Vita.
Pupillo degli Scipioni. Sulla vita di T.
abbiamo una biografia risalente a Svetonio: a questa attinse Donato,
che la premise al suo commento delle commedie del nostro autore.
Notizie biografiche, poi, si possono ricavare anche dai prologhi
delle commedie stesse.
La sua vita si inserisce praticamente nel periodo
di tempo compreso tra la fine della II guerra punica (201 a.C.)
e l'inizio della III (149 a.C.) e si lega strettamente con la vicenda
politica e culturale romana di quegli anni.
T. giunse a Roma come schiavo del senatore T. Lucano,
dal quale fu affrancato "ob ingenium et formam" ("per ingegno
e bellezza"); divenne intimo di Scipione Emiliano e di Gaio Lelio,
entrando quindi a far parte dell’entourage scipionico, del cui ideale
di "humanitas" egli si fa portavoce.
Maldicenze sulla vera paternità delle
commedie. Questa sua posizione di prestigio suscitò però
l’invidia dei suoi contemporanei, soprattutto degli altri letterati.
Sul conto di T., sorsero così calunnie e pettegolezzi: lo
si accusava di plagio e di essere addirittura un prestanome dei
suoi importanti protettori, i veri effettivi autori delle sue commedie
(era, infatti, considerato disdicevole per un "civis Romanus",
impegnato politicamente, dedicare il proprio tempo alla composizione
di commedie; le uniche attività che erano lui concesse coltivare
erano l’oratoria o la storiografia) [per la questione sull'autenticità,
vd. oltre]. Da questa accusa, come vedremo, T. si difende nel prologo
della sua ultima commedia, l’"Adelphoe".
Amarezza per l'insuccesso, viaggio in Grecia,
morte. Amareggiato dal complessivo insuccesso della sua produzione
[per cui, vd. oltre], ma anche evidentemente per diletto e soprattutto
per studiare in loco istituzioni e costumi greci da ritrarre
nelle sue opere, T. lasciò Roma nel 160 a.C. e volle fare
un viaggio in Grecia e in Asia Minore, da cui però non fece
più ritorno. Morì qualche anno più tardi, o
a causa di una malattia, o a causa di un naufragio, oppure per il
dolore procuratogli dalla perdita dei bagagli che contenevano molte
commedie che aveva tradotto da originali menandrei reperiti in Grecia.
Opere: titoli e rappresentazioni.
Di T. ci sono pervenute, integralmente, 6 commedie
palliate (cioè d'ambientazione greca), composte e rappresentate
a Roma, di cui si conoscono, tramite le "didascalie", l'anno e l'occasione
del primo allestimento.
T. esordì nel 166 a.C. con una commedia,
l’ "Andria" ("La ragazza dell’isola di Andro"). Nel 165,
fece rappresentare una seconda commedia, l’ "Hecyra" ("La
suocera"): il pubblico, dopo le prime scene, abbandonò il
teatro, preferendo assistere ad una contemporanea manifestazione
di pugili e funamboli; fu un fiasco clamoroso. Nel 163, fece rappresentare
l’ "Heautontimorumenos" ("Il punitore di se stesso"). Nel
169 furono, invece, rappresentate ben 2 commedie: l’ "Eunuchus"
("L'eunuco") e il "Phormio" ("Formione"). L’ "Eunucus" fu
il più grande successo di T., perché è la sua
commedia più simile alla comicità plautina. Nel 160,
infine, durante i giochi funebri per celebrare la morte di Lucio
Emilio Paolo, padre di Scipione Emiliano, T. fece rappresentare
la sua ultima commedia, l’ "Adelphoe" ("I fratelli"); nella
stessa occasione tentò una seconda rappresentazione dell’
"Hecyra", ma anche questa volta il pubblico abbandonò il
teatro, preferendo i gladiatori. Una terza rappresentazione avvenne
durante i "Ludi Romani" dello stesso anno e, finalmente, durò
dall’inizio alla fine: il pubblico rimase in teatro grazie alla
presenza di Ambivio Turpione, attore molto celebre di quel tempo.
Le commedie: contenuti, strutture, considerazioni e modelli.
