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Afro Publio Terenzio

--- 195 o 185 ca Cartagine - 159 a.C., in viaggio ---

 

Vita.

Pupillo degli Scipioni. Sulla vita di T. abbiamo una biografia risalente a Svetonio: a questa attinse Donato, che la premise al suo commento delle commedie del nostro autore. Notizie biografiche, poi, si possono ricavare anche dai prologhi delle commedie stesse.

La sua vita si inserisce praticamente nel periodo di tempo compreso tra la fine della II guerra punica (201 a.C.) e l'inizio della III (149 a.C.) e si lega strettamente con la vicenda politica e culturale romana di quegli anni.

T. giunse a Roma come schiavo del senatore T. Lucano, dal quale fu affrancato "ob ingenium et formam" ("per ingegno e bellezza"); divenne intimo di Scipione Emiliano e di Gaio Lelio, entrando quindi a far parte dell’entourage scipionico, del cui ideale di "humanitas" egli si fa portavoce.

Maldicenze sulla vera paternità delle commedie. Questa sua posizione di prestigio suscitò però l’invidia dei suoi contemporanei, soprattutto degli altri letterati. Sul conto di T., sorsero così calunnie e pettegolezzi: lo si accusava di plagio e di essere addirittura un prestanome dei suoi importanti protettori, i veri effettivi autori delle sue commedie (era, infatti, considerato disdicevole per un "civis Romanus", impegnato politicamente, dedicare il proprio tempo alla composizione di commedie; le uniche attività che erano lui concesse coltivare erano l’oratoria o la storiografia) [per la questione sull'autenticità, vd. oltre]. Da questa accusa, come vedremo, T. si difende nel prologo della sua ultima commedia, l’"Adelphoe".

Amarezza per l'insuccesso, viaggio in Grecia, morte. Amareggiato dal complessivo insuccesso della sua produzione [per cui, vd. oltre], ma anche evidentemente per diletto e soprattutto per studiare in loco istituzioni e costumi greci da ritrarre nelle sue opere, T. lasciò Roma nel 160 a.C. e volle fare un viaggio in Grecia e in Asia Minore, da cui però non fece più ritorno. Morì qualche anno più tardi, o a causa di una malattia, o a causa di un naufragio, oppure per il dolore procuratogli dalla perdita dei bagagli che contenevano molte commedie che aveva tradotto da originali menandrei reperiti in Grecia.

Opere: titoli e rappresentazioni.

Di T. ci sono pervenute, integralmente, 6 commedie palliate (cioè d'ambientazione greca), composte e rappresentate a Roma, di cui si conoscono, tramite le "didascalie", l'anno e l'occasione del primo allestimento.

T. esordì nel 166 a.C. con una commedia, l’ "Andria" ("La ragazza dell’isola di Andro"). Nel 165, fece rappresentare una seconda commedia, l’ "Hecyra" ("La suocera"): il pubblico, dopo le prime scene, abbandonò il teatro, preferendo assistere ad una contemporanea manifestazione di pugili e funamboli; fu un fiasco clamoroso. Nel 163, fece rappresentare l’ "Heautontimorumenos" ("Il punitore di se stesso"). Nel 169 furono, invece, rappresentate ben 2 commedie: l’ "Eunuchus" ("L'eunuco") e il "Phormio" ("Formione"). L’ "Eunucus" fu il più grande successo di T., perché è la sua commedia più simile alla comicità plautina. Nel 160, infine, durante i giochi funebri per celebrare la morte di Lucio Emilio Paolo, padre di Scipione Emiliano, T. fece rappresentare la sua ultima commedia, l’ "Adelphoe" ("I fratelli"); nella stessa occasione tentò una seconda rappresentazione dell’ "Hecyra", ma anche questa volta il pubblico abbandonò il teatro, preferendo i gladiatori. Una terza rappresentazione avvenne durante i "Ludi Romani" dello stesso anno e, finalmente, durò dall’inizio alla fine: il pubblico rimase in teatro grazie alla presenza di Ambivio Turpione, attore molto celebre di quel tempo.

Le commedie: contenuti, strutture, considerazioni e modelli.

