Vita.
*La formazione intellettuale. V. nacque
in un piccolo villaggio nei pressi di Mantova, da una oscura famiglia
di coltivatori, appartenente alla piccola borghesia locale, romanizzata
piuttosto di recente: il padre possedeva un poderetto lungo le rive
del Mincio, felice e salubre luogo d'infanzia per il poeta.
La sua formazione ebbe inizio a Cremona, dove frequentò
la scuola di grammatica, e dove, a quindici anni, prese la toga
virile. Da Cremona si trasferì a Milano e poi nuovamente
a Roma, alla scuola del retore Elpidio (esponente dell’indirizzo
asiano), il quale annoverava tra i suoi discepoli i giovani che
avrebbero formato la futura classe dirigente di Roma, fra cui ad
es. Marco Antonio e Ottaviano.
V., tuttavia, schivo per natura, non aveva talento
oratorio, né intendeva perseguire la carriera forense (difese
una sola causa, forse senza successo). Abbandonò così
la retorica per dedicarsi agli studi filosofici, e in particolare
all’Epicureismo, che approfondì a Napoli alla scuola di Sirone.
Qui divenne intimo amico di Vario Rufo e Plozio Tucca, i futuri
curatori della I ed. dell’Eneide.
Il periodo della sua formazione è dominato,
sul piano letterario, dalle personalità di Catullo e di Elvio
Cinna (del quale scriverà un elogio discreto nella IX Egloga),
e dall'astro nascente di C. Gallo, della sua stessa età.
Sedotto e affascinato da questo ambiente, V., quasi certamente,
scrive in questo periodo almeno alcune delle composizioni che entreranno
a far parte della raccolta oggi conosciuta col nome di "Appendix
Vergiliana" [per la quale, vd, oltre].
*La perdita delle terre. Dopo la morte di
Cesare, fra il 44 ed i primi mesi del 43, V. fece ritorno ad Andes,
dove ritrovò l’amico della sua giovinezza, Asinio Pollione,
che ricopriva l’incarico di distribuire le terre ai veterani. Grazie
a lui, il poeta poté in un primo tempo sottrarre le sue terre
all’esproprio: tuttavia, un anno più tardi, mentre era impegnato
nella composizione delle "Bucoliche", i suoi campi di Mantova furono
assegnati ai soldati di Ottaviano, per i quali si era rivelato insufficiente
il territorio di Cremona. V. non dimenticò mai il dolore
causato dalla perdita della sua terra, per la quale sentì
sempre una viva nostalgia.
*Il trasferimento a Roma. Perdute le sue
terre nel mantovano, V. si trasferì a Roma, dove pubblicò
le "Bucoliche". L’anno successivo entrò a far parte del circolo
letterario di Mecenate. Catullo e Lucrezio erano morti da poco e
soltanto la poesia alessandrina, coltivata da Cornelio Gallo, conservava
ancora un certo splendore, mentre Orazio, che V. stesso presentò
a Mecenate, iniziava allora a scrivere le satire. Mecenate ed Ottaviano
offrirono a V. una casa a Roma, nel quartiere dell’Esquilino, ma
il poeta spesso preferiva ritirarsi a sud verso il mare ed il sole,
mentre si dedicava alla composizione delle "Georgiche", compiute
in sette anni, durante un soggiorno a Napoli, fra il 37 ed il 30.
Le "Georgiche" diedero a V. la fama e suscitarono
l’ammirazione di Mecenate, che gli era stato particolarmente vicino
nelle varie fasi della composizione.
Si presume, in realtà, che V. fosse istintivamente
un "cesariano". D'altro canto, l'epicureismo invitava i suoi adepti
a non occuparsi di politica, ma ad accettare, come male minore,
un padrone che almeno assicurasse la pace.
*L’ "Eneide". Nell’estate del 29 Ottaviano,
tornato dall’Asia dopo la vittoria conseguita ad Azio su Antonio
e Cleopatra, si era fermato ad Atella per riprendersi da un mal
di gola. Là V. gli lesse per quattro giorni di seguito i
libri compiuti delle "Georgiche", aiutato da Mecenate, che lo sostituiva
nella lettura quando era stanco.
Dopo questo episodio, certo non senza un suggerimento
da parte dello stesso Augusto, V. fu scelto quale cantore del nuovo
impero e del nuovo principe. Da questo momento fino alla fine della
vita V. attese all’ "Eneide".
