, del figlio dell'età cesariana ed augustea. Prevale nella "maiestas" stilistica quasi una contenuta ombreggiatura elegiaca, che ingentilisce anche i tratti solenni e dona unità al racconto. Ovunque si sente presente lo spirito del poeta, anche nel poema epico, con la coscienza del suo valore, ed insieme con i suoi dubbi ed i suoi interrogativi tremendi. >> [Luigi Alfonsi]

Mi sono permesso di riportare per intero la valutazione critica di questo studioso, perché - al di là del suo tono aulico e a tratti "osanneggiante", che ne tradisce anche l'appartenenza ad una determinata scuola di pensiero - tutto sommato, offre un quadro completo ed efficacemente esauriente dello stile e della poetica di V., in tutte le sue opere.

L' "Appendix Vergiliana".

Il termine "Appendix Vergiliana" [lett. "aggiunta a V."] è moderno (risale, come evidentemente la silloge, all’età umanistica: le fu dato da Giuseppe Scaligero nel 1573) ed indica un gruppo di poemetti pseudovirgiliani (salvo forse un paio di poemetti dei "Catalepton"), inseribili nel quadro della poesia minore del I sec. d.C. (conclusivo è stato l’esame stilistico).

I componimenti (6 poemetti, 14 epigrammi e 3 carmi priapei) non sono comunque databili tutti allo stesso periodo e sono sicuramente di mani diverse: inoltre, non si può dire con certezza se siano stati concepiti intenzionalmente come falsi. I componimenti principali sono:

1 una serie di epigrammi raccolti sotto il titolo di "Catalepton" ("componimenti leggeri"), che contengono preziose informazioni biografiche;

2 un'epopea ingenua intitolata "La zanzara" ("Culex", 48 a.C.), un epillio di 414 esametri (di gusto neoterico). Un pastore, svegliato da una fastidiosa zanzara, che uccide, riesce per ciò a salvarsi da un serpente. Nella notte la zanzara gli appare, gli fa una lunga descrizione dell’oltretomba, e chiede e ottiene degna sepoltura.

3 un racconto leggendario, l' "Airone bianco" ("Ciris"), di 541 esametri, che prelude alle "Metamorfosi" di Ovidio e che trova collegamenti con la poesia erudita alessandrina, che si compiaceva di leggende bizzarre: descrive infatti la trasformazione di Scilla in un uccello marino.

4 "Dirae", carme di 183 esametri (attribuibile forse a Valerio Catone), in cui il poeta fonde insieme un canto di maledizione (contro l’attuale proprietario del podere di cui è stato spogliato) e un canto d’amore (il destino lo priva dell’amore di Lydia lontana).

5 "Aetna", poema di 646 esametri (che Seneca attribuisce al "suo" Lucilio), di intonazione epicurea, in cui l’autore vuole spiegare i fenomeni naturali in modo scientifico, per sfatare le credenze popolari e le interpretazioni dei poeti.

6 "Copa" ("l’ostessa"), ch’è la descrizione vivida di una bella ragazza d’osteria, che domina tutto il breve idillio di 19 distici; sulla soglia dell’osteria, canta e danza, invitando i passanti ad entrare.

7 "Moretum" ("la torta campagnola"): poemetto di poco più di 100 esametri, che descrive minutamente la scena di un contadino il quale deve prepararsi il cibo (la focaccia piccante), per consumarlo al ritorno dal lavoro.


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