Andria. Trama. Una tormentata storia d'amore
è l'elemento che determina il contrasto tra Simione e il
figlio Pànfilo e muove l'intera vicenda: il padre, venuto
a sapere che il figlio ama, ricambiato, una ragazza dell'isola di
Andro, Glicerio, sorella di una cortigiana, si oppone alle nozze
e si accorda con l'amico e vicino Cremète per far sposare
al giovane una figlia di questi, Filùmena. La situazione
viene risolta grazie all'intervento di Davo, servo di Pànfilo,
e la scoperta che Glicerio in realtà è una figlia
proprio di Cremète rapita in tenera età. La vicenda
si conclude con un doppio matrimonio: Pànfilo sposa la sua
amata Glicerio e il suo amico Carino sposa Filùmena.
Considerazioni e modelli. Tema di fondo
della commedia è il conflitto generazionale e caratteriale
tra padre e figlio, che coinvolge complessi e profondi valori umani:
ben delineati, a tal proposito, sono i caratteri, soprattutto quelli
dei giovani, che rispecchiano - persino nella vita facile e leggera
- quell'ideale di moralità e di compostezza tipici del teatro
terenziano. Ma questo tema serio si mescola a (pallidi) elementi
più tradizionali, tesi a rendere più vivo e interessante
l'intreccio: l'amore contrastato, l' "agnizione" (= riconoscimento)
finale, il servo "callidus". Deriva dalla "contaminatio"
[per il qual termine, vd. oltre] di due commedie di Menandro: "Andria"
e "Perinthia".
Hecyra. Trama. Il protagonista di questa
commedia è il giovane Pànfilo, combattuto tra l'amore
per Bacchide, una cortigiana, e il volere del proprio padre, che
lo costringe invece a sposare (senza amore) Filùmena, una
ragazza perbene: il protagonista si rifiuta di avere rapporti intimi
con la moglie, scaricando su di lei le sue delusioni; quella, da
parte sua, accetta con rassegnazione ed umiltà i torti del
marito il quale, dopo averla conosciuta meglio e confrontata con
le altre donne, impara però ad apprezzarne il pudore: dalla
stima, così, nasce pian piano l’amore, o comunque un sentimento
che si rivela più profondo dell’attrazione per Bacchide.
Ad un certo punto, però, Pànfilo parte per un viaggio
di affari; la moglie lascia improvvisamente la casa del marito,
dove viveva con la suocera Sostrata, e torna a vivere dai genitori.
Nessuno sa con precisione le cause di questo allontanamento: le
dicerie della gente riferiscono che esse sono dovute ai conflitti
proprio con la suocera. Sostrata, da parte sua, si confessa innocente
e in un monologo lungo e toccante si dichiara vittima dei pregiudizi
che vogliono tutte le suocere ostili alle proprie nuore. Intanto,
ritorna Pànfilo dal viaggio e viene informato dell’accaduto;
si reca a casa dei genitori della moglie per constatare di persona
le condizioni e le motivazioni di Filùmena. Lì, egli
scopre la verità: la moglie ha lasciato la casa perché
sta per partorire un figlio non di lui, ma che è stato concepito
prima del matrimonio, frutto di una violenza notturna subita durante
una festa, ad opera di uno sconosciuto. In un monologo lungo e patetico,
Pànfilo rivela al pubblico questa verità e mette a
nudo i suoi sentimenti, il conflitto che si agita in lui fra amore
e pudore: sa che la sua vita senza la moglie sarà una vita
vuota, però sa paritempo che l’onore e la società
lo costringono a separarsi dalla moglie e a non considerare come
suo l’ "alienus puer". Pànfilo non rivela però
il vero motivo per cui divorzia, per non compromettere il buon nome
di Filùmena. I due suoceri, all’oscuro della verità,
pensano allora che egli voglia ancora Bacchide e che abbia ripreso
la relazione con lei. Vanno a parlare con Bacchide, che rivela ai
due che non ha più rapporti con Pànfilo dal giorno
del matrimonio. Pur essendo una cortigiana, ella quindi accetta
un compito arduo ed onorevole: andare da Filùmena per dirle
che Pànfilo la ama. Durante l'incontro, la madre della ripudiata
nota al dito della cortigiana un anello che apparteneva alla figlia,
e che a Filùmena era stato strappato, la notte del misfatto,
dal giovane ubriaco che l'aveva compromessa. Bacchide rivela che
l’anello le era stato in effetti regalato da Pànfilo: il
giovane stupratore era quindi lo stesso Pànfilo. La commedia
si conclude con il ristabilimento dell’unione, che una serie di
equivoci aveva minato.
