Vita.
Biografia incerta. Della biografia di G.
ignoriamo quasi tutto: ciò che è possibile ricostruirne
non può che reggere su ipotesi, le quali del resto si possono
dedurre dalla sua stessa opera (a meno che non si tratti, nei brani
dove si pensa di cogliere un'allusione, di semplici finzioni letterarie).
Così, adottato da un ricco liberto, G. fu
probabilmente soldato e poi maestro di scuola, prima di redigere,
a Roma e già in età avanzata (forse quarantenne),
le 16 "Satire" che compongono la sua opera. Forse esercitò
l’avvocatura, ma probabilmente con scarso successo. Non mostra amare,
invece, la filosofia.
La triste condizione di "cliens"
e l'esilio. Il nostro poeta visse nella disagiata condizione
di "cliens", come il suo amico Marziale (ha contatti anche
con Stazio e Quintiliano): ma forse questa condizione <<non
si identifica necessariamente con uno stato di vera indigenza, anche
al di là delle lamentele spesso esagerate (per gioco o per
patetismo) […]; in realtà, il disagio espresso dal "cliens"
giovenaliano nasce dal trovarsi egli stretto, in una condizione
imbarazzante, fra l'ambiente del "patronus" ricco e gli strati
inferiori della società, che egli considera feccia>>
[Bellandi]. G. conobbe anche rovesci di carriera, o per lo meno
si creò delle inimicizie (forse proprio a causa delle allusioni
più o meno esplicite contenute nella sua opera): per questo
motivo, a 80 anni, sarebbe stato fatto governatore dell'Egitto dall'imperatore
Adriano (in realtà, si sarebbe trattato di un esilio). E
lì sarebbe morto, di sicuro dopo il 127 (ultimo accenno cronologico
rinvenibile nelle sue satire).
Opera.
La raccolta. G. scrisse "Satire"(100-127
d.C.?), in esametri, in numero di 16 (l’ultima è incompleta)
e per un totale di 3870 versi ca., pubblicate – forse da lui stesso
– in 5 libri, che uscirono dopo la morte di Domiziano, quando cioè
il clima politico lo permise; le satire sono disposte nella raccolta
in ordine cronologico: 5 nel I libro, 1 nel II, 3 nel III e nel
IV, 4 nel V.
I contenuti. Eccone brevemente i contenuti:
- nella I satira, proemio programmatico,
il poeta critica le inutili pubbliche declamazioni e afferma che
piuttosto il disgusto per la corruzione morale dilagante lo spinge
a scrivere, e che però, per evitare le più che certe
reazioni violente degli uomini del suo tempo, parlerà dell’immoralità
dei tempi passati (l'ambientazione abbraccia principalmente l'età
giulio-claudia e l'età dei Flavi);
- la II bersaglia l’ipocrisia in generale,
l’omosessualità in particolare (come la IX): sono
chiamati in causa anche gl'imperatori Ottone e Domiziano;
- la III parla di Umbricio, amico di G.,
costretto ad allontanarsi da Roma e a preferire la provincia perché
non resiste al caos e allo spettacolo dei vizi che la inquinano
(di cui causa non minore sono gl'immigrati greci);
- la IV, sferzante, è contro la cortigianeria
e lo stupido uso del potere (in particolare, vi si narra la famosa
storia di un grosso rombo che si fa pescare per essere offerto a
Domiziano, il quale convoca un consiglio di militari per decidere
in che modo cuocerlo);
- la V descrive l’umile condizione dei "clienti"
(cui è preferibile addirittura l'accattonaggio) e l’arroganza
dei padroni durante i banchetti (cui contrappone il proprio, frugale,
nell’ XI);
- la VI, la più lunga (661 vv.) e
certamente la più famosa, costituisce un attacco veemente
contro i vizi delle donne, tutte corrotte, nobili o di umili origini
che siano (è la satira che, tra l'altro, ha fatto passare
alla storia la moglie dell’Imperatore Claudio, la famigerata Messalina,
come esempio di donna dissoluta e depravata);
- la VII depreca la triste condizione dei
letterati e degli intellettuali, in tempo di assente mecenatismo
(solo il principe può porvi rimedio);
- l’ VIII afferma che l’unica vera nobiltà
è quella dell’anima, che agisce secondo virtù e che
è lontana dagli eccessi (com’è ribadito nella X,
in cui - in particolare - G. ironizza sui falsi beni che gli uomini
son soliti chiedere agli dei);
- la XII esprime la gioia del poeta perché
il suo amico Catullo è scampato da un naufragio; ma oggi
in roma, infestata com'è dai cacciatori d'eredità,
nessuno può capire ed apprezzare la sua felicità disinteressata;
- la XIII consola l’amico di G., Calvino
che, fiducioso, ha prestato denaro che poi non gli è stato
restituito: è un fatto normale oggigiorno, e la punizione
arriva sempre tardi;
- la XIV tratta della responsabilità
dei genitori nell’educazione dei figli, da attuarsi non con l’imposizione,
ma soprattutto tramite l’esempio; al cattivo esempio dei contemporanei,
poi, è decisamente preferibile la moderazione dei buoni tempi
antichi;
- la XV prende spunto da un episodio di
cannibalismo verificatosi in Egitto nel 127 per attaccare superstizione
e fanatismo religiosi;
- la XVI, come detto frammentaria, elenca
infine i privilegi della carriera militare.
