Vita.
Premessa all'uomo ed al poeta. La vita di
O. è ricostruibile in maniera sufficientemente facile attraverso
la biografia a lui dedicata da Svetonio e l'opera stessa del poeta,
che continuamente ha parlato di sé (anche se le sue "confidenze"
col lettore mai si aprono a vere "confessioni": in questo "gettare
l'esca" alla curiosità del lettore sul conto della propria
vita è, secondo I. Lana, uno dei maggiori motivi di fascino
delle opere del venosiano, e soprattutto delle "Odi").
Come vedremo, questa stessa vita, così inscindibilmente
legata all'attività poetica e culturale, <<così
scarsa in generale di vistosi eventi esteriori e così piena
di intimità, di raccoglimento, di appartata contemplazione
e meditazione, di semplicità, di gusto raffinato del bello,
riflette pienamente il tono e l'accento vero della poesia oraziana>>
[Alfonsi].
Origini umili, ma studi eccellenti. Figlio
di un liberto, ch’era riuscito a racimolare un piccolo patrimonio
col mestiere di "coactor exactionum" (esattore delle pubbliche
aste), O. fu portato a studiare proprio dal padre (quello ch’egli
stesso definirà "il migliore dei padri", suo maestro di vita
e di morale) nelle migliori scuole di grammatica e retorica di Roma
(fu allievo, tra gli altri, del severo grammatico Orbilio), andando
a perfezionarsi persino ad Atene versi i vent'anni (ma il nostro
poeta avrebbe sempre sofferto del complesso d'inferiorità
derivatogli dalle sue umili origini).
Il fervore repubblicano e la triste esperienza
di reduce sconfitto. Lì O. aderì all'ideologia
repubblicana dei giovani patrizi romani che vi studiavano, anche
perché suggestionato dai temi delle scuole di retorica: fu
coinvolto, così, dalla guerra dei "tirannicidi" Bruto e Cassio,
ai cui comandi si arruolò come "tribunus militum",
combattendo nella storica battaglia di Filippi (42). Si salvò
miracolosamente (come lui stesso racconta, gettò lo scudo
e si diede alla fuga: ma si tratta di una reminiscenza archilochea?),
e riuscì a tornare a Roma durante un armistizio (41), profittando
del condono politico di Ottaviano, ma senza protezioni politiche.
Le sostanze lasciategli dal padre erano state inoltre confiscate:
così, dopo aver sperimentato anche la povertà, per
vivere s’impiegò come contabile nell’amministrazione statale
("scriba quaestorius").
L'incontro con Virgilio e Mecenate. In seguito,
frequentò a Napoli la scuola epicurea di Sirone in compagnia
di Virgilio. Iniziata l’attività poetica con gli "Epodi"
e le "Satire", nel 39 fu presentato proprio da Virgilio a Mecenate,
che ben presto lo legò a sé come amico e gli donò
(33?) un podere nella Sabina: un'amicizia che non poté non
alimentare le invidie e le malelingue dei ricchi romani del tempo.
La svolta cesarista: O. intellettuale "allineato".
Il nostro poeta, così, tradendo la sua giovanile fede politica,
fini con l'abbracciare, con sempre più convinzione e dedizione,
le cause del cesarismo: Augusto gli offrì addirittura un
lusinghiero posto di segretario, ma O. declinò l’invito,
con molto garbo ma con altrettanta fermezza, assecondando tuttavia
il programma del princeps sia sul piano politico sia su quello
letterario: fu un intellettuale, dunque, sostanzialmente "allineato",
se non addirittura "poeta vate". Nel 17 fu inoltre incaricato di
scrivere il "Carmen saeculare" in onore di Apollo e Diana,
da cantare appunto durante i "ludi saeculares": occasione,
questa, particolarmente solenne, dato che quei ludi in quell'anno
sancivano ufficialmente l'inizio della "Pax Augusta". Nel
20, O. iniziò a pubblicare le "Epistole"; nell’8 a.C. scrisse
4 libri di Odi.
La morte. Ma nel sett. dell’8 a.C., Mecenate
moriva: O. si sentì perduto, tanto che anche lui di lì
a poco si spense, forse a causa di un'emorragia cerebrale. Già
da 5 o 6 anni, tuttavia, non componeva o pubblicava quasi più
nulla, preferendo un completo "otium" di riflessione e di
ricerca puramente speculativa. Fu sepolto proprio accanto alla tomba
dell'amico e protettore, "la metà dell’anima sua", com'egli
stesso lo definì.