Considerazioni e modelli. Nonostante l'intreccio
complicato (come appare anche dalla lunghezza del riassunto sopra)
e la presenza del colpo di scena finale, la commedia presenta due
"interni di famiglia" ed è quasi interamente "stataria"
[per il termine, vd. oltre]. Questa caratteristica le viene certamente
dai delicati temi su cui s'impernia: il senso della famiglia (la
"patria potestas") e il decoro sociale ("decorum");
temi che, più che all'azione stessa, concedono spazio all'espressione
di aspirazioni, desideri nascosti e dinamiche (dialogate) interpersonali.
Profonda e caratteristica è anche l'analisi
dei personaggi: Pànfilo, ad es., risulta un giovane perennemente
tormentato e patetico, in perenne conflitto fra amore e pudore,
e spesso rende direttamente partecipe anche il pubblico di questo
suo dramma intimo e "sociale"; Bacchide è, poi, uno dei personaggi
più peculiari del teatro di T.: si contrappone allo stereotipo
della cortigiana, agendo addirittura contro i propri interessi,
perché sinceramente affezionata a Pànfilo e desiderosa
della sua felicità.
E' evidente che T. ha scritto questa commedia senza
la schietta intenzione di "risum movere", bensì col
proposito di creare un dramma pieno di affetti, tipico di un teatro
fondamentalmente familiare e borghese. Se essa è poco piaciuta
ai contemporanei, proprio per questi stessi motivi è ritenuta
- dai critici odierni - la più moderna ed innovatrice.
Heautontimorumenos. Trama. Protagonista
della commedia è un vecchio genitore, Meneremo, che con la
sua severità ha costretto il proprio figlio Clinia a lasciare
la sua città e ad arruolarsi come soldato (pur di separarlo
da Antìfila, una ragazza onesta ma povera), iniziando così
una vita di pericoli e di disagi. Dopo essersi reso conto di ciò
che ha fatto, il genitore si pente e decide di autopunirsi: vende
tutti i suoi beni e si ritira in campagna, sottoponendosi a lavori
massacranti. Un altro anziano, Cremète, che ha un campo vicino
al suo, nota il comportamento del vecchio e lo invita ad aprirsi
con lui, a confidarsi (è proprio Cremète a pronunciare
il famoso "homo sum humani nihil a me alienum puto"), contribuendo
così al suo "cambiamento" caratteriale.
Quando allora Clinia, dopo una serie di peripezie,
riesce a tornare in città, Meneremo lo accoglie a braccia
aperte, sinceramente commosso e pentito. Non solo. Il giovane alla
fine può sposare anche l'amata Antìfila, riconosciuta
nel frattempo come figlia di Cremète.
Considerazioni e modelli. In questa commedia,
si affaccia nuovamente il problema pedagogico del rapporto fra genitori
e figli: si spiega, in questo modo, il grande rilievo dato all'elemento
profondo, ma scenicamente "statico", del dramma interiore di Meneremo,
a scapito dell'azione teatrale e degli elementi tipici della comicità
tradizionale. E', insomma, una commedia quasi interamente "stataria"
e "di carattere", basata cioè sullo studio dei caratteri,
disegnati con grande sapienza e sottigliezza psicologica, soprattutto
per quanto riguarda i due protagonisti anziani. In particolare,
attraverso la figura di Meneremo, e la sua "redenzione", T. vuole
porre in rilievo pregi e difetti di una società moralisticamente
interpretata, secondo il modello menandreo. E proprio dall'omonima
commedia di Menandro quest'opera è tratta.
Eunuchus. Trama. Il giovane Cherea
si traveste da eunuco per sedurre una giovane e bella schiava, che
la cortigiana Taide ha avuto in dono dallo smargiasso miles
Trasone. La schiava si rivela in realtà di nascita libera
e il lieto fine è assicurato, con nozze riparatrici.
Considerazioni e modelli. Questa commedia
ripropone il tema del travestimento e degl'inganni d'amore e, come
già accennato, segna il ritorno di T. ad una comicità
di tipo plautino (cosa che decreta il suo successo), giocata su
ingredienti più "convenzionali", quali la vivacità
dell'azione e la ricomparsa di personaggi noti e cari al pubblico
romano (il parassita, il soldato innamorato, la cortigiana sfacciata,
i complici "adulescentes", e così via), seppure con
tratti più misurati e più "malinconici" di quelli
di Plauto. Anche l'intreccio, nella sua semplicità, è
scenicamente più movimentato, e puntellato da frequenti momenti
di schietta comicità (anche se forse è più
esatto parlare di forte "ironia"): questa è, insomma, la
commedia meno "stataria" di T. .
