Vita.
La formazione e l'ingresso nella corte di Nerone.
Nipote di Seneca (figlio del fratello di questi, Anneo Mela), già
nel 40 L. si trasferisce con la famiglia a Roma, dove compie i suoi
primi studi, sotto la guida di ottimi maestri e del filosofo stoico
Cornuto. Tramite lo zio, entra ben presto nella corte di Nerone,
anzi fra i suoi intimi, e proprio per volontà dell'imperatore
diviene questore prima dell'età minima prevista, entrando
poi a far parte del "collegio degli àuguri". Nel 60, L. recita
le "Laudes" del principe, in occasione delle sue feste (e ciò
gli valse l’incoronazione di poeta), e pubblica i primi 3 libri
della "Pharsalia", che a lui enfaticamente dedica.
La rottura con Nerone, la congiura di Pisone
e la morte. Subentra però una brusca rottura, causata
– secondo la tradizione - dalla gelosia letteraria che Nerone provava
nei suoi confronti o, più probabilmente, dal rovescio politico
di Seneca e dal fatto che L. stesso s’andasse accostando sempre
più alle posizioni della propaganda stoica anticesariana,
e quindi avesse idee troppo marcatamente improntate a un nostalgico
repubblicanesimo (come apparirà evidente dal tono dei successivi
libri del suo capolavoro).
Il nostro autore finì con l'aderire alla
congiura di Pisone e, una volta scoperto il complotto, ricevette
l'ordine di darsi la morte: obbedì stoicamente (aveva meno
di 26 anni), ma non senza aver cercato di salvarsi con delazioni
(si racconta, addirittura, contro la madre!).
Opere.
Opere minori. Tra le opere perdute di L.
ricordiamo un "Iliacon" (componimento in versi sulla guerra
di Troia); un "Catachtonion" (carme sulla discesa negli inferi);
i 10 libri di "Silvae", raccolta di poesie di vario genere;
la tragedia incompleta "Medea"; epigrammi e 14 "fabulae
salticae" (libretti per pantomime).
Il numero e la varietà delle composizioni
di cui si ha notizia indicano un'eccezionale precocità artistica,
unita ad una notevole versatilità; da queste opere, poi,
sembra di poter cogliere una totale adesione ai gusti neroniani:
l' "Iliacon" veniva incontro alla passione del principe per le antichità
troiane, mentre "Silvae" e libretti per pantomime ben si inserivano
nel quadro generale della poesia cortigiana d'intrattenimento, tipica
del tempo.
Bellum civile. Ma il suo capolavoro, e tra
l’altro l’unica sua opera pervenutaci, è ovviamente il poema
epico sulla guerra civile - "Bellum civile" o "Pharsalia"-
in 10 libri, incompiuto (il libro X infatti s'interrompe bruscamente
per la sopravvenuta morte: forse il piano originario dell'opera
prevedeva 12 libri, come quelli dell' "antimodello", l' "Eneide",
per cui vd. oltre).
Contenuti
e caratteri della "Farsaglia".
Argomento. L'ambizioso progetto di L. consisteva
nel tentativo di contrapporre all' "Eneide" un poema epico con radici
profonde nella storia di Roma, e tuttavia non legato a fatti remoti
e leggendari: come detto, l'opera tratta della guerra civile (come
recita il primo titolo) tra Cesare e Pompeo, dal Rubicone fino ad
Alessandria, passando per la decisiva battaglia di Farsàlo
(da cui la "variante" al titolo), dove a scontrarsi non furono solo
due eserciti, quanto piuttosto due opposte concezioni e schieramenti
politici.
L. "anti-Virgilio". Tuttavia,
la polemica "antivirgiliana" non è legata soltanto ad una
mera questione di "poetica", bensì ha profonde e vive motivazioni
scopertamente ideologiche: infatti, se il poema epico, fin allora,
era stato celebrazione solenne delle glorie dello stato romano e
dei suoi eserciti, nelle mani di L. esso diventa invece denuncia
della guerra fratricida, del sovvertimento di tutti i valori, dell'avvento
di un'era d'ingiustizia, profilandosi come un vero e proprio "anti-mito"
di Roma.
Secondo L., insomma, Virgilio avrebbe coperto,
con un velo di mistificazioni, la trasformazione dell'antica repubblica
in tirannide; e come visto, la via che il nostro autore sceglie
per sconfessare il mantovano consiste innanzitutto nel mutare l'oggetto:
allora, non si tratta, per lui, di rielaborare racconti mitici,
ma di esporre, con sostanziale fedeltà (quando la stessa
"verità" non venga sacrificata per fini ideologici), una
storia relativamente recente e dalle nefaste conseguenze, ben documentata
e soprattutto universalmente riconosciuta. Questa scelta di fedeltà
al vero spiega anche la rinuncia agli interventi divini nel poema,
rinuncia che tanto scandalizzò la critica antica (di contro,
sono presenti in esso molte "profezie" - quasi un contraltare di
quelle "positive" contenute nell' "Eneide" - che rivelano la rovina
che attende Roma: si veda, in particolare, quella costituita dalla
negromanzia nel VI libro, con un'evidente posizione-chiave nell'economia
del poema).