Ancora tre anni dopo l’inizio della stesura del
poema, V. scriveva ad Augusto che l'opera era solo "incominciata"
e ci vollero ancora tre anni perché la I redazione fosse
terminata. Nel 22, V. ne lesse all’imperatore alcuni canti, ma non
si trattava ancora della stesura definitiva.
*Il viaggio in Asia e la morte. Nel 19 a.C.
V. partì per un lungo viaggio attraverso la Grecia e l’Asia
allo scopo di arricchire la propria cultura e, nello stesso tempo,
verificare la topografia dei luoghi descritti nel poema. Ad Atene
il poeta incontrò Augusto, di ritorno dalle province orientali.
Questi, notate le sue precarie condizioni di salute, lo persuase
a tornare in Italia. V., che aveva appena visitato Megara sotto
un sole cocente, era estenuato ed il suo stato si aggravò
durante la traversata verso le coste italiane. Sbarcato a Brindisi,
il poeta era in fin di vita, ma prima di morire chiese il manoscritto
dell’ "Eneide", ancora incompiuta, per bruciarlo. Gli amici, per
fortuna, non gli ubbidirono, forse secondo l'ordine dello stesso
imperatore.
Il corpo di V. fu trasferito nell'amatissima Napoli
e sepolto sulla via di Pozzuoli. Suoi eredi furono Augusto e Mecenate,
che diede incarico a Vario e Tucca di pubblicare il poema.
Opere.
Le "Bucoliche" [42-39 a.C., composte in parte
a Mantova e in parte a Roma].*Le "Bucoliche" [dal gr. "boukolos"
= pastore] costituiscono forse una scelta (da cui il titolo posteriore,
sempre dal greco, di "Ecloghe" = "poesie scelte") giudicata definitiva
di 10 componimenti in esametri, d'ispirazione alessandrina, di cui
alcuni sono lirico-narrativi, altri in forma dialogica, distribuiti
non nella successione cronologica della loro stesura, ma con un
ordine d’intento letterario (numerosi sono infatti i rimandi, i
parallelismi, le simmetrie).
Questo il contenuto:
*Ecloga I: d’intonazione forse autobiografica.
Il dialogo tra i due pastori Titiro (V.?) e Melibeo avviene nella
cornice della campagna mantovana. Melibeo è triste perché
ha perduto i suoi beni; Titiro è invece sereno, perché
un giovane a Roma (Ottaviano?) gli ha concesso la libertà
personale e il possesso della sua terra.
Ecloga II: è il lamentevole soliloquio di
Coridone innamorato di Alessi.
Ecloga III: Da meta e Menalca si sfidano in una
gara d’abilità nel canto.
Ecloga IV: è del tutto singolare e non ha
nulla di bucolico. Scritta nel 40, quasi profetizza la palingenesi
del mondo e il ritorno all’ "età dell’oro", che inizierà
con la nascita di un bambino, sotto il consolato di A. Pollione
(e ricordiamo, tra le altre, la strumentalizzazione ideologica che
di questi passi ha fatto il Cristianesimo, ritenendo addirittura
d’individuare in V. il profeta dell’avvento messianico).
Ecloga V: due pastori, il cantore Menalca e il
suonatore di zampogna Mopso, uno dopo l’altro, cantano in onore
di Dafni, ucciso crudelmente. Mopso ne canta la morte, l’altro l’apoteosi.
Ecloga VI: è trattata l’origine del mondo
secondo la dottrina di Epicureo. Il cantore è il vecchio
Sileno che due giovani hanno sorpreso ubriaco e hanno legato.
Ecloga VII: Melibeo, trattenuto da Dafni, assiste
ad una gara poetica tra Coridone e Tirsi.
Ecloga VIII: presenta il canto mattutino di due
pastori, ed è imitata quasi interamente da un modello di
Teocrito. E’ dedicata a Pollione, che ritorna vittorioso dalla Dalmazia.
Ecloga IX: d’intonazione forse autobiografica.
Menalca (V.?) è stato cacciato dai suoi beni e anulla sono
valsi, né varranno, i suoi canti.
Ecloga X: è dedicata a C. Gallo, confortato
perché l’infedele Licoride l’ha lasciato.
*L'egloga VI si apre con questa importante dichiarazione:
"Prima Syracosio dignata est ludere versu - nostra neque erubuit
silvas habitare Thalia" ("Per prima, la mia Talia stimò cosa
degna poetare in verso siracusano, né arrossì di abitare
le selve"). Con essa, V. rivendicava il merito di aver trattato
per primo un genere che la letteratura latina non aveva ancora.
