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Libro primo, paragrafo
sesto.
In questo paragrafo, la posizione di Seneca
si fa - se ce ne fosse bisogno - esplicita, ed assurge ad evidenza
razionale, di ragionamento dialettico (e l'accenno a Platone non
è un caso): l'ira non è conforme alla natura umana
[VI,5]; una conclusione, questa, già definitiva, che scaturisce
da una "etica logica" - se ci è lecito definirla
così [ma cfr. la fine di questa intr.] - lapalissiana: la
natura umana non è incline al punire; ne consegue che neanche
l'ira - proprio perché essa è invece desiderio di
punire - è consona alla natura umana [VI,4].
Tuttavia, ciò non vuol dire - puntualizza il filosofo - che
la punizione sia sempre e comunque una soluzione sbagliata: ci sono
delle punizioni "correttive" ed "educative",
passibili dell'approvazione del "saggio". Per garantire
estrema chiarezza a queste eccezioni, Seneca le illumina con tre
esempi tratti dalla vita reale: nel caso dei pali deformati, per
raddrizzarli, conviene sottoporli alla fucina, e quindi renderli
malleabili [VI,1]; per guarire da gravi malattie ci sottoponiamo
anche a cure drastiche, che all'apparenza recano scombussolamento
al nostro fisico ed al nostro spirito, mentre in verità sono
volte a restituirci la salute [VI,2]; nel caso della vita politica,
le disposizioni dell'autorità legislativa ed esecutiva saranno
proporzionali alla gravità delle colpe e delle situazioni
[VI,3], per il bene del cittadino.
Questo argomentare "per modelli" è, anch'esso,
volendo, un procedimento tipico di Socrate-Platone [cfr. il Politico,
ad es.], e non solo, ovviamente; quel che c'interessa, tuttavia,
è la simmetria che proprio nel Politico viene ad evidenziarsi
tra la medicina e l'arte politica [297 E - 300 C]. Simmetria che,
puntellando medesime cadenze tra le due "arti", Seneca
riproduce in questo paragrafo: con un'unica, stupefacente, differenza:
che mentre il medico procura una morte indolore a coloro i quali
non riuscì a salvare, il politico invece strappa alla vita
i condannati, sottoponendoli al pubblico disonore e vilipendio [VI,4].
Seneca - l'illuminato contestatore della schiavitù - ci lascia
esterrefatti, quando "giustifica" (con argomentazione
che, facendo un gran balzo storico geografico e concettuale, potremmo
non a torto dire tipicamente "americana") la necessità
della pena capitale, massima cura e massimo monito sia per colui
che crepa, sia per coloro che rimangono su questa terra.
Ma perché stupirsi, poi? Qui si fa semplicemente scoperta
quella che, a mio parere, è la vera motivazione della speculazione
senecana: la motivazione politica. E' la politica il termine ultimo
cui il filosofo mira già solo in questo paragrafo, e in tutta
la sua opera in assoluto. Ne è mera riprova l'escalation
concettuale (dalla "giusta" battitura del ferro alla giusta
punizione di un uomo) e l'indugiare, anche qui, e in modo non proprio
nascosto, nel suo benamato ruolo di consigliere dello Stato e dell'imperatore:
come modulare la "demagogia" [ho voluto rendere e intendere
con questo termine moderno la circonlocuzione del filosofo, equivalente
nei fatti], come partizionare e somministrare adeguatamente punizioni,
vere e proprie medicine sociali. Un riassunto di "clemenza",
con un'eccezione paradossalmente non contraddittoria: la pena di
morte, il rimedio drastico preso a vantaggio dello Stato, o meglio
- come si direbbe in epoca moderna - della "ragion di Stato".
Un pensiero che tolleri, e addirittura giustifichi, la soppressione
di una vita, non è etica, ma politica. Ne conviene - utilizzando
anche noi il sillogisma - che quella di Seneca non è etica,
ma politica. Una spregiudicata politica dal volto umano.
VI,1 "Ciò
vuol dire, dunque, che la punizione non è necessaria in alcun
caso?" si obietterà.
Nient'affatto, rispondo. A condizione, però, ch'essa non
sia dettata dall'ira, bensì segua una motivazione razionale,
tale da non recare nocumento, ma, al contrario, vantaggio e correzione,
pur se sotto la parvenza del nuocere.
Un po' come succede con le barre di metallo deformate: le rendiamo
incandescenti per raddrizzarle e, con l'ausilio di puntelli opportunamente
conficcati, diamo di scalpello, non certo per romperle, bensì
per riforgiarle. Allo stesso modo, raddrizziamo le corrotte disposizioni
degl'individui, infliggendo loro punizioni fisiche e morali.
VI,2 Altra analogia: il medico.
Costui, quando si tratta di curare malesseri passeggeri o di poco
conto, cerca - come primo rimedio - di ritoccare la dieta e riorganizzare
l'attività fisica del malato - e dunque di rinforzarne la
tempra con queste piccole, nuove disposizioni, ma senza alterarne
eccessivamente il normale bioritmo.
Generalmente, il rimedio funziona. Altrimenti, il medico passa a
cure più drastiche, prescrivendo nuove restrizioni; e se
il risultato è ancora insoddisfacente, ci prescrive digiuno
e astinenza assolute, affinché l'organismo si purifichi.