Andria. Trama. Una tormentata storia d'amore è l'elemento che determina il contrasto tra Simione e il figlio Pànfilo e muove l'intera vicenda: il padre, venuto a sapere che il figlio ama, ricambiato, una ragazza dell'isola di Andro, Glicerio, sorella di una cortigiana, si oppone alle nozze e si accorda con l'amico e vicino Cremète per far sposare al giovane una figlia di questi, Filùmena. La situazione viene risolta grazie all'intervento di Davo, servo di Pànfilo, e la scoperta che Glicerio in realtà è una figlia proprio di Cremète rapita in tenera età. La vicenda si conclude con un doppio matrimonio: Pànfilo sposa la sua amata Glicerio e il suo amico Carino sposa Filùmena.

Considerazioni e modelli. Tema di fondo della commedia è il conflitto generazionale e caratteriale tra padre e figlio, che coinvolge complessi e profondi valori umani: ben delineati, a tal proposito, sono i caratteri, soprattutto quelli dei giovani, che rispecchiano - persino nella vita facile e leggera - quell'ideale di moralità e di compostezza tipici del teatro terenziano. Ma questo tema serio si mescola a (pallidi) elementi più tradizionali, tesi a rendere più vivo e interessante l'intreccio: l'amore contrastato, l' "agnizione" (= riconoscimento) finale, il servo "callidus". Deriva dalla "contaminatio" [per il qual termine, vd. oltre] di due commedie di Menandro: "Andria" e "Perinthia".

Hecyra. Trama. Il protagonista di questa commedia è il giovane Pànfilo, combattuto tra l'amore per Bacchide, una cortigiana, e il volere del proprio padre, che lo costringe invece a sposare (senza amore) Filùmena, una ragazza perbene: il protagonista si rifiuta di avere rapporti intimi con la moglie, scaricando su di lei le sue delusioni; quella, da parte sua, accetta con rassegnazione ed umiltà i torti del marito il quale, dopo averla conosciuta meglio e confrontata con le altre donne, impara però ad apprezzarne il pudore: dalla stima, così, nasce pian piano l’amore, o comunque un sentimento che si rivela più profondo dell’attrazione per Bacchide. Ad un certo punto, però, Pànfilo parte per un viaggio di affari; la moglie lascia improvvisamente la casa del marito, dove viveva con la suocera Sostrata, e torna a vivere dai genitori. Nessuno sa con precisione le cause di questo allontanamento: le dicerie della gente riferiscono che esse sono dovute ai conflitti proprio con la suocera. Sostrata, da parte sua, si confessa innocente e in un monologo lungo e toccante si dichiara vittima dei pregiudizi che vogliono tutte le suocere ostili alle proprie nuore. Intanto, ritorna Pànfilo dal viaggio e viene informato dell’accaduto; si reca a casa dei genitori della moglie per constatare di persona le condizioni e le motivazioni di Filùmena. Lì, egli scopre la verità: la moglie ha lasciato la casa perché sta per partorire un figlio non di lui, ma che è stato concepito prima del matrimonio, frutto di una violenza notturna subita durante una festa, ad opera di uno sconosciuto. In un monologo lungo e patetico, Pànfilo rivela al pubblico questa verità e mette a nudo i suoi sentimenti, il conflitto che si agita in lui fra amore e pudore: sa che la sua vita senza la moglie sarà una vita vuota, però sa paritempo che l’onore e la società lo costringono a separarsi dalla moglie e a non considerare come suo l’ "alienus puer". Pànfilo non rivela però il vero motivo per cui divorzia, per non compromettere il buon nome di Filùmena. I due suoceri, all’oscuro della verità, pensano allora che egli voglia ancora Bacchide e che abbia ripreso la relazione con lei. Vanno a parlare con Bacchide, che rivela ai due che non ha più rapporti con Pànfilo dal giorno del matrimonio. Pur essendo una cortigiana, ella quindi accetta un compito arduo ed onorevole: andare da Filùmena per dirle che Pànfilo la ama. Durante l'incontro, la madre della ripudiata nota al dito della cortigiana un anello che apparteneva alla figlia, e che a Filùmena era stato strappato, la notte del misfatto, dal giovane ubriaco che l'aveva compromessa. Bacchide rivela che l’anello le era stato in effetti regalato da Pànfilo: il giovane stupratore era quindi lo stesso Pànfilo. La commedia si conclude con il ristabilimento dell’unione, che una serie di equivoci aveva minato.