In secondo luogo, avvertiva che tale genere era da considerarsi
fra i minori: Talia è propriamente la musa della commedia,
cioè della forma più dimessa della poesia drammatica,
il verbo "ludere" indica un comporre quasi per divertimento, i boschi
sono i luoghi più naturali ed incolti. Infine, riconosceva
che era stato suo modello il poeta greco Teocrito (III a.C.). Tuttavia,
V. lo rifonde in una trama di rapporti talmente complessa che la
nuova opera sta alla pari col modello.
I temi riconducono ad un ambiente pastorale, che
manca tuttavia di ogni connotazione realistica (nonostante siano
vividi i riferimenti ed i ricordi della "bucolica" fanciullezza
del poeta), e appare come un’elaborata e stilizzata costruzione:
a cantare sono gli stessi personaggi, pastori, mandriani, butteri:
Titiro, Melibeo, Mopso, Meri, Menalca… Essi non hanno un'individualità
propria, ma (siano innamorati o delusi, vecchi o giovani, entusiasti
o malinconici) ci appaiono un poco tutti, come osservò l'Ussani,
"Virgili personati", perché in tutti ritroviamo la sua delicata
sensibilità, la sua "verecundia", il suo amore per la vita
serena e tranquilla, soprattutto quella naturale avversione ad ogni
forma di violenza, che era stata acuita dai tumulti delle guerre
civili, e che aveva trovato una sua forma filosofica proprio nell'atarassia
epicurea: non è un caso, così, che V. non parli mai
dell'attività dei pastori o delle loro fatiche, ma dei loro
"otia" o dei loro "amores".
Eppure, da un'iniziale imitazione di Teocrito abbastanza
aderente all'originale, il poeta man mano allo sfondo aggiunge il
senso del suo tempo e l'ansia del suo sentimento e del suo cuore,
con sfumature tutte personali di dolcezza e di nostalgia. Così,
sullo sfondo, si intuisce tutto un complesso di allegorie e di significati
riposti, che ripetute volte si è tentato di penetrare, probabilmente
invano. Non è forse Cesare il Daphnis di cui la V Egloga
canta la divinizzazione? E’ verosimile, ma in nessun modo dimostrabile.
E il Sileno della VI, che fa pensare a Lucrezio, ma anche ad altri
poeti contemporanei, e persino a Sirone, l'amato maestro, chi nasconde
sotto il suo travestimento? Un personaggio definito oppure un aspetto,
un volto della poesia?
Ma forse, gli avvenimenti e i personaggi non devono
essere considerati, fino in fondo, allegorie di fatti storici e/o
autobiografici e di persone reali, bensì piuttosto simboli
della condizione umana in essi rappresentata: la tensione poetica
deriva, infatti, dallo scontro fra l’arcadica perfezione di quel
mondo e la realtà effettiva, che in vari modi – e spesso
gratuitamente – tenta d’insidiarlo, dandosi essa sotto il dolore
e gli sconvolgimenti provocati dall’esilio, dalla morte, dalla passione.
*La raccolta fu pubblicata quasi certamente negli
ultimi mesi dell'anno 39, momento in cui tutto sembrava sorridere
ai triumviri, dopo la firma della pace con Sesto Pompeo che aveva
fino ad allora affamato Roma con le sue flotte. Le "Bucoliche" respirano
perciò, in genere, un'atmosfera serena, e rendono omaggio
a quel "giovane dio", simile all'Apollo onorato dai pastori, nel
quale è facile (stavolta) riconoscere lo stesso Ottaviano.
Le "Georgiche". [37-30 a.C.] *Il poema delle
"Georgiche" (grecamente, "trattato sull'agricoltura"), in 2183 esametri,
si riallaccia alla poesia della natura, che è nelle "Bucoliche",
ed è insieme preludio al canto epico delle virtù umane,
che sarà nell’ "Eneide".
Si dice che V. lo scrivesse su invito di Mecenate,
che si faceva interprete del programma di risanamento morale di
pace e di lavoro formulato da Augusto, cui realmente stava a cuore
la ripresa dell’agricoltura, nel nome anche di un ritorno ideologico
alle autentiche radici romane.. Ma ciò che più conta
è che l’opera, al di là dell'intento propagandistico
ben presto scongiurato, risponde alle vere aspirazioni del poeta.