Opere.
Premessa. L'attività poetica di
O. si svolge su piani diversi e paralleli, coagulandosi essenzialmente
su tre generi: satira esametrica, poesia giambica e poesia lirica.
A tal proposito, si usa generalmente distinguere 3 fasi, <<in
prospettiva con l'evoluzione culturale dell'uomo e con la condizione
politica di Roma:
1. la I fase (43-30 a.C. ca) appartiene
all'età giovanile del poeta: è il tempo degli
"Epòdi" e delle "Satire" più
antiche, in cui emerge lo stato di agitazione e di sconforto
del poeta, ed irrompe il suo risentimento verso i nemici politici
dopo Filippi.
2. la II fase (30-23 ca) coincide praticamente
con la composizione delle "Odi", e più esattamente
dei primi 3 libri: è il momento in cui vengono
a ridimensionarsi la dialettica e la lotta politica, e quasi
di conseguenza il poeta, che aveva già cominciato ad
usare nelle satire ultime (ossia nella maggior parte
di quelle del II libro) un tono più moderato e bonario,
si dedica decisamente alla lirica. E' così che egli scopre
se stesso, e la sua tecnica si fa soggettiva ed introspettiva;
lasciati da parte odii personali e contingenze particolari,
eleva il tono universale della sua poesia, tripudiando per il
successo di Ottaviano ad Azio, che pone fine alle lacerazioni
delle guerre civili;
3. la III fase (23-13 ca), infine, è
quella della piena maturità del poeta, emulo, come già
Virgilio nell' "Eneide", della composizione di versi paradigmatici
per i fasti della sospirata Pace augustea. Appartengono a questo
periodo i 2 libri delle "Epistole", il "Carme secolare"
e il IV libro delle "Odi". >> [libero adattamento
da Fiordelisi]
Per una migliore presentazione delle opere, dei
loro contenuti e delle loro considerazioni in chiave umana e poetica,
preferisco tuttavia procedere per mero ordine cronologico di composizione
o di pubblicazione, esponendo le stesse opere in brevi monografie
singole. Abbiamo, così:
Epòdi. Gli "Epòdi"
(41-30 a.C.) sono 17 componimenti (O. li chiama "iambi"),
ordinati metricamente, secondo la consuetudine alessandrina e neoterica.
Il nome di "epodon liber", o più brevemente "Epòdi"
(come appare nei manoscritti, ma forse solo dal III sec. d.C.),
fu loro assegnato dagli antichi evidentemente per il fatto che,
nelle strofe distiche dei primi dieci carmi, ad ogni trimetro segue
un dimetro giambico detto, appunto, "epodo".
O. emula i giambografi greci, Ipponatte e soprattutto
Archiloco (ma ne mutua - in modo peraltro decisamente originale
- più che altro i metri e l’ispirazione aggressiva, non già
i contenuti), anche se il suo "furor" è, in verità,
talvolta alquanto o soltanto letterario. Tuttavia, gli "Epòdi",
malgrado una certa ridondanza stilistica, sono fondamentalmente
più violenti delle "Satire" (come vedremo), e più
amari: il poeta vi deplora le disgrazie della patria e afferma la
propria indignazione per alcuni scandali derivati dalle guerre civili
(lo "scelus", la "culpa", il delitto originario, che
diviene nella sua epoca la colpa di tutta una generazione). Il tutto
tradisce, come dire, la matrice e l'ispirazione ancora giovanili
di questa poesia.
Ora, quindi, sono appunto le ansie per il pericolo
della guerra civile (epòdi VII e XVI); ora invettiva contro
un abietto tribuno militare (IV), contro un ringhioso codardo (VI),
contro un poetastro (X), contro una vecchia libidinosa (VIII e XII),
contro una strega (V e XVII).
Tuttavia, in fondo, anche qui affiora la proverbiale
"mitezza" di O.: timidamente in I e IX, indirizzati a Mecenate (il
massimo ed unico dedicatario della sua poesia) al tempo di Azio
e oscillanti tra ansia e fiduciosa serenità; più decisamente
nei rimanenti, e soprattutto nel II, dove malgrado l’ironia finale
c’è un forte gusto per la vita agreste; infine, nel XIII
compare, forse per la prima volta, un altro tema caratteristico
della sua poesia: quello della fugacità della vita.