Essa è il risultato della "contaminatio"
di due commedie menandree, l' "Eunuchus" e il "Colax" ("L'adulatore").
Phormio. Trama. Durante l'assenza dei rispettivi
padri, che sono i due fratelli Cremète e Demifone, i due
giovani Fedria e Antifonte sono affidati alle cure del servo Geta:
i problemi iniziano quando i due giovani s'innamorano e Geta, per
risolvere le loro intricate questioni amorose, si rivolge appunto
a Formione ("Phormio"), avido e scaltro parassita, che riesce però
a portare a buon fine le vicende, facendo leva su cavilli giuridici
di legislazione matrimoniale.
Considerazioni e modelli. Come si evince
dalla trama, la commedia prende il titolo dal nome di un personaggio,
un parassita, che compare in scena tardi e vi rimane complessivamente
poco: tuttavia, egli è indirettamente sempre presente in
quanto è il motore dell'intera vicenda, ovvero è l'autore
dell'intrigo su cui quella si fonda.
Anche qui, poi, si affaccia il tema del contrasto
generazionale: esso avviene tra le due coppie genitori-figli, che
formano quasi due blocchi simmetricamente contrapposti, con funzione
di protagonisti e con una prevalenza dello spazio e dell'importanza
dei padri a confronto dei figli sulla scena (contrariamente a quanto
avveniva in Plauto e a quanto avviene nell' "Eunuchus"). Parallelamente
e accanto a queste coppie (veri e propri personaggi "doppi"), si
delineano i protagonisti "singoli": Geta e Formione vivono della
loro individualità e della loro "singolare" (in tutti i sensi)
capacità d'infrangere gli equilibri codificati, per trasformare
le realtà ed adattarla ai propri desideri; ma più
degli schiavi truffaldini di Plauto, essi (e soprattutto Formione)
agiscono all'interno del "sistema" utilizzando le sue "falle" (i
cavilli delle sue leggi) per irretire alcuni a vantaggio di altri
e di se stessi.
La commedia è tratta dall' "Epidicazòmenos"
("Quello che rivendica"), di Apollonio di Caristo.
Adelphoe. Trama. Di questa commedia, sono
protagonisti due fratelli, Demea e Micione. Il primo è un
uomo all’antica, rigido e austero che ha due figli: uno dei due,
Ctesifòne, lo educa personalmente secondo i sistemi tradizionali,
l’altro, invece, Eschino, lo affida al fratello Micione, che, scapolo,
vive in città e ha idee piuttosto moderne: è padre
per libera scelta e decide quindi di educare il figlio adottivo
con indulgenza e liberalità. Secondo lui i giovani devono
instaurare un rapporto basato sul dialogo con i genitori: non bisogna
costringerli a fare il bene solo per paura di una punizione, ma
per una scelta personale.
Proprio Ctesifòne tradisce ogni speranza
del padre e ne combina di tutti i colori, anche con l'aiuto del
fratello, che gli fa conoscere la citarista Bacchide. Alla fine,
il vecchio padre riconosce d'aver sbagliato ed accorda al figlio
tutta la libertà che prima gli aveva negato.
Considerazioni e modelli. L'azione drammatica,
molto semplice, è fondata prevalentemente sul contrasto dei
caratteri (che sono contrapposti, anche qui come nel "Phormio",
a due a due) e tra le due forme di educazione: quella "tradizionale"
di Demea e quella "liberale" di Micione.
La commedia deriva dall'omonima di Menandro, con
l'inserimento di una scena dei "Synapothnéscontes" ("I commorienti",
ovvero "La morte comune") del greco Dìfilo.
Considerazioni sulla tecnica teatrale e sull'ideologia.
Autore troppo "moderno"? Come
visto, T. scrisse 6 commedie "palliate": ma operò
una vera e propria "riforma" nell'ambito di questo genere, ristrutturandolo
- come vedremo - dal punto di vista tecnico e introducendo in esso
nuovi contenuti ideologici, in linea con le tendenze finelleniche
del circolo cui apparteneva.