*Affrontando questa tematica, V. ebbe sicuramente
a modelli "tecnici" il "De re rustica" di Varrone e l' "Agricoltura"
di Catone, e a modello più propriamente poetico l'Esiodo
di "Opere e giorni"; tuttavia, pur rimanendo formalmente nell'ambito
dello spirito alessandrino, V. vedeva nel suo progetto (com'egli
stesso orgogliosamente affermerà) la possibilità di
annettere una nuova regione poetica alle lettere latine; le sue
convinzioni epicuree, infine (forse già un po' scosse, ma
indubitabili), lo portano a emulare Lucrezio in un'epopea consacrata
allo spettacolo del mondo e alle attività umane.
Il mondo dell’Arcadia bucolica, che era fittizio,
e che escludeva, a dispetto delle apparenze, l’urgenza del mondo
della realtà, lascia qui il posto ad un mondo soltanto (o
prevalentemente) reale: mondo di cose comuni, di uomini vivi di
lavoro aspro, di attività creativa e redentrice che le immaginate
favole del mito e le invenzioni letterarie (anche qui inserite a
trapuntare il tessuto narrativo e didascalico) non solo non annullano,
ma anzi rilevano con più fermezza.
*Nelle "Georgiche" si registra il miracolo del
superamento dei modelli grazie al dolore che connota l’intero poema.
Qui il dolore non si mostra come generato dall’ingiustizia sofferta
quale destino ineluttabile, superato o stemperato in dolce malinconia
per mezzo dell’evasione in Arcadia, ma è dolore esistenziale
intuito e scoperto nel quotidiano vivere dell’uomo nel suo contrasto,
ad es., con le avversità atmosferiche, che rovinano i seminati.
Tale condizione esistenziale non consente evasioni, anzi resta come
il segno vistoso della risoluzione in senso drammatico del sogno
idillico delle Bucoliche.
V. "vede l’uomo nella sua funzione di trasformatore"
(Ferrero), capace di vincere le avversità, di correggere
gli errori, di trovare rimedio ai mali grazie al suo impegno costante
nel lavoro: il lavoro redime l'uomo, procura lo sviluppo civile
e sorregge i legami della società, le istituzioni, i costumi.
I Romani, abituati a concepire la fatica dei campi nei termini del
loro caratteristico utilitarismo, con il poema virgiliano scoprono
gli aspetti autenticamente morali dell’agricoltura. Per tutte queste
ed altre ragioni, l’intento didascalico dell’opera, che voleva rispondere
all’invito di Mecenate, non risulta affatto fondamentale, anzi cade
per fortuna presto nell'oblio, tant’è che non è difficile
scoprire che i consigli e gli ammaestramenti dati dal poeta ai contadini
non sono tutti o in tutto realizzabili né tutti opportuni
o logici in senso strettamente pratico.
*Così, se il destinatario delle "Georgiche"
dal punto di vista del contenuto strettamente tecnico è il
contadino, badando tuttavia al livello artistico e alla perfezione
formale (che è frutto di eccezionale cultura e porta i segni
di una faticosa elaborazione, per la quale lo stile medio del poema
didascalico si eleva al piano dello stile sublime dell’epica) il
pubblico di lettori ideali a cui esse si rivolgono è più
esattamente quello "urbano", al quale più congruamente si
adatta il contenuto etico generale, ispirato - come detto - al programma
augusteo volto al recupero dei sani costumi e alla stabilità
delle condizioni di pace.
Ciò, anche se, invero, nel suo poema V.
cerca di dimostrare una verità che non rientra nell'ordine
della mera politica. Egli mette a confronto l'uomo e la natura,
e dimostra che quest'ultima è, per eccellenza, l'ambiente
fisico e morale suscettibile di condurre l'uomo a una felicità
abbastanza prossima a quella predicata dagli epicurei. Tuttavia,
a poco a poco, V. è trascinato a rompere gli schemi un po'
angusti dell'epicureismo, quasi che lo spettacolo e la meditazione
dei grandi momenti della "natura" gli rivelassero, in essa, la presenza
degli dèi. Lo fa dapprima attraverso un mito, che mostra
come Giove abbia in realtà "dissimulato" negli oggetti ciò
che l'uomo deve cercarvi: il fuoco nelle vene silicee o nel legno
dei rami, il ferro nelle viscere delle montagne, imponendo così
la legge, moralmente salutare, del lavoro. Se in Venere, simbolo
della "voluttà", Lucrezio aveva visto, in modo analogo, il
motore del mondo, in V. il mito s'ingrandisce fino a dominare. La
divinità si trasforma nell'aspetto "oggettivato" della sensibilità
del poeta stesso, che si compiace nell'evocare le realtà
religiose dell'esistenza rurale. Il calendario del rituale romano
riprende il suo primitivo valore a contatto con la realtà
fondamentale della terra.
