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Seneca: De ira, I8


 

Libro primo, paragrafo ottavo.

Questo paragrafo puntualizza, e amplifica - nel dettaglio - le conclusioni del precedente: l'ira è un male che dev'essere frenato al suo nascere [VIII,1]: una volta che sia penetrata in noi, essa ci asservisce completamente al suo dominio ed al suo dettato: una eventualità, questa, non remota, che dev'essere scongiurata ad ogni costo [VIII,2], tanto più che l'animo non è una roccaforte, bensì una "realtà" facilmente esposta a nefaste influenze [id.].
Non si tratta, dunque, di soppesare la gravità dell'ira, o di quantificare la sua entità nociva: si entra in un diallele discorsivo [VIII,4 - VIII,5 e VIII,6] facilmente smontabile alla luce di un'unica ed incontrovertibile verità: l'ira - il male, la passione - risulta, sempre e comunque, la più forte, una volta che ci abbia vinti.
La capacità di temperare l'ira, quindi, o di temperarsi nell'ira, è solo una capacità illusoria: è l'ira stessa a sbollire, naturalmente, secondo un "calcolo passionale" [VIII,7] e non "razionale": il suo assopimento è solo una tregua temporanea e "tattica".
Niente di nuovo, quindi, almeno nell'apparenza del filo logico senecano: pur tuttavia, ritengo opportuno focalizzare l'attenzione sul passim VIII,3 , in cui il filosofo - stavolta in modo esplicito - battezza la natura fondamentalmente "consustanziale" della passione e della ragione: esse non sono due entità o due principi netti, separati, distinti, che si appoggiano su un identico sostrato; tutt'altro: esse rappresentano modalità di indirizzo dell'animo umano, e quindi coesistono, "in potenza" (direbbe Aristotele) in esso. L' "attualità" dell'animo può realizzarsi instradandosi sulla via retta della ragione, oppure "sviandosi" [VIII,1] nella sua corrotta e corruttrice illusione di onnipotenza dirompente. Ciò significa che l'attività filosofica - ovvero, l'attività umana - dev'essere un esercizio duro e faticoso di "persuasione", un riconciliarsi con la divinità (Socrate) o la razionalità (Stoicismo) che alberga nel nostro intimo e che, purtroppo, a volte - impastoiata nella pece delle passioni e dei falsi obiettivi della cupidigia - stenta a rilucere in tutta la sua grandezza [VIII,3].
Al turbine nerastro e confuso degli "affetti", dunque, deve contrapporsi la trasparenza etica, il riconciliarsi dell'uomo con se stesso e con i propri simili, in nome del principio razionale - ch'è il principio del bene, in quanto volto a vantaggio degli uomini.
Queste conclusioni, ovviamente, non appartengono in toto al dettato di Seneca, e molto spesso - durante il suo engagement politico - furono, per quanto si presume, volentieri disattese. Ciononostante, le riflessioni del filosofo-politico - qui - rappresentano un utile, insospettabile abbrivo a quelle conclusioni (un testo si medita al di là della sua contingenza storica, filosofica, politica; esso sopravvive, si attualizza, si rinvigorisce, estende i suoi orizzonti secondo il pensiero della posterità: questo, per me, è il senso del "classico").
Un ultimo appunto: dai "bottaerisposta", disseminati verso la fine del paragrafo, emerge la vera natura di questo trattato - natura formale, intendo - e la vera natura di ogni cosiddetto "dialogo" filosofico: un dialogo scritto, lo ammise lo stesso Platone, è un controsenso, è lettera morta, perché non vive nell'intelligenza vivace della discussione e dell'ispirazione quasi divina dell'istante. Questo sull'ira - come le stesse opere platoniche (in particolar modo le ultime) e tutti i capolavori del pensiero che si conformano a tale genere - sono piuttosto "monologhi dialettici", dove l'autore soppianta l'eventuale interlocutore, o ne fa la pantomima; e anche qualora trascrivesse una discussione reale, nel trascriverla la filtrerebbe con la sua intelligenza e sensibilità, rendendola seppur fedelmente, comunque spuria.


VIII,1
La soluzione ottimale, dunque, sarebbe frenarla sul nascere, l'ira, fugarne gli stessi pretesti, fare di tutto, insomma, per non scivolare nei suoi tranelli. Infatti, qualora essa cominci a sviarci, è difficile riguadagnare la saviezza, perché la ragione cede il passo alla passione, una volta - e basta una volta - che quest'ultima abbia in noi fatto breccia e, col nostro consenso, si sia arrogata diritto d'agire: il resto lo svolgerà a suo piacimento, senza aspettar concessioni.