Ma se questa terapia, ancora "sintomatologica" [intendo:
che agisce soltanto sui sintomi, e dunque è "mollior";
ndt], non sortisce effetto, incide la vena per il salasso
ed opera direttamente sulle membra che infettano, per contatto,
quelle circostanti.
Nessuna cura, in quanto tale - cioè foriera di buona salute,
appare eccessiva da sopportare.
VI,3 Secondo la stessa cadenza,
è opportuno che l'autorità legislativa ed esecutiva
operi, innanzitutto e il più a lungo possibile, una demagogia
sottile e benevola, volta ad instillare, nei cittadini, il senso
del dovere, il desiderio dell'onestà e della giustizia, il
disprezzo per i vizi e l'apprezzamento per le virtù.
In un secondo momento, passi ad una demagogia più severa,
fatta di moniti e rimproveri; infine, ricorra alle punizioni, ma
non sproporzionate alla colpa, e condonabili. Sancisca la pena capitale
per i reati che effettivamente la meritano; ovvero, sia condannato
a morte colui per il quale la morte rappresenti l'unica cura.
VI,4 Qui sta la vera differenza
tra il buon politico e i buoni medici: mentre questi ultimi procurano
una morte indolore a coloro i quali non son riusciti a mantenere
in vita, quello invece strappa alla vita i condannati, sottoponendoli
al pubblico disonore e vilipendio; e non perché tragga piacere
dalla punizione di qualcuno - alla natura del saggio è aliena,
infatti, una tale, disumana, crudeltà - ma perché
i puniti in siffatto modo valgano da monito per tutti e perché,
se essi - da vivi - non hanno arrecato alcun vantaggio al prossimo,
ora, almeno, si rendono utili - con la loro morte - allo Stato.
Per concludere: la natura umana non è incline al punire;
ne consegue che neanche l'ira - proprio perché essa è
invece desiderio di punire - è consona alla natura umana.
VI,5 A tal proposito, riporto
un'argomentazione platonica (che male c'è, del resto, a citare
qualcosa d'altri per corroborare una nostra tesi?): "L'uomo
buono - egli dice - non fa del male" [cfr.
Rep. 335 D, ad es.; ndt]. Ora, punire significa appunto fare
del male. E dunque: all'uomo buono non si addice il punire, e quindi
neanche l'ira, dato che l'ira e il punire si comportano a vicenda.
In altre parole: se l'uomo buono non trae godimento dalla punizione,
egli non godrà altresì neanche di quella passione
bramosa di punire. La conclusione è che l'ira non è
conforme alla natura umana [essendo l'uomo
"naturalmente" portato al bene e l'ira, invece, una passione
volta al male: cfr. par. V et supra; ndt].
notte 27-28 agosto 2002
- Trad. Bukowski
1.
'Quid ergo? non aliquando castigatio necessaria est?' Quidni?
sed haec sine ira, cum ratione; non enim nocet sed medetur specie
nocendi. Quemadmodum quaedam hastilia detorta ut corrigamus adurimus
et adactis cuneis, non ut frangamus sed ut explicemus, elidimus,
sic ingenia uitio praua dolore corporis animique corrigimus.
2. Nempe medicus primo in leuibus uitiis temptat non multum ex
cotidiana consuetudine inflectere et cibis potionibus exercitationibus
ordinem inponere ac ualetudinem tantum mutata uitae dispositione
firmare. Proximum est ut modus proficiat. Si modus et ordo non
proficit, subducit aliqua et circumcidit; si ne adhoc quidem respondet,
interdicit cibis et abstinentia corpus exonerat; si frustra molliora
cesserunt, ferit uenam membrisque, si adhaerentia nocent et morbum
diffundunt, manus adfert; nec ulla dura uidetur curatio cuius
salutaris effectus est.
3. Ita legum praesidem ciuitatisque rectorem decet, quam diu potest,
uerbis et his mollioribus ingenia curare, ut facienda suadeat
cupiditatemque honesti et aequi conciliet animis faciatque uitiorum
odium, pretium uirtutium; transeat deinde ad tristiorem orationem,
qua moneat adhuc et exprobret; nouissime ad poenas et has adhuc
leues, reuocabiles decurrat; ultima supplicia sceleribus ultimis
ponat, ut nemo pereat nisi quem perire etiam pereuntis intersit.
4. Hoc uno medentibus erit dissimilis, quod illi quibus uitam
non potuerunt largiri facilem exitum praestant, hic damnatos cum
dedecore et traductione uita exigit, non quia delectetur ullius
poena -- procul est enim a sapiente tam inhumana feritas -- sed
ut documentum omnium sint, et quia uiui noluerunt prodesse, morte
certe eorum res publica utatur.
Non est ergo natura hominis poenae adpetens; ideo ne ira quidem
secundum naturam hominis, quia poenae adpetens est. 5. Et Platonis
argumentum adferam -- quid enim nocet alienis uti ea parte qua
nostra sunt? 'Vir bonus' inquit 'non laedit.' Poena laedit; bono
ergo poena non conuenit, ob hoc nec ira, quia poena irae conuenit.
Si uir bonus poena non gaudet, non gaudebit ne eo quidem adfectu
cui poena uoluptati est; ergo non est naturalis ira.
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