*V., superate le strutture stilistiche delle "Bucoliche",
ha modellato le nuove forme, apprestandosi a foggiare quelle, più
complesse e più varie, se non ugualmente sempre perfette,
dell’ "Eneide" (per alcuni critici, proprio le "Georgiche" sarebbero
- per originalità, per perfezione formale e per ricchezza
ed umanità di temi - il vero ed unico capolavoro di V.).
Ma forse soltanto nella tristezza che ispira le conclusioni di tutti
e 4 i libri può rintracciarsi la prova del preciso disegno
architettonico dell’opera. Certo è che ognuno dei libri ha
una sua tematica distinta, una sua autonomia che si rivela anche
per mezzo del particolare proemio che lo introduce:
Libro I: Dopo il proemio generale, la dedica a
Mecenate e l’invocazione alle divinità protettrici, prende
in esame la natura, la semina e le sue cure specifiche, l’osservazione
degli astri, i pronostici. Si conclude con una ulteriore invocazione
agli dei perché diano soccorso al mondo, sconvolto dalla
guerre.
Libro II: Tratta della cultura delle piante, in
particolare della vite e dell’olivo (nell'economia italiana di quel
tempo, vino e olio costituivano i prodotti principali delle grandi
tenute e la prima fonte d'esportazione verso le province occidentali).
Qui si inserisce la famosa apostrofe elogiativa all’Italia: c’è,
in questo elogio, non tanto la solennità di un encomio patriottico
e di una testimonianza di fede nel destino d’Italia, quanto l’emozione
di chi si incanta al miracolo di una realtà di pace (quella
appunto augustea) che fino a ieri era solo un’aspirazione.
Libro III: Dedicato all'allevamento del grosso
e del piccolo bestiame e ai sistemi di sfruttamento dei terreni,
italiani e no (Africa, Spagna, Illiria), che non si prestavano alla
coltivazione della vite o dell'olivo; contiene un’altra invocazione,
a Pale e ad Apollo, le divinità della pastorizia.
Libro IV: Riguardante le api, tratta dell’ubicazione
e della costruzione dell’alveare, delle abitudini delle api e delle
riproduzioni degli sciami (il miele aveva un posto di rilievo in
un'alimentazione, quale quella romana, interamente priva di altre
fonti zuccherine). Parlando della necessità di disporre di
un giardino con piante e fiori profumati, V. introduce la breve
storia del vecchio di Corico, che riuscì grazie alla sua
tenacia a sentirsi ricco e beato come un re.
*Ciascun canto presenta una "digressione": nel
I il racconto dei prodigi che accompagnarono la morte di Cesare;
nel II il già detto elogio dell'Italia; nel III la peste
(epizootica) che infierì nel Norico (le Alpi tirolesi); nel
IV, infine, a coronamento di tutto, la leggenda di Aristeo, il primo
"apicultore", nella quale si inserisce il mito di Orfeo e di Euridice.
*Architettura perfetta, dunque, ma della quale
rimangono misteriosi i motivi profondi: forse per V. si trattava
solo di colmare, in questo finale del IV libro, il vuoto lasciato
dalla soppressione dell'elogio di Gallo (che appunto inizialmente
ne era la conclusione), il quale era caduto in disgrazia presso
Augusto.
L’ "Eneide". * l’ "Eneide" si inserisce
pienamente nel genere epico di ascendenza greca, riuscendo a farsi
nel contempo interprete dei valori della romanità e dello
spirito di restaurazione morale augusteo, tanto da divenire il poema
nazionale di Roma. Essa mantiene quella compresenza di mitologia
e storia che caratterizzava l’epica latina arcaica, differenziandosi
però per l’argomento: il mito assume un posto centrale e
diventa nucleo primario della vicenda tanto che il protagonista
non è Augusto, ma Enea. In virtù di questa impostazione,
V. evita un coinvolgimento troppo diretto con gli eventi contemporanei
e può, in questo modo, ampliare la prospettiva e il significato
della propria poesia. Oltre ad Omero, sicuramente modello principale
- altri elementi ci riportano ai poeti del ciclo epico, agli alessandrini,
e in particolare ad Apollonio Rodio, ai tragici greci e romani,
agli orfici, a Nevio e a Ennio. Né bisogna dimenticare che
il mito di Enea aveva assunto per i Latini un valore nazionale e
che per lo più ne veniva ammessa financo la storicità.