Considerazioni e modelli. Nonostante l'intreccio complicato (come appare anche dalla lunghezza del riassunto sopra) e la presenza del colpo di scena finale, la commedia presenta due "interni di famiglia" ed è quasi interamente "stataria" [per il termine, vd. oltre]. Questa caratteristica le viene certamente dai delicati temi su cui s'impernia: il senso della famiglia (la "patria potestas") e il decoro sociale ("decorum"); temi che, più che all'azione stessa, concedono spazio all'espressione di aspirazioni, desideri nascosti e dinamiche (dialogate) interpersonali.

Profonda e caratteristica è anche l'analisi dei personaggi: Pànfilo, ad es., risulta un giovane perennemente tormentato e patetico, in perenne conflitto fra amore e pudore, e spesso rende direttamente partecipe anche il pubblico di questo suo dramma intimo e "sociale"; Bacchide è, poi, uno dei personaggi più peculiari del teatro di T.: si contrappone allo stereotipo della cortigiana, agendo addirittura contro i propri interessi, perché sinceramente affezionata a Pànfilo e desiderosa della sua felicità.

E' evidente che T. ha scritto questa commedia senza la schietta intenzione di "risum movere", bensì col proposito di creare un dramma pieno di affetti, tipico di un teatro fondamentalmente familiare e borghese. Se essa è poco piaciuta ai contemporanei, proprio per questi stessi motivi è ritenuta - dai critici odierni - la più moderna ed innovatrice.

Heautontimorumenos. Trama. Protagonista della commedia è un vecchio genitore, Meneremo, che con la sua severità ha costretto il proprio figlio Clinia a lasciare la sua città e ad arruolarsi come soldato (pur di separarlo da Antìfila, una ragazza onesta ma povera), iniziando così una vita di pericoli e di disagi. Dopo essersi reso conto di ciò che ha fatto, il genitore si pente e decide di autopunirsi: vende tutti i suoi beni e si ritira in campagna, sottoponendosi a lavori massacranti. Un altro anziano, Cremète, che ha un campo vicino al suo, nota il comportamento del vecchio e lo invita ad aprirsi con lui, a confidarsi (è proprio Cremète a pronunciare il famoso "homo sum humani nihil a me alienum puto"), contribuendo così al suo "cambiamento" caratteriale.

Quando allora Clinia, dopo una serie di peripezie, riesce a tornare in città, Meneremo lo accoglie a braccia aperte, sinceramente commosso e pentito. Non solo. Il giovane alla fine può sposare anche l'amata Antìfila, riconosciuta nel frattempo come figlia di Cremète.

Considerazioni e modelli. In questa commedia, si affaccia nuovamente il problema pedagogico del rapporto fra genitori e figli: si spiega, in questo modo, il grande rilievo dato all'elemento profondo, ma scenicamente "statico", del dramma interiore di Meneremo, a scapito dell'azione teatrale e degli elementi tipici della comicità tradizionale. E', insomma, una commedia quasi interamente "stataria" e "di carattere", basata cioè sullo studio dei caratteri, disegnati con grande sapienza e sottigliezza psicologica, soprattutto per quanto riguarda i due protagonisti anziani. In particolare, attraverso la figura di Meneremo, e la sua "redenzione", T. vuole porre in rilievo pregi e difetti di una società moralisticamente interpretata, secondo il modello menandreo. E proprio dall'omonima commedia di Menandro quest'opera è tratta.

Eunuchus. Trama. Il giovane Cherea si traveste da eunuco per sedurre una giovane e bella schiava, che la cortigiana Taide ha avuto in dono dallo smargiasso miles Trasone. La schiava si rivela in realtà di nascita libera e il lieto fine è assicurato, con nozze riparatrici.

Considerazioni e modelli. Questa commedia ripropone il tema del travestimento e degl'inganni d'amore e, come già accennato, segna il ritorno di T. ad una comicità di tipo plautino (cosa che decreta il suo successo), giocata su ingredienti più "convenzionali", quali la vivacità dell'azione e la ricomparsa di personaggi noti e cari al pubblico romano (il parassita, il soldato innamorato, la cortigiana sfacciata, i complici "adulescentes", e così via), seppure con tratti più misurati e più "malinconici" di quelli di Plauto. Anche l'intreccio, nella sua semplicità, è scenicamente più movimentato, e puntellato da frequenti momenti di schietta comicità (anche se forse è più esatto parlare di forte "ironia"): questa è, insomma, la commedia meno "stataria" di T. .

