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Seneca: De ira, I7


 

Libro primo, paragrafo settimo.

Questo paragrafo, all'apparenza interlocutorio, rappresenta un altro puntello della tesi di Seneca; tesi che procede impercettibilmente, ma procede. Si tratta, infatti, di "approcciare" (oggi si direbbe "decostruire") il problema considerandone tutti i punti di vista, benché minimi. L'arguta obiezione, improntata a cinismo "politico", offre il destro: cos'è il coraggio senza l'ira? Non è l'ira il nerbo del coraggio? Non è l'ira a favorire la vittoria, in battaglia (e, integriamo, nella vita)? Non conviene, allora, addomesticare l'ira, piuttosto che distruggerla? [VII,1].
La risposta di Seneca è pregna, insieme, di filosofia e di buon senso: il male, come tale, va scongiurato, in modo completo; e va prevenuto, in modo deciso: ché se fa breccia nel nostro cuore e nella nostra anima, si espande come un cancro, e, in men che non si dica, ci sottomette del tutto, conducendoci inevitabilmente alla rovina [VII,2].
Seneca rapprende questa verità in un esempio di vivida e inquietante bellezza: l'anima che si getta a capofitto nella passione, qualunque essa sia, è come il peso che precipita nel vuoto [VII,4]; non ha più remore, non ha più freni, non ha più libertà, ovvero non ha più opportunità di ravvedimento o pentimento: non ha possibilità di tornare indietro, non ha possibilità di un nuovo inizio.
Ogni scelta, come tale, comporta una responsabilità, e un inevitabile effetto. Ogni volta che facciamo una scelta, siamo come sull'orlo di un precipizio: conviene allora ponderare, preventivare, calcolare, per quanto possibile, le eventuali conseguenze e modalità. Ci sono scelte importanti, senza appello, è vero. Ma, a ben vedere, ogni scelta, pur nella sua apparenza effimera e veniale, è in certo modo il passo di un non ritorno.
A volerla pensare malignamente, potrebbe addirittura scorgersi una contraddizione nell'argomentazione del filosofo (una contraddizione che, a mio parere, egli condivide comunque con tutta la temperie stoica): poco prima, egli aveva affermato che l'uomo è "naturalmente" portato al bene, quasi un monòlito etico; ora invece ci mostra, ci denuda, l'anima umana in tutta la sua remissione, in tutta la sua debolezza, in tutta la sua… fragilità [VII,3]. E' qui, per me, il vero Seneca, nella cinica pietà verso la fragilità umana, nella consapevolezza ineluttabile dell'ineluttabilità, nella consapevolezza di essere carne e sangue. Lui, non meno che un altro uomo.
Infine, l'esempio del corpo che cade mi richiama - per una sorta di "omofonia concettuale" - il "peso-che-dipende" del mio caro Carlo Michelstaedter. Due modi, simili - per quanto diversi, a seconda dei rispetti e dei contesti - di rendere, volendo, la metafora della vita umana, e l'incontrastata fatalità della morte, e del male [VII,4].


VII,1
Altra obiezione: "Benché l'ira non sia conforme alla natura umana, non conviene comunque incoraggiarla, visto che, spesso e volentieri, si è rivelata utile? Essa, infatti, rinfocola l'ardimento, gli porge pretesti: del resto, senza il suo aiuto, il coraggio, di per sé solo, non ardisce alcunché di glorioso, in battaglia; senza questa miccia e questo sprone, gli audaci diventano restii ai pericoli". Ragion per cui, secondo alcuni, la soluzione ottimale sarebbe di stemperarla, l'ira, piuttosto che rinunciarvi del tutto, ovvero - una volta emendata dei suoi eccessi nefasti - addomesticarla secondo una linea di condotta opportuna e vantaggiosa, preservandone il "nerbo", senza il quale la forza e la volontà d'agire sfumerebbero.

VII,2 A quest'opinione, rispondo che, in primo luogo, è più agevole sradicare del tutto il male, piuttosto che cercare di dominarlo; e che è altresì più agevole renderci ad esso refrattari, piuttosto che - avendo lasciato che s'impossessasse di noi - cercare poi di tenerne le redini; difatti, una volta che ha attecchito, il male diventa più potente dell'auriga, e non si lascia stornare o addomesticare.

VII,3 Del resto, la stessa ragione - ch'è la nostra auriga - mantiene il controllo fin quando non è insidiata dalle passioni; ma appena quelle la contaminano, non riesce più a frenare ciò che invece avrebbe potuto preventivamente respingere. La mente, infatti, una volta contaminata e scalzata dalle passioni, si sottomette docilmente al nuovo padrone.

VII,4 Certe situazioni siamo anche in grado di gestirle all'inizio, ma poi - a lungo andare - prendono il sopravvento, con un incalzare violento. Un percorso senza ritorno. Come quello dei corpi, che cadono a precipizio, necessitati dalla gravità, non liberi, non in grado di arrestarsi o di frenare, una volta in volo. L'inevitabile precipitare taglia fuori ogni proposito di ravvedimento: inesorabilmente si giunge laddove, prima, era possibile non andare.
Lo stesso succede per l'anima: se si butta a capofitto nell'ira, nell'amore o in qualsivoglia passione, non le riesce più di frenare la propria foga; la zavorra del vizio la grava, e, senza scampo, la trascina con sé verso il fondo.


notte 4-5 settembre 2002 - Trad. Bukowski


1. Numquid, quamuis non sit naturalis ira, adsumenda est, quia utilis saepe fuit? Extollit animos et incitat, nec quicquam sine illa magnificum in bello fortitudo gerit, nisi hinc flamma subdita est et hic stimulus peragitauit misitque in pericula audaces. Optimum itaque quidam putant temperare iram, non tollere, eoque detracto quod exundat ad salutarem modum cogere, id uero retinere sine quo languebit actio et uis ac uigor animi resoluetur.
2. Primum facilius est excludere perniciosa quam regere et non admittere quam admissa moderari; nam cum se in possessione posuerunt, potentiora rectore sunt nec recidi se minuiue patiuntur.
3. Deinde ratio ipsa, cui freni traduntur, tam diu potens est quam diu diducta est ab adfectibus; si miscuit se illis et inquinauit, non potest continere quos summouere potuisset. Commota enim semel et excussa mens ei seruit quo inpellitur.
4. Quarundam rerum initia in nostra potestate sunt, ulteriora nos ui sua rapiunt nec regressum relinquunt. Vt in praeceps datis corporibus nullum sui arbitrium est nec resistere morariue deiecta potuerunt, sed consilium omne et paenitentiam inreuocabilis praecipitatio abscidit et non licet eo non peruenire quo non ire licuisset, ita animus, si in iram amorem aliosque se proiecit adfectus, non permittitur reprimere impetum; rapiat illum oportet et ad imum agat pondus suum et uitiorum natura procliuis.


 
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