*Eppure, l’ "Eneide" risulta un’opera originale,
nella sua straordinaria densità e complessità, grazie
all’enorme quantità di materiali culturali: storici, letterari,
antiquari e filosofici. Il modello principale – come detto - è
Omero, di cui V. ha ripreso entrambi i poemi, capovolgendone la
successione originale e riducendoli in uno solo. La prima metà,
chiamata parte "odissiaca", ha quindi come tema principale il viaggio,
la seconda, detta "iliadica", invece ha la guerra (spartiacque è
il libro VI, quello della discesa di Enea negli Inferi). La presenza
di Omero è massiccia oltre che nell’intreccio, nella ripresa
di molti episodi. V. segue Omero anche in ciò che riguarda
l’apparato mitologico, con alcune differenze fondamentali come il
rinnovamento dei materiali poetici di cui si serve, che organizza
e orienta in modo diverso in funzione del significato complessivo
dell’opera. Il punto d’arrivo a cui tende la storia universale è
Ottaviano Augusto, che viene unificato così alla celebrazione
di Roma su di un piano ideologico.
*All’interno di questa struttura, l’azione si sviluppa
abbastanza lineare, procedendo senza divagazioni verso la grande
scena finale: infatti, l’interesse del poeta è tutto concentrato
sul destino del protagonista, che attraverso molteplici avventure
si avvicina sempre più alla meta fissata dal Fato: il nascere
e la futura gloria di Roma. I vari episodi del poema non ne sono
quindi altro che le necessarie tappe, secondo una curvatura decisamente
teleologica.
E’ tale meta, dunque, che illumina, dà senso
e giustifica le fatiche, le angosce, la morte che incombono e colpiscono
inesorabilmente i personaggi: il mondo dell’ "Eneide", infatti,
a differenza di quello omerico, non conosce tanto esuberanze giovanili
ed esaltazione eroica, ma appare invece dolente e meditativo, strettamente
affine all’universo delle precedenti opere: postulato fondamentale
è l’obbedienza al Fato, e anche in ciò personaggio
emblematico è ovviamente il "pius" Enea.
*Al poema, V. lavorava dettando un gran numero
di versi, e poi rielaborandoli per tutta la giornata. Seguiva uno
schema di prosa che si preparava e che poi portava in versi. Qua
e là, data la morte prematura, è rimasto qualche segno
d'incompiutezza: versi lasciati in sospeso e da lui stesso detti
"tbicines", puntelli.
Questa la sintesi dell'opera:
Il racconto delle gesta di Enea non comincia dalla
caduta di Troia, ma dal sesto anno degli avventurosi viaggi, dunque
"in media re".
Libro I: Una tempesta causata da Giunone, irata
contro i Troiani, fa approdare Enea lungo le coste presso Cartagine.
Con l’aiuto della madre Venere, Enea viene bene accolto dalla regina
Didone, alla quale racconta la fine di Troia.
Libro II: Racconto di Enea: durante la distruzione
della città, Enea riesce a scappare con il padre Anchise
e il figlio.
Libro III: Racconto di Enea: partito da Troia,
Enea si rende conto che una nuova patria lo attende in Occidente.
Il viaggio è scandito da favolose e pericolose tappe. Sul
finire, Anchise muore.
Libro IV: Dopo la partenza di Enea da Cartagine,
Didone - consunta dalla passione e dal dolore del distacco - si
uccide, profetizzando l’eterno odio tra Cartagine e i discendenti
dei Troiani.
Libro V: I Troiani giungono in Sicilia dove svolgono
dei giochi in onore di Anchise.
Libro VI: Enea arriva in Campania, dove consulta
la Sibilla ed entra nel mondo dei morti. Qui incontra: Deifobo caduto
a Troia, Didone, Palinuro, il timoniere, e il padre che gli mostra
la sua eroica discendenza.
Libro VII: Enea arriva alla foce del Tevere, e
riconosce in essa la terra promessagli dal padre. Qui stringe un
patto con il re Latino, ma interviene Giunone che fa scagliare contro
di loro il principe rutulo, Turno. Enea non può più
sposare la principessa Lavinia.