Essa è il risultato della "contaminatio" di due commedie menandree, l' "Eunuchus" e il "Colax" ("L'adulatore").

Phormio. Trama. Durante l'assenza dei rispettivi padri, che sono i due fratelli Cremète e Demifone, i due giovani Fedria e Antifonte sono affidati alle cure del servo Geta: i problemi iniziano quando i due giovani s'innamorano e Geta, per risolvere le loro intricate questioni amorose, si rivolge appunto a Formione ("Phormio"), avido e scaltro parassita, che riesce però a portare a buon fine le vicende, facendo leva su cavilli giuridici di legislazione matrimoniale.

Considerazioni e modelli. Come si evince dalla trama, la commedia prende il titolo dal nome di un personaggio, un parassita, che compare in scena tardi e vi rimane complessivamente poco: tuttavia, egli è indirettamente sempre presente in quanto è il motore dell'intera vicenda, ovvero è l'autore dell'intrigo su cui quella si fonda.

Anche qui, poi, si affaccia il tema del contrasto generazionale: esso avviene tra le due coppie genitori-figli, che formano quasi due blocchi simmetricamente contrapposti, con funzione di protagonisti e con una prevalenza dello spazio e dell'importanza dei padri a confronto dei figli sulla scena (contrariamente a quanto avveniva in Plauto e a quanto avviene nell' "Eunuchus"). Parallelamente e accanto a queste coppie (veri e propri personaggi "doppi"), si delineano i protagonisti "singoli": Geta e Formione vivono della loro individualità e della loro "singolare" (in tutti i sensi) capacità d'infrangere gli equilibri codificati, per trasformare le realtà ed adattarla ai propri desideri; ma più degli schiavi truffaldini di Plauto, essi (e soprattutto Formione) agiscono all'interno del "sistema" utilizzando le sue "falle" (i cavilli delle sue leggi) per irretire alcuni a vantaggio di altri e di se stessi.

La commedia è tratta dall' "Epidicazòmenos" ("Quello che rivendica"), di Apollonio di Caristo.

Adelphoe. Trama. Di questa commedia, sono protagonisti due fratelli, Demea e Micione. Il primo è un uomo all’antica, rigido e austero che ha due figli: uno dei due, Ctesifòne, lo educa personalmente secondo i sistemi tradizionali, l’altro, invece, Eschino, lo affida al fratello Micione, che, scapolo, vive in città e ha idee piuttosto moderne: è padre per libera scelta e decide quindi di educare il figlio adottivo con indulgenza e liberalità. Secondo lui i giovani devono instaurare un rapporto basato sul dialogo con i genitori: non bisogna costringerli a fare il bene solo per paura di una punizione, ma per una scelta personale.

Proprio Ctesifòne tradisce ogni speranza del padre e ne combina di tutti i colori, anche con l'aiuto del fratello, che gli fa conoscere la citarista Bacchide. Alla fine, il vecchio padre riconosce d'aver sbagliato ed accorda al figlio tutta la libertà che prima gli aveva negato.

Considerazioni e modelli. L'azione drammatica, molto semplice, è fondata prevalentemente sul contrasto dei caratteri (che sono contrapposti, anche qui come nel "Phormio", a due a due) e tra le due forme di educazione: quella "tradizionale" di Demea e quella "liberale" di Micione.

La commedia deriva dall'omonima di Menandro, con l'inserimento di una scena dei "Synapothnéscontes" ("I commorienti", ovvero "La morte comune") del greco Dìfilo.

Considerazioni sulla tecnica teatrale e sull'ideologia.

Autore troppo "moderno"? Come visto, T. scrisse 6 commedie "palliate": ma operò una vera e propria "riforma" nell'ambito di questo genere, ristrutturandolo - come vedremo - dal punto di vista tecnico e introducendo in esso nuovi contenuti ideologici, in linea con le tendenze finelleniche del circolo cui apparteneva.