La sua carriera drammaturgica non fu certo facile
come per Plauto (anche se, comunque, godette dell'amichevole e ammirato
appoggio e comprensione del già citato Turpione, nonché
addirittura di Cecilio Stazio): non ebbe lo stesso successo, perché
la sua commedia non rispondeva ai gusti del grosso pubblico romano,
non ancora pronto a tal "salto di qualità": quella di T.
era, infatti, una commedia che voleva trasmettere un messaggio morale
estraneo alla mentalità romana abituata al teatro plautino,
che interpretava i rapporti interpersonali come basati sull’inganno,
sulla violenza e sulle prevaricazioni.
Ma forse, a ben vedere, le stesse testimonianze
relativi ai "flop" della sua produzione potrebbero contenere un
nascosto fine programmatico (quegl'insuccessi mi suonano un po'
strani, sia perché il circolo scipionico indirizzava veramente
allora la "moda" del tempo, sia perché, nonostante tutto,
T. - in un tempo relativamente breve, ovvero dal 166 al 160 a.C.
- s'industriò in numerose rappresentazioni): come se T. ci
volesse dire che il proprio pubblico ideale è decisamente
un pubblico colto (che coincideva, in pratica, con lo stesso "circolo"),
o sicuramente più raffinato di quello sboccato e "plebeo"
che applaudiva ancora le opere di Plauto. Un pubblico, in breve,
elitario, il cui ideale artistico è un'opera che riproduca
nel migliore dei modi le preziosità dell'originale greco.
Ma questa, ripeto, è solo una mia "suggestione".
Il rapporto coi modelli (la "contaminatio")
e le differenze con Plauto: tecniche, stile, linguaggio. Quattro
delle 6 commedie terenziane si rifanno ad originali menandrei (a
riprova di ciò, anche se in senso dispregiativo, Cesare definì
T. "dimidiatus Menander", ossia un "Menandro dimezzato"):
solo l’"Hecyra" ed il "Phormio" riprendono invece commedie di un
altro autore, Apollodoro di Caristo, un commediografo greco di cui
però nulla conosciamo.
Rispetto a Plauto, le commedie di T. presentano
maggiore fedeltà ai modelli greci, ma si tratta sempre di
una fedeltà relativa: anche T. ricorreva infatti alla "contaminatio".
Tuttavia, tale tecnica non consiste per il nostro autore, <<come
pure è parso a molti, in un'ibrida mescolanza di più
commedie, ma nell'inserimento di scene desunte da altri drammi,
all'interno di una commedia greca usata come modello>> [Monaco
- De Bernardis].
Ancora rispetto a Plauto, poi, T. mantiene un’ambientazione
rigorosamente greca, senza surreali intrusioni di usi e costumi
romani; elimina quasi completamente i "cantica", facendo
invece uso abbondante di dialoghi e dei versi lunghi. Altra notevole
differenza con Plauto è quella relativa allo stile e al linguaggio:
in T., coerentemente all'esigenza di equilibrio e di raffinatezza
ch'egli mutuava dal sofisticato circolo scipionico, non troviamo
l’esuberanza, le acrobazie verbali, i giochi di parole e le parodie
dello stile tragico: egli evita rigorosamente espressioni popolari
e volgari; segue, stilizzandolo, il linguaggio della conversazione
ordinaria. Quello di T. è insomma uno stile e un linguaggio
sobrio, naturale, all’insegna della compostezza, della semplicità
e decisamente "mimetico" rispetto alla realtà che lo circonda.
Anche in T., inoltre, al centro della vicenda comica,
troviamo inoltre amori ostacolati che, alla fine si realizzano felicemente.
I personaggi sono quelli della commedia "nea", giovani innamorati,
ragazze oneste ecc.; della "nea", troviamo anche i soliti
stereotipi: equivoci, inganni ecc. Il topos del riconoscimento
conclude 5 commedie su 6, mancando solo negli "Adelphoe". Sempre
5 su 6 si concludono con uno o più matrimoni: solo nell’
"Hecyra" troviamo il ristabilimento di una unione matrimoniale che
era entrata in crisi a causa di equivoci e sospetti infondati.
T. tende poi, a suo modo, a complicare gli intrecci
menandrei, inserendo nella commedia, accanto alla coppia principale,
una seconda coppia. Gli "adulescentes" spesso sono quindi
due e sono due i "senes". Rispetto a Plauto, T. costruisce
i suoi intrecci con coerenza maggiore e con più credibilità,
caratteristiche queste mancanti nell’altro, che puntava sull’efficacia
comica della singola scena.