Libro VIII: Enea è costretto a risalire
il Tevere, dove trova degli alleati in Evandro, re di un piccolo
gruppo di Arcadi, e in una coalizione di Etruschi. Il dio Vulcano,
intanto, forgia le armi dell'eroe, tutte istoriate coi principali
fatti della futura storia di Roma.
Libro IX: Con Enea assente, il campo troiano è
in una situazione critica. Inutile il sacrificio dei giovani Eurialo
e Niso, nel tentativo di avvisare l'eroe.
Libro X: Enea irrompe nella scena e uccide l’alleato
di Turno, Mezenzio, che a sua volta aveva ucciso Pallante, protetto
di Enea.
Libro XI: Dopo la vittoria, Enea piange l’amico
morto. Le sue offerte di pace non hanno successo. La guerra riprende:
la bella e prode Camilla, al comando della cavalleria di Turno,
viene uccisa nel segno del destino, nonostante il suo coraggio e
la sua forza.
Libro XII: Turno accetta di sfidare Enea a duello,
ma un intervento di Giunone fa riprendere ancora la guerra. Enea
sconfigge Turno e lo uccide nel nome di Pallante, il cui amaro ricordo
vince la pietà del perdono.
*Si compie così il primo atto del destino
di Roma. L'evoluzione religiosa del poeta fa dunque sì che
egli approdi, dal suo epicureismo primitivo, a un platonismo mistico
(o, se si preferisce, a un "neo-pitagorismo"), che ammette l'esistenza
di anime sopravvissute al corpo e discerne nel mondo un disegno
della Provvidenza. V. si avvicina, per questa strada, alle idee
professate dagli storici intrisi di stoicismo, epigoni di Polibio.
Si realizza, in tal modo, la sintesi delle principali correnti spirituali
di Roma, che consente all' "Eneide" di farsi immagine di quest'ultima
e giustificazione del suo straordinario valore storico.
*I protagonisti. Enea: il divino figlio di Anchise
è lo strumento obbediente della divinità, nella prima
parte come profugo errabondo, nella seconda come guerriero: tuttavia
egli, a differenza degli eroi di Omero, presenta una sua intimità,
una sua umanità che lo avrebbe trattenuto ben volentieri
fra le rovine di Troia (rimane nel fondo del suo animo un’indistinta
nostalgia del ritorno) o fra le braccia di Didone. Insomma, la sua
"humanitas" spesso non va d’accordo con la sua "pietas", ma lo rende
altresì più umano e più vero.
Didone: è il personaggio, tragico e appassionato,
meglio riuscito del poema, che supera abbondantemente i modelli
cui potè ispirarsi, la Medea di A. Rodio e l’Arianna di Catullo.
Turno: come eroe è un personaggio meglio
caratterizzato di Enea, anche se è, per così dire,
ritagliato sull’Ettore omerico.
Camilla: è un altro personaggio ben riuscito:
la sua forza e il suo coraggio di guerriera nulla tolgono alla sua
femminile bellezza e alla sua palese e fatale vanità.
Figure minori, ma non meno valide, sono: Latino,
Evandro, Eurialo e Niso, Lauso e Mesenzio.
Considerazioni
sulla poetica e sullo stile.
<< "Lo stile di V. è un miracolo come
l'anima sua" è stato detto: e l'originalità della
sua lingua è non meno grande di quella della sua arte. Egli
sapientemente amalgama la tradizione arcaica di Ennio e di Lucrezio
con quella neoterica ed alessandrina, con una consumata tecnica
di ricreazione (anche dal greco) e di intarsio. Così, allitterazioni,
omeoteleuti ecc. acquistano una nuova vita: analogamente, e le tracce
volute di lingua popolare, e gli arcaismi, ed i tecnicismi, specialmente
nelle "Georgiche", ed i grecismi, seppur parchi, assumono una funzione
speciale, ora per animare la scena, ora per suscitare visioni lontane,
ora per evocare mondi sconosciuti. Particolare abilità V.