La sua carriera drammaturgica non fu certo facile come per Plauto (anche se, comunque, godette dell'amichevole e ammirato appoggio e comprensione del già citato Turpione, nonché addirittura di Cecilio Stazio): non ebbe lo stesso successo, perché la sua commedia non rispondeva ai gusti del grosso pubblico romano, non ancora pronto a tal "salto di qualità": quella di T. era, infatti, una commedia che voleva trasmettere un messaggio morale estraneo alla mentalità romana abituata al teatro plautino, che interpretava i rapporti interpersonali come basati sull’inganno, sulla violenza e sulle prevaricazioni.

Ma forse, a ben vedere, le stesse testimonianze relativi ai "flop" della sua produzione potrebbero contenere un nascosto fine programmatico (quegl'insuccessi mi suonano un po' strani, sia perché il circolo scipionico indirizzava veramente allora la "moda" del tempo, sia perché, nonostante tutto, T. - in un tempo relativamente breve, ovvero dal 166 al 160 a.C. - s'industriò in numerose rappresentazioni): come se T. ci volesse dire che il proprio pubblico ideale è decisamente un pubblico colto (che coincideva, in pratica, con lo stesso "circolo"), o sicuramente più raffinato di quello sboccato e "plebeo" che applaudiva ancora le opere di Plauto. Un pubblico, in breve, elitario, il cui ideale artistico è un'opera che riproduca nel migliore dei modi le preziosità dell'originale greco. Ma questa, ripeto, è solo una mia "suggestione".

Il rapporto coi modelli (la "contaminatio") e le differenze con Plauto: tecniche, stile, linguaggio. Quattro delle 6 commedie terenziane si rifanno ad originali menandrei (a riprova di ciò, anche se in senso dispregiativo, Cesare definì T. "dimidiatus Menander", ossia un "Menandro dimezzato"): solo l’"Hecyra" ed il "Phormio" riprendono invece commedie di un altro autore, Apollodoro di Caristo, un commediografo greco di cui però nulla conosciamo.

Rispetto a Plauto, le commedie di T. presentano maggiore fedeltà ai modelli greci, ma si tratta sempre di una fedeltà relativa: anche T. ricorreva infatti alla "contaminatio". Tuttavia, tale tecnica non consiste per il nostro autore, <<come pure è parso a molti, in un'ibrida mescolanza di più commedie, ma nell'inserimento di scene desunte da altri drammi, all'interno di una commedia greca usata come modello>> [Monaco - De Bernardis].

Ancora rispetto a Plauto, poi, T. mantiene un’ambientazione rigorosamente greca, senza surreali intrusioni di usi e costumi romani; elimina quasi completamente i "cantica", facendo invece uso abbondante di dialoghi e dei versi lunghi. Altra notevole differenza con Plauto è quella relativa allo stile e al linguaggio: in T., coerentemente all'esigenza di equilibrio e di raffinatezza ch'egli mutuava dal sofisticato circolo scipionico, non troviamo l’esuberanza, le acrobazie verbali, i giochi di parole e le parodie dello stile tragico: egli evita rigorosamente espressioni popolari e volgari; segue, stilizzandolo, il linguaggio della conversazione ordinaria. Quello di T. è insomma uno stile e un linguaggio sobrio, naturale, all’insegna della compostezza, della semplicità e decisamente "mimetico" rispetto alla realtà che lo circonda.

Anche in T., inoltre, al centro della vicenda comica, troviamo inoltre amori ostacolati che, alla fine si realizzano felicemente. I personaggi sono quelli della commedia "nea", giovani innamorati, ragazze oneste ecc.; della "nea", troviamo anche i soliti stereotipi: equivoci, inganni ecc. Il topos del riconoscimento conclude 5 commedie su 6, mancando solo negli "Adelphoe". Sempre 5 su 6 si concludono con uno o più matrimoni: solo nell’ "Hecyra" troviamo il ristabilimento di una unione matrimoniale che era entrata in crisi a causa di equivoci e sospetti infondati.