In questi carmi, sono usati vari metri: strofe
giambica, alcmania, archilochea, piziambica.
Satire. Le "Satire", dette dal poeta
stesso "Sermones" (ovvero propriamente "conversazioni", e
dunque scritte con stile e lingua studiatamente quotidiani), composte
in esametri dattilici, sono divise in 2 libri: il I (35-33 a.C.)
ne comprende 10, il II (30 a.C.) 8. Difficile ne è la cronologia
interna.
Abbandonate le inquietudini e il disadattamento
degli "Epòdi", attraverso certo i temi della predicazione
filosofica (in specie, quelli della diàtriba cinico-stoica,
ma stemperati dal loro rigido moralismo) e la lettura di poeti quali
Lucilio (di cui vuol essere versione moderna, ma altresì
originale: satire I4 e I10), O. cerca di elaborare in forma piana
e discorsiva (si tratta di componimenti misurati, caso mai vivaci,
ma come detto non sfoghi moralistici) un suo ideale di misura (il
cosiddetto "giusto mezzo", I1 e I2) che lo salvi dalle tensioni
interne e non gli precluda il godimento della vita ("autàrkeia"
["bastare a se stessi"] e "metriòtes" ["misura"]).
Il poeta insomma ricerca una morale di autosufficienza
e di libertà interiore, valendosi di uno straordinario senso
critico e autocritico, oltre che del suo tatto e della sua conoscenza
del mondo: il ragionamento si mantiene sempre sul piano psicologico-umano,
e la polemica non è tanto contro i vizi in sé, quanto
contro la loro vera radice, ovvero l’eccesso: come dire che egli
si propone non certo di cambiare la società romana ed il
modello etico di riferimento, ma almeno di fornire qualche utile
elemento di riflessione per intervenire sulla coscienza dei singoli.
Inoltre, nelle prime "Satire", O. si sforza di
dimostrare che la morale epicurea non è in disaccordo con
i valori tradizionali di Roma: moderazione, saggezza, rispetto dei
costumi, eccetera. Insiste anche sulla semplicità dell’esistenza
rurale quale condizione della felicità, parlando, in questo
senso, un linguaggio simile a quello di Virgilio e precisamente
nello stesso periodo, all’incirca, in cui questi componeva le sue
"Georgiche". Affinità vi sono anche col linguaggio di Tibullo.
Inoltre, l’amicizia da lui spesso elogiata non è scambio
di favori, e ancor meno schiavitù (come spesso avveniva a
Roma quando gli amici erano di condizioni ineguali), ma una comunione
profondamente spirituale o, anche, ideale.
Appare chiaro, insomma, che i "Sermones"
toccano una straordinaria pluralità di temi, che non si lasciano
imbrigliare in una sterile didascalia; mi limito, così, a
ricordare le satire ritenute dai più le più rappresentative,
oltre quelle già accennate. Così, ad es., un'altra
satira programmatica è la II1, dove O. risponde alle critiche
rivolte a se stesso e al genere satirico. Spunti autobiografici,
invece, si riscontrano nelle satire: I4 (sul padre adorato); I6
(sulla presentazione a Mecenate); I5 (sull'avventuroso viaggio a
Brindisi al seguito di Ottaviano); II6 (in cui esprime la gioia
per la villa donatagli). Satire più propriamente etico-filosofiche
sono invece: I2 (sull’adulterio; vigorosa); II3 (sulla pazzia degli
uomini, eccetto il filosofo; briosa); II6 (vi si trova l’apologo
del topos campagnolo e del topos urbano, con cui il poeta esprime
simbolicamente l'angoscia che prova in città ed il desiderio
di rifugiarsi nella tranquillità della campagna).
<<Dunque, le satire di O. non sono un'astrazione
teorica, ma una proiezione della realtà, sia rispetto alla
vitae ratio seguita dal poeta, sia rispetto alle sue dottrine
letterarie, sia infine come quadro d'ambiente, che ci riporta al
"Satyricon" di Petronio e agli "Epigrammi" di Marziale: hanno un
valore di trasmissione culturale dei vizi sociali>> [Fiordelisi].
