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Libro primo, paragrafo
nono.
I fili del discorso finora tenuto si annodano
in questo breve paragrafo, a suo modo, riassuntivo e perentorio:
si scolpiscono infatti - in modo chiaro, evidente e definitivo -
i parametri-chiave che caratterizzano l'ira: la sua insofferenza
ai limiti e al comando ["effrenata" e "idomita"]
[IX,3], il suo pretesto dettato dal capriccio e dalla violenza [IX,2]
- o per dir meglio, legando l'endiadi: dalla violenza gratuita -
la sua conseguente natura perniciosa e controproduttiva [IX,3].
Parametri, a loro volta, sussumibili nell'appellativo che più
le si addice: la "contumacia" [IX,2], ovvero l'ostinazione
ribelle, come mi pare sia opportuno tradurre.
Queste considerazioni azzerano le posizioni contrarie, qui riassunte
nell'affermazione di Aristotele, l'avversario eletto, a riguardo
- lo sappiamo - della necessità dell'ira, soprattutto in
battaglia, e dell'opportunità, comunque, di porle un freno,
ovvero di incanalarla secondo un utile scopo ed efficiente risultato.
Eventualità, secondo Seneca, remota, anzi "falsa",
per le ragioni suddette. E proprio l'ulteriore riferimento al campo
di battaglia dà modo al filosofo di spiegarsi con più
efficacia: l'ira non è uno strumento o una consigliera [minister]
affidabile, né tantomeno può assumere efficaci posizioni
di comando. Il comando, il potere, comportano, infatti, responsabilità
innanzitutto e, poi, consapevolezza della propria forza e delle
circostanze in cui dispiegarla.
Queste buone qualità appartengono, piuttosto, alla virtù
[IX,1], la quale - proprio in quanto ha in sé, in potenza,
la possibilità di un vantaggio, di un vero vantaggio per
l'uomo - è a sé bastevole, autosufficiente [posizione,
come si sa, tipicamente stoica].
Non si pensi, perciò, alla virtù come ad una disposizione
remissiva e "femminile": essa è capace di sdegno,
di forza dirompente, di severità: "concitatur",
dice Seneca; e non può non venire in mente lo sdegno, la
forza e la severità di Cristo, nel tempio infestato dai mercanti.
Proprio lui, il Misericordioso. Chi scrive è personalmente
ateo, ma non può non riconoscere proprio nel Cristo - nel
Cristo di S. Matteo, soprattutto - la prosopopea della virtù
come forza e insieme come perdòno e letizia.
Perché la virtù è come il proiettile: segue
fedelmente l'indirizzo che la ragione le traccia, decisa nel momento
dell'abbrivo, quieta una volta che abbia colto il bersaglio; ed
è come un buon soldato: sa quando è tempo di ubbidire,
e di rimettersi ad una volontà superiore, anche quando questa
gl'ingiunge una temporanea ritirata [IX,2 e 4].
IX,1 Insomma: l'ira non possiede, in sé, alcuna
utilità, né tantomeno infonde coraggio in battaglia;
la virtù, che ha in sé il suo fine e il suo soddisfacimento,
non ha bisogno, infatti, del sostegno di un impulso malvagio. Ogni
qual volta si renda necessaria una risoluzione di forza, essa non
cade nell'ira, bensì si potenzia e - nei limiti che le si
addicono - s'infiamma e quindi si placa; non diversamente rispetto
a quanto accade per i proiettili, che - lanciati dalle macchine
da guerra - rispondono al potere di chi appunto li sferra, in quanto
alla portata e direzione di tiro.
IX,2 Ma Aristotele afferma [nell'Etica
Nicomachea, ad es.; ndt]: "L'ira è necessaria;
senza il suo apporto - senza che essa invasi l'anima e infiammi
il coraggio - non è possibile affatto affrontare alcuna battaglia;
ma bisogna farne uso opportuno, ponendola al nostro servizio e non
viceversa".
Affermazione falsa. Infatti, se l'ira dà ascolto alla ragione
e si lascia docilmente instradare, allora non è ira, dato
che la sua caratteristica peculiare è, al contrario, l'ostinazione
ribelle. Se, invece, scalcia, non si lascia addomesticare, e appunto
prosegue ostinata per la sua strada, sull'impulso del capriccio
e della violenza, è per l'animo un inutile strumento, almeno
quanto un soldato che ignori un comando di ritirata.
IX,3 E allora, se lascia che
le si imponga una misura, dev'esser detta con altro nome: non è
più ira, almeno come io la intendo: sfrenata e mai doma.
Se, al contrario, alla misura è insofferente, dev'esser considerata
per quella che è: un impulso pernicioso e controproduttivo.
In breve: o non è ira, o risulta inutile.
IX,4 Infatti, se qualcuno esige
una punizione - non perché punire gli piaccia, ma perché
è suo dovere - ebbene costui non bisogna annoverarlo tra
gli irati. Un soldato risulterà effettivamente utile solo
quando sa piegarsi a un comando; le passioni, al contrario, sono
tanto cattive inservienti quanto pessime condottiere.
notte 22-23 settembre
2002 - Trad. Bukowski
1.
Deinde nihil habet in se utile nec acuit animum ad res bellicas;
numquam enim uirtus uitio adiuuanda est se contenta. Quotiens
impetu opus est, non irascitur sed exsurgit et in quantum putauit
opus esse concitatur remittiturque, non aliter quam quae tormentis
exprimuntur tela in potestate mittentis sunt in quantum torqueantur.
2. 'Ira' inquit Aristoteles 'necessaria est, nec quicquam sine
illa expugnari potest, nisi illa inplet animum et spiritum accendit;
utendum autem illa est non ut duce sed ut milite.' Quod est falsum;
nam si exaudit rationem sequiturque qua ducitur, iam non est ira,
cuius proprium est contumacia; si uero repugnat et non ubi iussa
est quiescit sed libidine ferociaque prouehitur, tam inutilis
animi minister est quam miles qui signum receptui neglegit.
3. Itaque si modum adhiberi sibi patitur, alio nomine appellanda
est, desit ira esse, quam effrenatam indomitamque intellego; si
non patitur, perniciosa est nec inter auxilia numeranda: ita aut
ira non est aut inutilis est.
4. Nam si quis poenam exigit non ipsius poenae auidus sed quia
oportet, non est adnumerandus iratis. Hic erit utilis miles qui
scit parere consilio; adfectus quidem tam mali ministri quam duces
sunt.
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