Considerazioni.
Satira "necessaria" di un provinciale
contro il "sistema". G. non crede che la sua poesia
possa influire sul comportamento degli uomini, giudicati prede irrimediabili
della corruzione: la sua satira - ispirata in particolare a Lucilio
ed Orazio, ma non aliena dalle suggestioni della diàtriba
cinico-stoica - si limiterà a denunciare, a gridare la sua
protesta rancorosa ed astiosa ("indignatio", placata - apparentemente?
- solo verso la fine, a partire dalla satira X, e soprattutto nelle
XV e XVI), senza coltivare illusioni di riscatto, rifiutando in
toto la connotazione consolatoria del pensiero moralistico tradizionale
romano.
L’invettiva e il sarcasmo di G., allora, sono rivolti
contro tutto il "sistema" (soprattutto nei suoi gangli rappresentativi),
quel sistema che lo ha emarginato (il "democraticismo" del poeta
è così solo apparente) e che gli fa rimpiangere, ed
idealizzare, la tradizione nazionale e repubblicana, coi suoi valori
morali e politici, oramai mortificati. La scelta programmatica del
genere satirico è, quindi, per il poeta una necessità,
dettata dall'ipocrisia e dai vizi che lo circondano (ai suoi tempi,
egli dice francamente, "difficile est saturam non scribere"),
anche se - come già detto - ambienti personaggi e soggetti
sono scelti, con molta cautela, dal periodo precedente.
Nella civiltà che gli sta intorno, G. ha
- ad es. - in orrore tutto ciò che non è "romano",
nella buona tradizione del termine: detesta gli orientali, l'ellenismo,
i liberti arricchiti, tutto ciò che, a suo giudizio, sottrae
ai romani le proprie conquiste. Ma non detesta meno i senatori che
non hanno il coraggio di opporsi al tiranno, o le donne che si fanno
beffe della fedeltà coniugale e rendono la vita del proprio
marito un lungo martirio. In ogni modo, combatte con pari vigore
tanto i vizi (di cui talora pur sembra avvertire il pericoloso fascino)
e le semplici forme di ridicolaggine, la donna che pratica aborti
come la pedante.
Il ruolo "scioccante" della retorica.
Per cui ci si può chiedere fino a che punto queste satire
non siano anzitutto delle "amplificazioni", espressioni volontarie
di estremismo, che non meritano di essere confuse con delle testimonianze
obiettive (anche se, indubbiamente, ci propongono un grande affresco
dell'epoca). Le "Satire" recano difatti, e in modo forte, l'impronta
della retorica: declamatore, G. lo è per i temi che affronta
("luoghi comuni" sui costumi del tempo, la povertà, la ricchezza,
ecc, topoi in cui più evidente è l'influsso
della diàtriba), e più ancora per il tono che lo distingue,
fatto di una virulenza appassionata che si propone di "aggredire"
e "scioccare" il lettore e di un'eloquenza che hanno contribuito
a modificare fortemente l'evoluzione del genere satirico. E alla
violenza dell’ "indignatio" (e alla mostruosità del
mondo che ne è oggetto) s’addice - quasi per contrasto -
un’altezza di tono e una grandiosità di stile che accostano
la satira - rivoluzionariamente - alla tragedia, analogamente "sublime".
G. vero poeta? G., dunque, <<sceglie
un tema da trattare, e si fa trascinare da esso; il flusso talvolta
tumultuoso delle idee non gli fa badare al loro svolgimento e gli
impedisce di seguire un filo di rigoroso ragionamento, giacché
questo si spezza per seguire concetti diversi, sicché si
perde di vista il punto di partenza […]. Perciò [egli] non
è, forse, un grande poeta; eppure l'opera sua non manca di
grandezza. Gli manca invece la levigatezza e la morbidità
del verso, l'arte dei passaggi, che favorisce il nesso dei pensieri;
i suoi stimoli vengono sempre dal di fuori, costringendolo a seguire
con l'immaginazione le cose brutte di questo basso mondo, senza
mai un respiro di aria fresca e pura, senza il riflesso di qualche
cosa di più elevato, che rassereni l'animo del poeta e dei
suoi lettori>> [Terzaghi].
Massime famose. Infine, di G. sono i celeberrimi
detti - passati oramai nel comune odierno buon senso - che vanno
dall’ottimistica "mens sana in corpore sano" agli amari "quis
custodiet ipsos custodes?" e "panem et circences" di
cui si accontenterebbero tanti uomini non desiderosi d’altro, secondo
lui, appunto che di mangiare e divertirsi.
...:::Bukowski:::...
|