VIII,2 E allora - questo è il mio consiglio - innanzitutto tenere a bada il nemico, tenerlo lontano: infatti, quando ha fatto irruzione, quando ha sbaragliato le difese, non sono certo i prigionieri a fermarlo: la fa da padrone.
A maggior ragione ciò vale per l'animo: esso non è sentinella neutrale, che sbarri il passo alle passioni, qualora queste si spingano oltre il dovuto: ché anzi esso stesso si muta in passione, tal da non esser più in grado di riassumere quella sua tempra sana e adeguata, qualora l'abbia persa o compromessa.

VIII,3 Come ho accennato, infatti, la passione e la ragione non sono due "realtà" separate e distanti, ma rappresentano i due possibili, antonimi indirizzi dell'animo: rispettivamente, verso il peggio e verso il meglio. E allora, in che modo la ragione - vinta dall'ira e dalle passioni conquistata e umiliata - potrà risorgere? Ovvero: in che modo si divincolerà, se impastoiata in una melma nella quale prevalgono gli elementi peggiori?

VIII,4 "Eppure - si obietta - certuni, per quanto in preda all'ira, sanno trattenersi!". Ma in che senso? Nel senso che non ne eseguono affatto gli imperativi [1], o che li eseguono solo in parte [2]? Nel primo caso [1], l'ira - quell'ira che voi evocavate, quasi avesse, per così dire, maggior efficacia della ragione - non sarebbe punto necessaria al pratico agire.

VIII,5 Riguardo al secondo caso, articolo la domanda: l'ira è più forte [2a], o più debole [2b], della ragione? Ammettiamo che sia più forte [2a]: in che modo, allora, la ragione le potrà imporre un limite o una misura, dato che - da sempre - il più debole soggiace? Se è più debole [2b], invece, la ragione - di per sé sola - si mostra bastevole al pratico agire, e non invoca certo un alleato più debole!

VIII,6 Si ribadirà: "Fatto sta che certuni, per quanto in preda all'ira, comunque sanno trattenersi!". Ma quando, in effetti? Quando l'ira è oramai svanita, quand'è defluita naturalmente, e non quando ribolle impetuosa, al culmine della propria forza.

VIII,7 Ennesima obiezione: "E con ciò? Non è forse vero che, talvolta, pur se si è in preda all'ira, si lasciano andare incolumi gli odiati bersagli, senza arrecar loro alcun male?" E' vero! Ma quando, in realtà? Solo quando una passione prende il sopravvento su un'altra, e quando o la paura ha ottenuto il suo effetto o il desiderio il suo appagamento. In tal caso, l'adirato non si quieta perché sopravviene la salutare ragionevolezza, bensì solo perché si realizza un'infida tregua tra le passioni, foriera di cattivi sviluppi.


notte 15-16 settembre 2002 - Trad. Bukowski


1. Optimum est primum inritamentum irae protinus spernere ipsisque repugnare seminibus et dare operam ne incidamus in iram. Nam si coepit ferre transuersos, difficilis ad salutem recursus est, quoniam nihil rationis est ubi semel adfectus inductus est iusque illi aliquod uoluntate nostra datum est: faciet de cetero quantum uolet, non quantum permiseris.
2. In primis, inquam, finibus hostis arcendus est; nam cum intrauit et portis se intulit, modum a captiuis non accipit. Neque enim sepositus est animus et extrinsecus speculatur adfectus, ut illos non patiatur ultra quam oportet procedere, sed in adfectum ipse mutatur ideoque non potest utilem illam uim et salutarem proditam iam infirmatamque reuocare.
3. Non enim, ut dixi, separatas ista sedes suas diductasque habent, sed adfectus et ratio in melius peiusque mutatio animi est. Quomodo ergo ratio occupata et oppressa uitiis resurget, quae irae cessit? aut quemadmodum ex confusione se liberabit in qua peiorum mixtura praeualuit?
4. 'Sed quidam' inquit 'in ira se continent.' Vtrum ergo ita ut nihil faciant eorum quae ira dictat an ut aliquid? Si nihil faciunt, apparet non esse ad actiones rerum necessariam iram, quam uos, quasi fortius aliquid ratione haberet, aduocabatis.
5. Denique interrogo: ualentior est quam ratio an infirmior? Si ualentior, quomodo illi modum ratio poterit inponere, cum parere nisi inbecilliora non soleant? Si infirmior est, sine hac per se ad rerum effectus sufficit ratio nec desiderat inbecillioris auxilium.
6. 'At irati quidam constant sibi et se continent.' Quando? cum iam ira euanescit et sua sponte decedit, non cum in ipso feruore est; tunc enim potentior est.
7. 'Quid ergo? non aliquando in ira quoque et dimittunt incolumes intactosque quos oderunt et a nocendo abstinent?' Faciunt: quando? cum adfectus repercussit adfectum et aut metus aut cupiditas aliquid inpetrauit. Non rationis tunc beneficio quieuit, sed adfectuum infida et mala pace.


 


 

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