T. tende poi, a suo modo, a complicare gli intrecci menandrei, inserendo nella commedia, accanto alla coppia principale, una seconda coppia. Gli "adulescentes" spesso sono quindi due e sono due i "senes". Rispetto a Plauto, T. costruisce i suoi intrecci con coerenza maggiore e con più credibilità, caratteristiche queste mancanti nell’altro, che puntava sull’efficacia comica della singola scena.

La nuova funzione dei prologhi. Altra differenza importante rispetto a Plauto e a Menandro è l’abolizione del prologo informativo: questi autori si servivano del prologo appunto per informare il pubblico dell’antefatto, anticipando spesso la conclusione; ciò metteva il pubblico nella condizione di seguire meglio la vicenda (il cui intreccio era spesso complesso) e lo rendeva superiore agli stessi personaggi della commedia. T. trasforma, invece, il prologo informativo in un prologo a carattere "critico" e letterario: nel prologo parla di sé, del suo modo di poetare e si difende dalle accuse che i suoi avversari gli rivolgono. A recitare il prologo, poi, non è neanche più un personaggio della commedia, ma un attore scelto apposta (la cosiddetta "persona [= maschera] protatica"), che indossa un costume particolare.

Così, ad es., dall'accusa di aver sfruttato il procedimento della "contaminatio", comminatagli soprattutto da un "malevolus poeta" (Luscio Lanuvino), l'autore si difende già nel prologo dell' "Andria": se è vero che ha usato questa tecnica (non diversamente, del resto, dai suoi illustri predecessori, cui nessuno ha recriminato invece alcunché), egli lo ha fatto solo nei termini che abbiamo sopra descritto. Dall'accusa di plagio, invece, T si difende nel prologo dell' "Eunuchus", <<sostenendo di aver attinto direttamente al modello greco (cosa certamente consentita) senza conoscere i rifacimenti latini della stessa opera e aggiungendo che, essendo ormai tutto detto nel teatro, dev'esser permesso rifare ciò che è stato fatto>> [Monaco - De Bernardis]. Nel prologo dell' "Heautontimorumenos", inoltre, egli spiega il senso della definizione "stataria" ch'egli dà alle sue commedie [per cui, vd. più avanti].

Infine, dall'accusa di essere il mero "prestanome" di autori politicamente impegnati, T. si difende nel prologo dell’ "Adelphoe", dove afferma che ciò che gli altri ritengono una colpa e di cui lo accusano, è per lui motivo di vanto e di orgoglio: ritiene un merito essere aiutato dagli uomini più importanti di Roma, delle cui imprese tutto il popolo si serviva. La difesa di T. risulta, però, (volutamente) debole, forse perché non voleva urtare la suscettibilità dei protettori, a cui quelle calunnie e quelle dicerie evidentemente non dispiacevano affatto.

Teatro "naturalistico". Tuttavia, T. elimina il prologo informativo anche perché punta su effetti di suspense: vuole cioè che lo spettatore si immedesimi nel personaggio, che il pubblico sia coinvolto emotivamente nelle vicende, provi le stesse emozioni dei personaggi. T., inoltre, vuole mascherare l’aspetto fittizio dell’evento teatrale, vuole che non venga mai interrotta l’illusione scenica: elimina, a tal riguardo, tutti i procedimenti "metateatrali" a cui spesso ricorreva Plauto. Tutto ciò ha uno scopo preciso: mentre il Sarsinate non perseguiva nessun fine morale o politico, ma tendeva solo a divertire, T., con le sue commedie, intende trasmettere un messaggio morale.

<<T. intende mantenere a tutti i costi la verosimiglianza: il suo pubblico, per tutta la durata del dramma, non deve pensare di essere a teatro, deve credere piuttosto di vedere una "tranche de vie" […]. Il suo dunque è un teatro "naturalistico">> [Monaco - De Bernardis].

Commedia "stataria" e psicologia dei personaggi. Molto è stato discusso sul vero significato da dare al termine "stataria", usato dallo stesso T. per definire le proprie commedie: secondo alcuni, esso significherebbe che la sua non è commedia d'azione, ma esclusivamente psicologica, "di carattere": ciò è vero, però, fino ad un certo punto, dato che - anche se certamente in tono minore rispetto a Plauto - le sue opere non rinunciano completamente al movimento scenico. Allora, sarebbe forse più esatto affermare che <<molto semplicemente commedia stataria è quella dove non ci sono scene movimentate, con inseguimenti, litigi e clamori, scene farsesche che sono tipiche del teatro comico popolare>> [Perelli]. Ciò spiegherebbe anche la rinuncia di T. alla trovata (plautina) del "servus currens".