Odi. Le "Odi" (titolo secondo i grammatici,
"Carmina" per O.) constano in tutto di 4 libri: i primi 3
(88 odi), dedicati a Mecenate, furono pubblicati nel 23 a.C., il
IV (15 odi: quindi, in tutto 103 odi) nel 14-13 a.C.. O. aggiunse
il IV libro dopo molti anni, su richiesta di Augusto, per celebrare
la vittoria di Druso e Tiberio su Reti e Vindelici.
Il criterio d’organizzazione del libro sembra essere
quello della "variatio": sia dal punto di vista metrico-formale
(ben 13 sono i metri usati, dall'alcaico al saffico all'asclepiadeo),
sia per tono e contenuti (alternanza di temi politici e temi privati,
di stile alto e stile leggero).
L’ispirazione oraziana qui si modifica e purifica
in composizioni raffinatissime, chiuse nel giro di strofe perfette
(il modello è nei poeti classici greci: Alceo, Saffo, ma
anche Anacreonte, Bacchilide, Pindaro…): in questo senso, potremmo
dire che le "Odi" si caratterizzano come un riuscito tentativo di
trasferire a Roma i ritmi della poesia eolica e rappresentano, per
molti versi, l'opera più matura del nostro poeta. Del resto,
lo stesso O. altrove aveva precisato la distinzione, all'interno
della sua produzione, tra poesia giambica e poesia lirica (una distinzione
che evidentemente trascendeva il canone meramente metrico-formale),
attribuendo proprio a quest'ultima il merito della sua gloria di
poeta.
Lo stile diventa così esteriormente asciutto,
la forma è rigorosa, quasi fredda; il tutto, insomma, caratterizzato
da un lato dalla sapienza tecnica (la declamata "callida iunctura",
cioè l’accorta disposizione delle parole e l’accurata articolazione
del periodo) e dall’altro dal controllo di impressioni e sentimenti:
O. si presenta come discepolo dei "poeti nuovi", alla ricerca anch’egli
della perfezione formale e delle soddisfazioni derivanti dal superamento
delle difficoltà.
Se O. nei "Sermones" era apparso, così,
poeta e narratore, nelle "Odi" si rivela nelle vesti di un sublime
"moralista": non perché vada (neanche qui) predicando una
morale, ma perché eccelle nel cogliere e nell’esprimere in
un ritmo, in un accostamento di parole, nella suggestione di un’immagine,
un’ "esperienza" privilegiata che illumina l’anima e la rivela a
se stessa.
La causticità polemica è allora qui
abbandonata come giovanile intemperanza (I16): è invece insistente
l’idea della "misura" ("aurea mediocritas", II10). Essa assume
una dimensione nuova: da una parte viene ancorata saldamente al
concetto di felicità con motivi tradizionali e stilizzazioni
(modestia, parsimonia, campagna contro città, etc…: ad es.,
I18, II2-3-15-18, III1 e 16), ma con l’aggiunta del motivo - riflesso
certamente autobiografico - della felicità di chi, oltre
che saggio, è anche poeta (II16, III14…); dall’altra, sul
piano della meditazione, è associata all’idea della morte,
che tutto rilivella (II3 e 8, III1 e 24). Il senso della fugacità
della vita acquista qui massimo rilievo e ispira tra le "odi" più
celebrate: I11 (v’è il famoso motivo del "carpe diem"),
I24 (in morte del poeta Q. Varo), I28 (sulla tomba del pitagoreo
Archita), II14 (a Postumo), ecc…
Attinto alle correnti filosofiche dell’epoca (in
special modo, l’epicureismo), ma filtrato dalla sensibilità
dei lirici greci (ad es., Mimnermo), tale senso di fugacità
aleggia come malinconia leggera su questa poesia, che è pure
sostanzialmente limpida e serena. Di nuovo, dappertutto traspare
la bonaria umanità, che si esprime soprattutto in un trepido
senso dell’amicizia, nel gusto della compagnia (le cosiddette "odi
conviviali"), nel controllo stesso delle passioni nelle non
poche odi dedicate a donne i cui modi (Lidia, Làlaga, Cloe,
Mirtale…) celano quasi certamente persone (e forse financo vicende)
reali (O. aveva già manifestato a Mecenate la necessità
di una poesia che cantasse l'amore: chiede infatti proprio all'amico
di porlo tra i poeti lirici [I 35]).