La nuova funzione dei prologhi. Altra differenza
importante rispetto a Plauto e a Menandro è l’abolizione
del prologo informativo: questi autori si servivano del prologo
appunto per informare il pubblico dell’antefatto, anticipando spesso
la conclusione; ciò metteva il pubblico nella condizione
di seguire meglio la vicenda (il cui intreccio era spesso complesso)
e lo rendeva superiore agli stessi personaggi della commedia. T.
trasforma, invece, il prologo informativo in un prologo a carattere
"critico" e letterario: nel prologo parla di sé, del suo
modo di poetare e si difende dalle accuse che i suoi avversari gli
rivolgono. A recitare il prologo, poi, non è neanche più
un personaggio della commedia, ma un attore scelto apposta (la cosiddetta
"persona [= maschera] protatica"), che indossa un
costume particolare.
Così, ad es., dall'accusa di aver sfruttato
il procedimento della "contaminatio", comminatagli soprattutto
da un "malevolus poeta" (Luscio Lanuvino), l'autore si difende
già nel prologo dell' "Andria": se è vero che ha usato
questa tecnica (non diversamente, del resto, dai suoi illustri predecessori,
cui nessuno ha recriminato invece alcunché), egli lo ha fatto
solo nei termini che abbiamo sopra descritto. Dall'accusa di plagio,
invece, T si difende nel prologo dell' "Eunuchus", <<sostenendo
di aver attinto direttamente al modello greco (cosa certamente consentita)
senza conoscere i rifacimenti latini della stessa opera e aggiungendo
che, essendo ormai tutto detto nel teatro, dev'esser permesso rifare
ciò che è stato fatto>> [Monaco - De Bernardis].
Nel prologo dell' "Heautontimorumenos", inoltre, egli spiega il
senso della definizione "stataria" ch'egli dà alle
sue commedie [per cui, vd. più avanti].
Infine, dall'accusa di essere il mero "prestanome"
di autori politicamente impegnati, T. si difende nel prologo dell’
"Adelphoe", dove afferma che ciò che gli altri ritengono
una colpa e di cui lo accusano, è per lui motivo di vanto
e di orgoglio: ritiene un merito essere aiutato dagli uomini più
importanti di Roma, delle cui imprese tutto il popolo si serviva.
La difesa di T. risulta, però, (volutamente) debole, forse
perché non voleva urtare la suscettibilità dei protettori,
a cui quelle calunnie e quelle dicerie evidentemente non dispiacevano
affatto.
Teatro "naturalistico". Tuttavia,
T. elimina il prologo informativo anche perché punta su effetti
di suspense: vuole cioè che lo spettatore si immedesimi
nel personaggio, che il pubblico sia coinvolto emotivamente nelle
vicende, provi le stesse emozioni dei personaggi. T., inoltre, vuole
mascherare l’aspetto fittizio dell’evento teatrale, vuole che non
venga mai interrotta l’illusione scenica: elimina, a tal riguardo,
tutti i procedimenti "metateatrali" a cui spesso ricorreva Plauto.
Tutto ciò ha uno scopo preciso: mentre il Sarsinate non perseguiva
nessun fine morale o politico, ma tendeva solo a divertire, T.,
con le sue commedie, intende trasmettere un messaggio morale.
<<T. intende mantenere a tutti i costi la
verosimiglianza: il suo pubblico, per tutta la durata del dramma,
non deve pensare di essere a teatro, deve credere piuttosto di vedere
una "tranche de vie" […]. Il suo dunque è un teatro
"naturalistico">> [Monaco - De Bernardis].
Commedia "stataria" e psicologia
dei personaggi. Molto è stato discusso sul vero significato
da dare al termine "stataria", usato dallo stesso T. per
definire le proprie commedie: secondo alcuni, esso significherebbe
che la sua non è commedia d'azione, ma esclusivamente psicologica,
"di carattere": ciò è vero, però, fino ad un
certo punto, dato che - anche se certamente in tono minore rispetto
a Plauto - le sue opere non rinunciano completamente al movimento
scenico. Allora, sarebbe forse più esatto affermare che <<molto
semplicemente commedia stataria è quella dove non ci sono
scene movimentate, con inseguimenti, litigi e clamori, scene farsesche
che sono tipiche del teatro comico popolare>> [Perelli]. Ciò
spiegherebbe anche la rinuncia di T. alla trovata (plautina) del
"servus currens".