mostra nell'uso dei suoni vocalici, nel riportare in grafia vicina
all'originale nomi propri esotici, onde creare illusioni misteriose
e suscitare fascini remoti. Poeta di gusto parnassiano e di tendenza
riflessa, meditativa e non istintiva, sa dare alle parole, oltre
al significato proprio, una espressività latente e vastissima:
veramente il loro senso spesso sembra essere infinito. Così
il suo esametro, che pure è quello normale, ha sempre un'eco
immensa e inafferrabile. I suoi versi, isolati dal contesto, paiono
assumere spesso valori del tutto nuovi, rivelare recondite verità,
essere detti di sovrumana saggezza o di umani eterni aneliti e di
moderne ansie implacate. Il suo stile, che ora ha movenze narrative,
quasi storiche, di cronaca e di epigrafe, alle volte assurge alla
levità della fiaba. Talora preferisce il tono drammatico:
ma è una drammaticità raccolta, interiore, di lotte
d'anima. Né manca l'andatura colloquiale, che può
essere anche un po' cruda, specialmente nelle "Ecloghe": che però
sa diventare pure solennità sentenziosa. La forza arcaica
dell'espressione latina della preghiera, del trattato, degli "annales"
si sposa alla "souplesse" dello studioso dei Greci, del figlio dell'età
cesariana ed augustea. Prevale nella "maiestas" stilistica quasi
una contenuta ombreggiatura elegiaca, che ingentilisce anche i tratti
solenni e dona unità al racconto. Ovunque si sente presente
lo spirito del poeta, anche nel poema epico, con la coscienza del
suo valore, ed insieme con i suoi dubbi ed i suoi interrogativi
tremendi. >> [Luigi Alfonsi]
Mi sono permesso di riportare per intero la valutazione
critica di questo studioso, perché - al di là del
suo tono aulico e a tratti "osanneggiante", che ne tradisce anche
l'appartenenza ad una determinata scuola di pensiero - tutto sommato,
offre un quadro completo ed efficacemente esauriente dello stile
e della poetica di V., in tutte le sue opere.
L'
"Appendix Vergiliana".
Il termine "Appendix Vergiliana" [lett. "aggiunta
a V."] è moderno (risale, come evidentemente la silloge,
all’età umanistica: le fu dato da Giuseppe Scaligero nel
1573) ed indica un gruppo di poemetti pseudovirgiliani (salvo forse
un paio di poemetti dei "Catalepton"), inseribili nel quadro della
poesia minore del I sec. d.C. (conclusivo è stato l’esame
stilistico).
I componimenti (6 poemetti, 14 epigrammi e 3 carmi
priapei) non sono comunque databili tutti allo stesso periodo e
sono sicuramente di mani diverse: inoltre, non si può dire
con certezza se siano stati concepiti intenzionalmente come falsi.
I componimenti principali sono:
1 una serie di epigrammi raccolti sotto il titolo
di "Catalepton" ("componimenti leggeri"), che contengono
preziose informazioni biografiche;
2 un'epopea ingenua intitolata "La zanzara" ("Culex",
48 a.C.), un epillio di 414 esametri (di gusto neoterico). Un pastore,
svegliato da una fastidiosa zanzara, che uccide, riesce per ciò
a salvarsi da un serpente. Nella notte la zanzara gli appare, gli
fa una lunga descrizione dell’oltretomba, e chiede e ottiene degna
sepoltura.
3 un racconto leggendario, l' "Airone bianco" ("Ciris"),
di 541 esametri, che prelude alle "Metamorfosi" di Ovidio e che
trova collegamenti con la poesia erudita alessandrina, che si compiaceva
di leggende bizzarre: descrive infatti la trasformazione di Scilla
in un uccello marino.
4 "Dirae", carme di 183 esametri (attribuibile
forse a Valerio Catone), in cui il poeta fonde insieme un canto
di maledizione (contro l’attuale proprietario del podere di cui
è stato spogliato) e un canto d’amore (il destino lo priva
dell’amore di Lydia lontana).
5 "Aetna", poema di 646 esametri (che Seneca
attribuisce al "suo" Lucilio), di intonazione epicurea, in cui l’autore
vuole spiegare i fenomeni naturali in modo scientifico, per sfatare
le credenze popolari e le interpretazioni dei poeti.
6 "Copa" ("l’ostessa"), ch’è la descrizione
vivida di una bella ragazza d’osteria, che domina tutto il breve
idillio di 19 distici; sulla soglia dell’osteria, canta e danza,
invitando i passanti ad entrare.
7 "Moretum" ("la torta campagnola"): poemetto
di poco più di 100 esametri, che descrive minutamente la
scena di un contadino il quale deve prepararsi il cibo (la focaccia
piccante), per consumarlo al ritorno dal lavoro.
...:::Bukowski:::...
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