Libro primo, paragrafo
terzo.
Sulla base della definizione provvisoria fornita
nel paragrafo precedente [l'ira è una passione che spinge
un individuo a reagire ad un'ingiuria ricevuta, o presunta tale],
Seneca "lima" il suo assunto confrontandolo con le obiezioni
più ovvie che ad esso vengono contrapposte: 1 - il più
delle volte ci scagliamo non contro chi ci ha recato effettivamente
offesa, bensì contro chi mostra piuttosto l'intenzione di
farlo [III,1]; 2 - non è detto che l'ira comporti la punizione
(spesso ci adiriamo con individui "intoccabili") [III,2];
3 - l'ira non è mossa dall'ingiuria (gli animali, ad esempio,
non s'adirano per ingiurie ricevute) [III,3].
Il contrappello di Seneca è puntuale: 1 - il malintenzionato,
già solo con questa sua cattiva disposizione nei nostri confronti,
ci fa del male a tutti gli effetti, e dunque, sotto questo rispetto,
ci reca comunque ingiuria [III,1]; 2 - l'ira (come ha affermato)
è il desiderio di infliggere un castigo, e non già
la possibilità di metterlo in atto [III,2]; 3 - quella degli
animali non è ira propriamente detta - passione che bivacca
in esseri razionali [III,4] - ma piuttosto un istinto aggressivo
di difesa e di sopravvivenza [III,5 e sgg.]: la differenza che intercorre
tra gli uomini - esseri dotati di parola e di ragione [III,7] -
e i "muti" [III,6] animali è totale, sia per complessione
che per intima conformazione [III,7]: ciò perché il
"principio vitale e regolatore" è nei primi perfetto
e ben strutturato, nei secondi rozzo e imperfetto [id.].
Seneca, insomma, affina e ribadisce la sua convinzione: l'ira è
un desiderio sfrenato, ha come motivazione l'ingiuria ricevuta e,
per di più, non va disgiunta dalla componente razionale,
per quanto questo possa apparire, in fin dei conti, contraddittorio.
III,1 Si potrebbe obiettare
che "il più delle volte ci scagliamo non contro chi
ci ha recato effettivamente offesa, bensì contro chi mostra
piuttosto l'intenzione di farlo. Ciò ti basti a intendere
che l'ira non ha come pretesto l'ingiuria".
Il che è vero: scagliamo la nostra ira contro chi mostra
intenzione di recarci danno o offesa; tuttavia, in realtà,
il malintenzionato - già solo con questa sua cattiva disposizione
nei nostri confronti - ci fa del male a tutti gli effetti.
III,2 Altra obiezione: "Per
convincerti che l'ira non è desiderio inconsulto di punire,
tieni conto che spesso i disgraziati se la pigliano con i più
potenti, e non certo ne auspicano il castigo, ché anzi non
ci sperano neppure".
Primo punto: ho affermato che l'ira è il desiderio di infliggere
un castigo, e non già la possibilità di metterlo in
atto; secondo punto: gli esseri umani desiderano ardentemente anche
ciò che non rientra nelle loro effettive possibilità.
Del resto, nessuno è tanto disgraziato da vedersi preclusa
financo la speranza di un castigo inflitto ad un altro, sia esso
anche il più potente degli uomini: tutti siamo in grado di
nuocere ad altri.
III,3 La definizione di Aristotele
non si discosta poi molto dalla mia: egli afferma, infatti, che
"l'ira consiste nel desiderio di ricambiare un dolore ricevuto".
Ora, c'impiegherei troppo tempo ad esporre nei minimi dettagli le
differenze che intercorrono tra la mia e la definizione testé
riportata. Ad entrambe, comunque, si ribatte che "le fiere
s'imbestialiscono senza essere aizzate da alcuna ingiuria, né
tantomeno per spirito di vendetta: seppure la ottengano nei fatti,
non appartiene certo alle loro intenzioni".
III,4 Ma bisognerebbe piuttosto
dire che le fiere - come del resto tutti gli animali, eccezion fatta
per l'uomo - non conoscono l'ira propriamente detta: questa, infatti,
pur essendo tutto l'opposto della ragione, tuttavia si manifesta
solo in compagnia d'essa, e mai altrove. Le fiere, piuttosto, son
soggette all'istinto, alla rabbia, alla ferocia, all'aggressività,
e non all'ira più di quanto lo siano alla lussuria, ché,
anzi, nei confronti di certe smodatezze, son financo più
intemperanti dell'uomo.
III,5 Dunque, non dar retta
a chi scrive
[Ovidio, ndt] che "il
cinghiale dimentica d'adirarsi, la cerva di affidarsi alla corsa
e gli orsi d'infierire contro robusti armenti". "Adirarsi"
qui sta per "aizzarsi", "aizzarsi contro": questi
animali, invero, non conoscono l' "adirarsi" più
che il perdonare!