E' vero, comunque, che T. attenua decisamente i
tratti caricaturali dei personaggi della "nea" e ne fa delle
figure delicate, tenere, sensibili (ma più "tipi" che individui).
Protagonista del suo teatro non è più il "servus
callidus", ma padri e figli. Egli non ridicolizza i sentimenti
d’amore dei giovani, ma li segue con partecipazione e simpatia.
Anche i padri terenziani sono differenti da quelli plautini: sono
disponibili al dialogo coi figli e si preoccupano sinceramente della
loro felicità più che del loro patrimonio o del veder
affermata la propria autorità. Nel teatro di T., del resto,
non esistono personaggi del tutto negativi: anche i servi sono spesso
vicini ai padroni e partecipano ai problemi familiari; non tutte
le cortigiane pensano ai propri interessi (vedi il caso di Bacchide
nell' "Hecyra").
Il messaggio: l' "humanitas".
Teatro "pedagogico". Come abbiamo più volte
detto, attraverso l'opera di T. il circolo scipionico "divulgava"
la propria, rivoluzionaria ideologia: anche (se non soprattutto)
grazie all'incontro-scontro diretto con la civiltà greca,
gl'intellettuali scipionici elaborarono e approfondirono un ideale
di "humanitas", ch'era una grossa novità nella cultura e
nella stessa mentalità, tradizionali, dei Romani.
Questo ideale fu inteso non soltanto come semplice
traduzione del termine greco "filantropia" (interesse per
l'uomo), ma piuttosto soprattutto come apertura dell'uomo verso
i propri simili, al di là di ogni barriera sociale, nella
coscienza della comune natura umana, seppur nella consapevolezza
delle sue innumerevoli sfaccettature: il singolo non è <<più
soltanto "civis", ma soprattutto "homo humanus">>
[Monaco - De Bernardis].
E', dunque, lo stesso messaggio che vuole trasmettere
anche T.: aprirsi agli altri, rinunciare all’egoismo, comprendere
i propri limiti ed essere indulgenti nei confronti degli errori
altrui: essere, in una parola, tolleranti e solidali. Chi si apre
agli altri vive veramente da uomo fra gli uomini. E' questo il senso
del famoso ed emblematico "homo sum humani nihil a me alienum
puto" ("sono uomo e niente di ciò che è umano
considero a me estraneo"), contenuto nell' "Heautontimorumenos".
Ecco che così i personaggi del nostro autore
sono veramente lontanissimi da quelli pacchiani, spregiudicati,
egoisti e truffaldini di Plauto: i giovani di T., accanto ad un
comportamento anche qui sovente scapestrato, presentano comunque
tratti di maggiore consapevolezza e di disponibilità all'accettazione
delle regole sociali; i vecchi non sono libidinosi ed invidiosi,
ma tengono sinceramente al bene ed alla felicità dei figli;
i servi non sono scaltri promotori di truffe, oppure quando lo sono,
agiscono in buona fede, per il bene dei giovani ed anziani padroni,
con cui dividono guai, tristezze e felicità, quasi in un
nucleo familiare "allargato". Infine, gli stessi "milites"
e le stesse cortigiane non sono lenoni lussuriosi vanagloriosi e
approfittatori, o semplici donne di piacere avide di denaro, ma
acquistano uno spessore di comprensione e di buona fede che li rendono
uomini e donne come gli altri, casomai solo un po' più "cocciuti"
o sfortunati.
<<L'amore domina, nel suo teatro: ma un amore
fatto di comprensione, di sacrificio, di rinnegamento di sé:
un amore che pone la soddisfazione più alta nel donare la
felicità alla creatura amata>> [I. Lana].
E appare conseguente, e ciò detto tirando
le conclusioni da quanto analizzato fin qui, come la stessa comicità
di T dovesse proporsi come altrettanto rivoluzionaria, in accordo
col suo "messaggio": una comicità nuova, che non consiste
più nella battutaccia o nell'intrigo, ma che invece risiede
più nel sorriso, talvolta compassionevole, sempre venato
di riflessione e di meditazione (a tal riguardo, taluni critici
hanno definito, quello del nostro autore, un "teatro pedagogico").
...:::Bukowski:::...
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