I temi maggiori delle odi. Come già
risulta evidente, all'estrema varietà metrica e ritmica di
quest'opera si associa un altrettanto straordinaria e variegata
sequela di motivi filosofici, personali, amorosi, conviviali, storico-politici
ed ideologici, tuttavia trattati in un'espressione sempre molto
misurata della propria interiorità di poeta: O. trova, insomma,
in quest'opera la sua più alta e completa espressione, con
ampiezza di toni e ricchezza di sfumature. E' possibile, tuttavia,
estrapolare alcuni temi che sono rimasti particolarmente e giustamente
celebri per la profondità del loro insegnamento e per la
partecipazione e la chiarezza con cui sono comunicati. Ad es., una
delle intuizioni fondamentali dell’epicureismo era il valore proprio
di ogni istante: O. se ne impadronisce e ne fa uno dei cardini privilegiati
del suo lirismo. Il "carpe diem", nel quale si è pensato
di poter riassumere questa sua "saggezza" (immiserendola, in questo
modo, in una formula angusta e anche un po’ volgare), è innanzitutto
il nucleo di una poetica: non è tanto la ricerca, cioè,
fine a se stessa, del piacere, ma il tentativo di scoprirlo nel
puro e semplice fatto di vivere. In questa prospettiva, O. canta
l' "otium", che è anche e soprattutto quiete dell’intelletto
e dell’anima, libertà interiore: il "carmen" prolunga
la strada imboccata col "sermo", trasfigurando ciò
ch’era stato consiglio obiettivo in scoperta dell’anima. Il pensiero
stesso della morte, anziché rivelarsi amaro, dà tutto
il suo valore alla rinnovata presenza della vita.
Forse anche il vistoso apparato mitologico presente
nelle "odi" va inteso, al di là del richiamo alessandrino
o degli agganci alla religione della Roma augustea, come un elemento
di voluta fissità, oltre che di pindarica sublimazione della
poesia; epicureo, O. non crede davvero all’intervento degli dèi
nel mondo: egli ne fa un gioco, allargando la sua sensibilità
di poeta alla creazione tutta intera, senza voler scoprire in essa
il segno di una trascendenza divina. Ma, in fondo, non è
un problema che lo interessi molto. Egli onora le divinità
campestri della sua tenuta come presenze familiari che prolungano
il suo personale universo interiore, non per manifestare ad esse
la propria "adorazione".
Quasi sicuramente, infine, nessun latino ha avuto
più di O. la coscienza di essere poeta, di essere cioè
in grado di donare l'immortalità con i propri versi: non
per nulla, accettò di divenire uno dei vati ufficiali del
regime di Augusto: ne fa fede l’importante filone etico-politico
che riscontriamo nelle "Odi" (ovvero i 6 componimenti - detti "odi
romane", appunto - con cui si apre il III libro, e che vanno
dall'iniziale esaltazione delle antiche "virtutes" e della
religiosità degli avi alla scansione poetica dei momenti
o eventi del mito e della storia di particolare importanza: ma accenni
politici attraversano in verità l'opera nella sua interezza),
nonché il successivo "carmen saeculare".
Carmen Saeculare. Come già ricordato,
Augusto nel 17 a.C. indìce i "ludi Saeculares", nel
momento più adatto, scelto con grande abilità, per
celebrare i ludi, testimonianza di un'epoca di guerre e di lotte
civili che si chiude e di un'era di pace che si apre.
Morto Virgilio nel 19, nessun altro poeta poteva
ricevere l'incarico di comporre l'inno per i ludi, perché
nessuno più di O. aveva dimostrato, specialmente con le odi
romane, di saper interpretare l'essenza della grandezza di Roma.
O. accettò l'incarico, che significava per lui riconoscimento
del suo ruolo di poeta nazionale e, più ancora, consacrazione
della sua attività lirica, che appunto dalla composizione
del "Carmen saeculare" trasse nuova linfa e riprese sostanza.
Così, il poeta affida al canto di due cori
di giovani, l’uno maschile e l’altro femminile, il compito di invocare
la protezione degli dèi su Roma.
Il "Carmen" presenta, ovviamente, i difetti propri
delle composizioni eseguite su commissione, ma, se non è
sorretto da altissima ispirazione, è tuttavia opera di altissima
dignità artistica e, soprattutto, di profonda sincerità.
Inoltre, in tutti quei luoghi in cui il poeta può liberarsi
dagli obblighi impostigli dalle circostanze o dalla liturgia e dispiegare
liberamente la sua fantasia, egli raggiunge "l'intensità
poetica delle sue liriche più felici, interpretando con severità
e serietà il mito storico di Roma e di Ilio, ma soprattutto
esprimendo un ideale quasi ieratico di potenza e di predominio"
[Turolla].
