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Gaio Lucilio

--- Sessa Aurunca, Campania/Lazio 148/7 o 180? – 102/1 a.C ---

 

Vita.

Di origini nobili (apparteneva all'ordine equestre), L. fu tra i primi romani ad affrontare il viaggio in Grecia per farsi una cultura filosofica, e sicuramente fu il primo letterato di buona famiglia a condurre una vita da scrittore, volontariamente appartata dalle cariche pubbliche.

La sua biografia è segnata dall'incontro con gli Scipioni: fu compagno di Scipione Emiliano in Spagna, nel l33, in occasione della guerra di Numanzia. Poco dopo, giovanissimo, esordiva come poeta, riprendendo il genere della "satira". Divenuto adulto, saranno proprio i grandi personaggi del partito scipionico a proteggerlo: per le sue origini aristocratiche, i suoi rapporti, l'ambiente in cui viveva, L. fu infatti spinto a prendere partito nelle lotte politiche, e lo fece con vivacità e persino con violenza, in specie (ad es.) contro le riforme graccane. Praticamente quasi nulla si sa, invece, del periodo più tardo della sua vita.

Opera.

Di L. abbiamo esclusivamente "Satire" (egli stesso le chiama "poemata" o anche "ludus ac sermones", poesie scherzose), in 30 libri, di cui ci restano 1300 frammenti ca. Furono raccolte ed ordinate con criterio metrico: l’autore aveva pubblicato progressivamente i libri XXVI-XXX, contenenti le satire in settenari trocaici e senari giambici e, verso la fine, in esametri dattilici; i libri I-XXI, in esametri (forse sua ultima e definitiva scelta); i libri XXII-XXV, nei quali pare prevalesse il verso elegiaco (sono stati aggiunti al corpus postumi).

Le satire luciliane, che pur hanno carattere perlopiù estemporaneo e molto "personale", possono comunque essere "organizzate" - come già suggeriva Orazio - attorno ad almeno tre motivi o temi fondamentali:

- l'autobiografismo (il libro III, ad es., descriveva i mille piccoli incidenti di un viaggio in Sicilia, compiuto nel 126; il XXI, un banchetto in casa del banditore Granio; il libro XVI era infine dedicato all'amore per una donna di nome Collyra, e forse non solo per lei);

- la polemica politica (il I libro, ad es., conteneva un concilio degli dèi contro il senatore Lupo, considerato il principale responsabile della corruzione di Roma, e perciò denigrato e condannato a morte; il II si scagliava contro Tito Albucio e le sue manie grecizzanti) e letteraria (il libro XXVI, ad es., è contro coloro che professano una cultura priva di impegno sociale e lontana dalla realtà: non mancano spunti parodistici e polemici nei confronti di Ennio e Nevio, nonché dei coevi Accio e Pacuvio; nel libro IX venivano anche dibattuti, e con notevole competenza, problemi di grammatica e di retorica);

- la condanna dei vizi umani (nei libri IV, V, IX, ad es., L. condannava la degenerazione dei costumi della nobiltà romana ellenizzante, contrapponendole il proprio ideale stoico di virtù).

Dei libri XXII-XXV, infine, si ignora quasi tutto, ma si suppone che in essi predominasse, forse non solo nella forma metrica, il carattere elegiaco.

Considerazioni.

Padre della satira. L., dunque, si dedicò esclusivamente alla satira [per un'analisi del termine e dell'origine di questo genere letterario, rimando all'omonimo paragrafo contenuto nel capitolo sul "teatro romano"], trattandola inizialmente, come già aveva fatto Ennio, in versi trocaici e giambici, i versi dei generi drammatici; in seguito, nell'ultima parte della sua produzione (quella che, nella raccolta pubblicata, forma appunto i primi 20 libri), userà - come detto - solo l'esametro, creando in tal modo la forma definitiva della satira, poema "ragionato", più narrativo e meditativo che drammatico, col tempo sempre più mordace e castigatore, avviato comunque verso quell'ordine formale definitivo che troverà la sua apoteosi in Orazio, Persio e Giovenale. Sotto questo rispetto, egli fu - da subito - non a torto considerato il vero "padre" di questo genere, sebbene già gli stessi Ennio e Nevio vi ci fossero cimentati.

Il realismo e la "virtus". Il realismo, il gusto dell'aneddoto che ritroviamo nelle arti plastiche romane, l'interesse per i paesaggi, gli oggetti, i dettagli dell'esistenza reale e quotidiana, tutto ciò traspare nei frammenti rimasti, e va a delineare una tradizione.

Conservatore moderato ma oculato, a suo modo aperto alle influenze elleniche (in particolare, i commediografi greci e la filosofia stoica neoaccademica), L. resta partigiano convinto dei valori romani tradizionali (ma per lui l'autentica "virtus" è incarnata esclusivamente negli aristocratici e soprattutto negli Scipioni), pur senza essere schiavo dei pregiudizi e della grettezza della generazione precedente: in un celebre passo, ad es., proclama che il primo posto si deve dare alla patria, il secondo ai componenti della propria famiglia, e solo il terzo a se stessi, il che significa, in questa morale della saggezza, subordinare la propria felicità a quella degli altri.

Insomma, con lui vediamo come la mentalità romana, quanto meno nell'élite cittadina, abbia superato quella crisi testimoniata dall'opera di Terenzio, proseguendo con successo la sintesi di cultura ellenica e tradizione nazionale.

Lo stile. Infine, dal punto di vista stilistico, la poesia di L. si apre davvero in tutte le direzioni: impasto dei più vari registri linguistici (arriva fino al dialetto e non disdegna neanche la scurrilità), con l'utilizzo talora di inauditi termini tecnici e retorici, il suo stile è stato da alcuni critici definito addirittura "scapigliato": <<non fa meraviglia che [il nostro autore] metta in versi i discorsi uditi nel foro, nei mercati, nei porti e negli accampamenti militari, senza preoccupazioni di dignità e senza sussiego>> [F. Della Corte]. Una lingua, dunque, a suo modo "mimetica", anch'essa elemento non imprenscindibile nell'atmosfera generalizzata di <<ribellione a un mondo che moralmente egli disapprovava>>.


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