L'anticesarismo. Come già accennato,
nella sua prima "versione", l'opera fu tutta tesa a magnificare
il "cesarismo", ma - mutate le circostanze personali e politiche
- anche il "piano" originario mutò, finendo col risolversi,
praticamente e progressivamente, in un'esaltazione dell'antica libertà
repubblicana e in una feroce condanna del regime imperiale (rimarrà
l'elogio iniziale al principe, ma come nota stridente, rispetto
al resto, e quasi parodistica).
I personaggi. Questo motivo "anticesariano"
si riscontra soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi:
in effetti, la "Pharsalia" non ha un vero e proprio protagonista,
ma ruota sostanzialmente attorno alle personalità di Cesare,
Pompeo e Catone. Cesare domina a lungo la scena, con la sua
malefica grandezza e la sua forsennata brama di potere, incarnazione
del "furor" che un'entità ostile, la Fortuna, scatena
contro l'antica potenza di Roma. In alcuni punti, il poeta sembra
quasi soccombere al fascino sinistro del suo personaggio, il quale
in fondo rappresenta il trionfo proprio di quelle forze irrazionali
che nell' "Eneide" venivano dominate e sconfitte: il "furor"
appunto, l'ira e l'impazienza (altro spunto antivirgiliano, quindi);
il dittatore è anche spogliato del suo attributo principale,
la "clementia" verso i vinti, esempio palese - questo - della
suddetta deformazione ideologica operata da L. ai danni della verità
storica.
Alla frenetica energia di Cesare si contrappone,
invece, una relativa passività da parte di Pompeo
(ma questo espediente di caratterizzazione serve forse a limitare,
ideologicamente, le responsabilità di questi nella rovina
di Roma verso la tirannide): Pompeo diviene, nella concezione del
poeta, una sorte di Enea dal destino ineluttabilmente avverso; in
questo senso, la sua figura è l'unica che nello svolgimento
del poema subisce una vera trasformazione psicologica: egli andrà
incontro a una sorta di purificazione, divenendo consapevole della
malvagità dei fati e comprendendo finalmente che la morte,
in nome di una giusta causa, costituisce l'unica via di riscatto
morale.
Questa consapevolezza costituisce, invece, per
Catone un solido possesso fin dalla sua prima apparizione
sulla scena. Lo sfondo filosofico dell'opera è senza dubbio
di natura stoica, ma proprio in questo personaggio si consuma la
crisi dello stoicismo tradizionale, o - meglio - della sua concezione
provvidenzialistica, mortificata in nome dei terribili principi
della "virtù" e della "fortuna" (tra l'altro, stoici anch'essi).
Di fronte alla consapevolezza di un fato che cerca la distruzione
di Roma, dunque, diviene impossibile per Catone l'adesione partecipe
alla volontà del destino; egli matura, piuttosto, la convinzione
che il criterio della giustizia sia ormai da ricercarsi altrove
che nel volere del cielo: ovvero, esso, d'ora in poi, risiederà
unicamente nella coscienza del saggio, che si fa, così, davvero
pari agli dei ("titanismo").
Stile. Già gli antichi mossero al
poema di L. una serie di critiche, in parte tuttora valide: l'uso
e l'abuso delle "sententiae" concettistiche (che ne avvicinerebbero
troppo lo stile a quello oratorio); la rinuncia agli interventi
divini; un ordine della narrazione quasi annalistico (tipico più
delle opere storiche - vedi Nevio ed Ennio - che di quelle poetiche):
numerosi critici moderni hanno poi rilevato, a tal proposito, che
molti passi del poema sono quasi una versificazione letterale di
quelle opere storiche (soprattutto di Livio, una delle sue fonti
preferite), tal che sono giunti a dire - ma evidentemente è
un paradosso - che L. si mostra davvero poeta soltanto in
occasione delle orazioni ch'egli mette in bocca ai suoi personaggi,
orazioni disseminate qua e là nel magmatico contenuto dell'opera.
Famosa, poi, la notazione di Quintiliano, che definì quello
stile "ardente e concitato", riferendosi probabilmente all'incalzante
ritmo narrativo dei periodi, che si susseguono senza freno e lasciano
debordare parti della frase oltre i confini dell'esametro (enjambement).
In effetti, il "Bellum civile" riflette proprio
nello stile - drammatico ed esasperato, "anticlassico", talora piegato
a descrizioni davvero macabre o patetiche (che molto ricordano il
Seneca "tragico") - il proprio tono di cupo pessimismo e di altrettanto
drammatica constatazione del reale; a ciò, si aggiunga il
fatto che l'io del poeta è praticamente onnipresente per
giudicare e spesso condannare in tono indignato.
La presenza di un'ideologia marcatamente politica
e "moralista", dunque, si fa in L. man mano ossessiva, invade il
suo linguaggio e si riduce infine a retorica: una retorica, però,
a ben vedere, che (il più delle volte) non è vana
artificiosità ornamentale, ma ricerca di una propria autenticità
e di una tormentata fedeltà al genuino messaggio del disperato
credo politico ed esistenziale dell'autore stesso.
...:::Bukowski:::...
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