Epistole. Le "Epistole" sono in esametri
e si compongono di 2 libri: il I (di 20 componimenti) dedicato a
Mecenate, uscì nel 20 a.C.; delle 2 epistole del II libro,
quella ad Augusto è del 14 o 13, quella a Floro è
del 18 ca.
L’epistola in esametri è probabilmente una
sperimentazione originale: O. non si richiama, del resto, ad un
inventore del genere. Con essa (di cui si discute il carattere "reale"
o semplicemente "letterario"), il poeta cerca un dialogo più
intimo e raccolto con sé stesso: c’è un bisogno di
calma e di tolleranza, in cui si annida tanta esperienza umana,
interiorizzata in una sorta di ascesi laica (e il tutto presuppone
lo spostamento verso una periferia agreste, che risuona di memorie
filosofiche: quasi un "angulus", insomma, di meritato "otium"):
è il frutto della migliore lezione del suo epicureismo (non
vi è dunque "svolta" in senso stoico, come taluno ha voluto
supporre).
Le lettere, così, sono dirette ad una pluralità
di personaggi, umili e potenti, giovani ed adulti, che rappresentano
tutto il mondo relazionale ed affettivo del poeta; esse forniscono
uno spaccato del suo mondo interiore, un punto di sintesi delle
sue riflessioni sulla vita, sugli uomini, sulla filosofia; esprimono,
insomma, la voce più matura di O., che vive con bonario distacco
le vicende dell'esistenza e che attribuisce ai fragori ed alle inquietudini
del vivere un valore ormai relativo: l'ammonimento a conseguire
la saggezza, unico rimedio ai mali che affliggono l'uomo, è
- sotto questo aspetto - il vero e genuino elemento che percorre
tutta la raccolta.
Ars poetica. Infine, al II libro è
aggiunta l’epistola ai Pisoni, nota come "Ars poetica" (17
o 13 a.C.) in base alla definizione di Quintiliano, in esametri
(ma sin dall'antichità, essa andò separata dalle altre
epistole, per la sua natura particolare e anche perché, data
la sua lunghezza, costituiva un volumetto a parte): ricca di riferimenti
a Neottolemo di Pario e ancor più ad Aristotele, l' "Ars"
è impostata sul problema dell’unità dell’opera d’arte
e del rapporto tra contenuto e forma, esaminato prendendo come principale
punto di riferimento il dramma.
Molto si è discusso, e si continua a discutere,
se considerare quest'opera un vero e proprio trattato sull'arte
poetica oppure semplicemente un insieme di riflessioni senza un
progetto unitario (il tono è quello di una conversazione
dotta, ma altresì amabile e confidenziale): comunque, sostanzialmente,
essa è composta di due ben definiti nuclei concettuali, che
trattano questioni relative all'arte del poetare ed alla figura
del poeta.
Riguardo il primo punto, due tesi, in particolare,
sono rimaste celebri: la necessità di fondere la spontaneità
e l'immediatezza dell’ispirazione con lo studio metodico e il paziente
lavoro di lima; e il noto principio dell’ "utile dulci",
della fusione cioè, diremmo oggi, fra utile e dilettevole.
Riguardo, invece, la seconda questione (l' "artifex"
della poesia), O. insiste molto sulla conquista della "sapientia":
per lui, innanzitutto, il poeta - come uomo - deve raggiungere un
alto grado di consapevolezza e di conoscenza, erudita e soprattutto
interiore; è questo, infatti, essenzialmente, il presupposto
l'inizio e la fonte dello scrivere bene. A ben vedere, una sorta
di testamento umano e letterario che il nostro poeta ha lasciato
ai posteri.
Conclusione.
Infine, questa breve ma icastica considerazione
mutuata da I. Lana, che - volendo - compendia tutto quanto detto
finora: <<nella dotta Atene O. poco più che adolescente
cercava di apprendere cosa fosse il vero ed il bene; nella quiete
sabina degli ultimi suoi anni cercava ancora che cosa fossero il
vero e il bene; questi, l'aspirazione di tutta la sua vita, e la
sua poesia, la traccia lasciata da un'anima sorridente sì,
ma inquieta>>.
...:::Bukowski:::...
|