III,6 Inoltre, gli animali,
privi della facoltà di locuzione, son altrettanto privi di
tutte le altre passioni propriamente umane, mentre posseggono invece
taluni moti istintivi che ad esse sono soltanto affini. Diversamente,
se provassero sentimenti di amore e di odio, proverebbero altresì
sentimenti d'amicizia e d'inimicizia, di discordia e di concordia:
si può pur concedere che nelle fiere siano insite delle parvenze
di questi sentimenti, ma per il resto la consapevolezza del bene
e del male pertiene esclusivamente alla sensibilità umana.
III,7 Nessun altro essere vivente,
che non sia l'uomo, è stato dotato della facoltà di
esperire, organizzare le esperienze, portarle a proprio vantaggio,
riformularle col raziocinio, e, di per sé, agli animali non
soltanto son state precluse le umane virtù, ma anche gli
umani vizi.
La loro complessione e la loro intima conformazione differiscono
in tutto e per tutto da quelle dell'uomo; il "principio vitale
e regolatore"
[principio di ascendenza
stoica, ndt] ha, in loro, diversa struttura. Difatti, com'essi
hanno ovviamente facoltà di emettere versi, ma incomprensibili,
confusi e non certo articolati in parole; come hanno una lingua,
ma legata e impacciata nelle articolazioni; così il loro
"principio vitale e regolatore"
[vd.
sopra] è rozzo e imperfetto. Esso, insomma, esperisce
vista ed aspetti delle cose, che fungono da stimoli alle loro reazioni
istintive, ma quelle percezioni risultano torbide e confuse.
III,8 Per tal motivo, le loro
reazioni e i loro impulsi sono veementi, ma non si tratta di reazioni
dettate dal timore, dall'ansia, dall'afflizione e dall'ira, ma soltanto
da un qualcosa che le ricorda molto da vicino. Ne consegue che le
suddette reazioni ben presto si placano e si convertono nel loro
contrario: ovvero, le fiere - un attimo dopo la furia e lo spavento
- tornano tranquillamente alla pastura, ed all'agitazione ed all'imbestialimento
subentrano, come nulla fosse, la quiete e il sopore.
22 agosto 2002 - Trad.
Bukowski
1.
'Irascimur' inquit 'saepe non illis qui laeserunt, sed iis qui
laesuri sunt; ut scias iram non ex iniuria nasci.' Verum est irasci
nos laesuris, sed ipsa cogitatione nos laedunt, et iniuriam qui
facturus est iam facit.
2. 'Vt scias' inquit 'non esse iram poenae cupiditatem, infirmissimi
saepe potentissimis irascuntur nec poenam concupiscunt quam non
sperant.' Primum diximus cupiditatem esse poenae exigendae, non
facultatem; concupiscunt autem homines et quae non possunt. Deinde
nemo tam humilis est qui poenam uel summi hominis sperare non
possit: ad nocendum <omnes> potentes sumus.
3. Aristotelis finitio non multum a nostra abest; ait enim iram
esse cupiditatem doloris reponendi. Quid inter nostram et hanc
finitionem intersit, exequi longum est. Contra utramque dicitur
feras irasci nec iniuria inritatas nec poenae dolorisue alieni
causa; nam etiam si haec efficiunt, non haec petunt.
4. Sed dicendum est feras ira carere et omnia praeter hominem;
nam cum sit inimica rationi, nusquam tamen nascitur nisi ubi rationi
locus est. Impetus habent ferae, rabiem feritatem incursum, iram
quidem non magis quam luxuriam, et in quasdam uoluptates intemperantiores
homine sunt.
5. Non est quod credas illi qui dicit: "non aper irasci meminit,
non fidere cursu cerua nec armentis incurrere fortibus ursi".
Irasci dicit incitari, inpingi; irasci quidem non magis sciunt
quam ignoscere.
6. Muta animalia humanis adfectibus carent, habent autem similes
illis quosdam inpulsus; alioqui, si amor in illis esset et odium,
esset amicitia et simultas, dissensio et concordia; quorum aliqua
in illis quoque extant uestigia, ceterum humanorum pectorum propria
bona malaque sunt.
7. Nulli nisi homini concessa prudentia est, prouidentia diligentia
cogitatio, nec tantum uirtutibus humanis animalia sed etiam uitiis
prohibita sunt. Tota illorum ut extra ita intra forma humanae
dissimilis est; regium est illud et principale aliter ductum.Vt
uox est quidem, sed non explanabilis et perturbata et uerborum
inefficax, ut lingua, sed deuincta nec in motus uarios soluta,
ita ipsum principale parum subtile, parum exactum. Capit ergo
uisus speciesque rerum quibus ad impetus euocetur, sed turbidas
et confusas.
8. Ex eo procursus illorum tumultusque uehementes sunt, metus
autem sollicitudinesque et tristitia et ira non sunt, sed his
quaedam similia; ideo cito cadunt et mutantur in contrarium et,
cum acerrime saeuierunt expaueruntque, pascuntur, et ex fremitu
discursuque uesano statim quies soporque sequitur.