E' vero, comunque, che T. attenua decisamente i tratti caricaturali dei personaggi della "nea" e ne fa delle figure delicate, tenere, sensibili (ma più "tipi" che individui). Protagonista del suo teatro non è più il "servus callidus", ma padri e figli. Egli non ridicolizza i sentimenti d’amore dei giovani, ma li segue con partecipazione e simpatia. Anche i padri terenziani sono differenti da quelli plautini: sono disponibili al dialogo coi figli e si preoccupano sinceramente della loro felicità più che del loro patrimonio o del veder affermata la propria autorità. Nel teatro di T., del resto, non esistono personaggi del tutto negativi: anche i servi sono spesso vicini ai padroni e partecipano ai problemi familiari; non tutte le cortigiane pensano ai propri interessi (vedi il caso di Bacchide nell' "Hecyra").

Il messaggio: l' "humanitas". Teatro "pedagogico". Come abbiamo più volte detto, attraverso l'opera di T. il circolo scipionico "divulgava" la propria, rivoluzionaria ideologia: anche (se non soprattutto) grazie all'incontro-scontro diretto con la civiltà greca, gl'intellettuali scipionici elaborarono e approfondirono un ideale di "humanitas", ch'era una grossa novità nella cultura e nella stessa mentalità, tradizionali, dei Romani.

Questo ideale fu inteso non soltanto come semplice traduzione del termine greco "filantropia" (interesse per l'uomo), ma piuttosto soprattutto come apertura dell'uomo verso i propri simili, al di là di ogni barriera sociale, nella coscienza della comune natura umana, seppur nella consapevolezza delle sue innumerevoli sfaccettature: il singolo non è <<più soltanto "civis", ma soprattutto "homo humanus">> [Monaco - De Bernardis].

E', dunque, lo stesso messaggio che vuole trasmettere anche T.: aprirsi agli altri, rinunciare all’egoismo, comprendere i propri limiti ed essere indulgenti nei confronti degli errori altrui: essere, in una parola, tolleranti e solidali. Chi si apre agli altri vive veramente da uomo fra gli uomini. E' questo il senso del famoso ed emblematico "homo sum humani nihil a me alienum puto" ("sono uomo e niente di ciò che è umano considero a me estraneo"), contenuto nell' "Heautontimorumenos".

Ecco che così i personaggi del nostro autore sono veramente lontanissimi da quelli pacchiani, spregiudicati, egoisti e truffaldini di Plauto: i giovani di T., accanto ad un comportamento anche qui sovente scapestrato, presentano comunque tratti di maggiore consapevolezza e di disponibilità all'accettazione delle regole sociali; i vecchi non sono libidinosi ed invidiosi, ma tengono sinceramente al bene ed alla felicità dei figli; i servi non sono scaltri promotori di truffe, oppure quando lo sono, agiscono in buona fede, per il bene dei giovani ed anziani padroni, con cui dividono guai, tristezze e felicità, quasi in un nucleo familiare "allargato". Infine, gli stessi "milites" e le stesse cortigiane non sono lenoni lussuriosi vanagloriosi e approfittatori, o semplici donne di piacere avide di denaro, ma acquistano uno spessore di comprensione e di buona fede che li rendono uomini e donne come gli altri, casomai solo un po' più "cocciuti" o sfortunati.

<<L'amore domina, nel suo teatro: ma un amore fatto di comprensione, di sacrificio, di rinnegamento di sé: un amore che pone la soddisfazione più alta nel donare la felicità alla creatura amata>> [I. Lana].

E appare conseguente, e ciò detto tirando le conclusioni da quanto analizzato fin qui, come la stessa comicità di T dovesse proporsi come altrettanto rivoluzionaria, in accordo col suo "messaggio": una comicità nuova, che non consiste più nella battutaccia o nell'intrigo, ma che invece risiede più nel sorriso, talvolta compassionevole, sempre venato di riflessione e di meditazione (a tal riguardo, taluni critici hanno definito, quello del nostro autore, un "teatro pedagogico").


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