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Marco Anneo Lucano

--- Cordova 39 – Roma 65 d.C. ---

 

Vita.

La formazione e l'ingresso nella corte di Nerone. Nipote di Seneca (figlio del fratello di questi, Anneo Mela), già nel 40 L. si trasferisce con la famiglia a Roma, dove compie i suoi primi studi, sotto la guida di ottimi maestri e del filosofo stoico Cornuto. Tramite lo zio, entra ben presto nella corte di Nerone, anzi fra i suoi intimi, e proprio per volontà dell'imperatore diviene questore prima dell'età minima prevista, entrando poi a far parte del "collegio degli àuguri". Nel 60, L. recita le "Laudes" del principe, in occasione delle sue feste (e ciò gli valse l’incoronazione di poeta), e pubblica i primi 3 libri della "Pharsalia", che a lui enfaticamente dedica.

La rottura con Nerone, la congiura di Pisone e la morte. Subentra però una brusca rottura, causata – secondo la tradizione - dalla gelosia letteraria che Nerone provava nei suoi confronti o, più probabilmente, dal rovescio politico di Seneca e dal fatto che L. stesso s’andasse accostando sempre più alle posizioni della propaganda stoica anticesariana, e quindi avesse idee troppo marcatamente improntate a un nostalgico repubblicanesimo (come apparirà evidente dal tono dei successivi libri del suo capolavoro).

Il nostro autore finì con l'aderire alla congiura di Pisone e, una volta scoperto il complotto, ricevette l'ordine di darsi la morte: obbedì stoicamente (aveva meno di 26 anni), ma non senza aver cercato di salvarsi con delazioni (si racconta, addirittura, contro la madre!).

Opere.

Opere minori. Tra le opere perdute di L. ricordiamo un "Iliacon" (componimento in versi sulla guerra di Troia); un "Catachtonion" (carme sulla discesa negli inferi); i 10 libri di "Silvae", raccolta di poesie di vario genere; la tragedia incompleta "Medea"; epigrammi e 14 "fabulae salticae" (libretti per pantomime).

Il numero e la varietà delle composizioni di cui si ha notizia indicano un'eccezionale precocità artistica, unita ad una notevole versatilità; da queste opere, poi, sembra di poter cogliere una totale adesione ai gusti neroniani: l' "Iliacon" veniva incontro alla passione del principe per le antichità troiane, mentre "Silvae" e libretti per pantomime ben si inserivano nel quadro generale della poesia cortigiana d'intrattenimento, tipica del tempo.

Bellum civile. Ma il suo capolavoro, e tra l’altro l’unica sua opera pervenutaci, è ovviamente il poema epico sulla guerra civile - "Bellum civile" o "Pharsalia"- in 10 libri, incompiuto (il libro X infatti s'interrompe bruscamente per la sopravvenuta morte: forse il piano originario dell'opera prevedeva 12 libri, come quelli dell' "antimodello", l' "Eneide", per cui vd. oltre).

Contenuti e caratteri della "Farsaglia".

Argomento. L'ambizioso progetto di L. consisteva nel tentativo di contrapporre all' "Eneide" un poema epico con radici profonde nella storia di Roma, e tuttavia non legato a fatti remoti e leggendari: come detto, l'opera tratta della guerra civile (come recita il primo titolo) tra Cesare e Pompeo, dal Rubicone fino ad Alessandria, passando per la decisiva battaglia di Farsàlo (da cui la "variante" al titolo), dove a scontrarsi non furono solo due eserciti, quanto piuttosto due opposte concezioni e schieramenti politici.

L. "anti-Virgilio". Tuttavia, la polemica "antivirgiliana" non è legata soltanto ad una mera questione di "poetica", bensì ha profonde e vive motivazioni scopertamente ideologiche: infatti, se il poema epico, fin allora, era stato celebrazione solenne delle glorie dello stato romano e dei suoi eserciti, nelle mani di L. esso diventa invece denuncia della guerra fratricida, del sovvertimento di tutti i valori, dell'avvento di un'era d'ingiustizia, profilandosi come un vero e proprio "anti-mito" di Roma.

Secondo L., insomma, Virgilio avrebbe coperto, con un velo di mistificazioni, la trasformazione dell'antica repubblica in tirannide; e come visto, la via che il nostro autore sceglie per sconfessare il mantovano consiste innanzitutto nel mutare l'oggetto: allora, non si tratta, per lui, di rielaborare racconti mitici, ma di esporre, con sostanziale fedeltà (quando la stessa "verità" non venga sacrificata per fini ideologici), una storia relativamente recente e dalle nefaste conseguenze, ben documentata e soprattutto universalmente riconosciuta. Questa scelta di fedeltà al vero spiega anche la rinuncia agli interventi divini nel poema, rinuncia che tanto scandalizzò la critica antica (di contro, sono presenti in esso molte "profezie" - quasi un contraltare di quelle "positive" contenute nell' "Eneide" - che rivelano la rovina che attende Roma: si veda, in particolare, quella costituita dalla negromanzia nel VI libro, con un'evidente posizione-chiave nell'economia del poema).

L'anticesarismo. Come già accennato, nella sua prima "versione", l'opera fu tutta tesa a magnificare il "cesarismo", ma - mutate le circostanze personali e politiche - anche il "piano" originario mutò, finendo col risolversi, praticamente e progressivamente, in un'esaltazione dell'antica libertà repubblicana e in una feroce condanna del regime imperiale (rimarrà l'elogio iniziale al principe, ma come nota stridente, rispetto al resto, e quasi parodistica).

I personaggi. Questo motivo "anticesariano" si riscontra soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi: in effetti, la "Pharsalia" non ha un vero e proprio protagonista, ma ruota sostanzialmente attorno alle personalità di Cesare, Pompeo e Catone. Cesare domina a lungo la scena, con la sua malefica grandezza e la sua forsennata brama di potere, incarnazione del "furor" che un'entità ostile, la Fortuna, scatena contro l'antica potenza di Roma. In alcuni punti, il poeta sembra quasi soccombere al fascino sinistro del suo personaggio, il quale in fondo rappresenta il trionfo proprio di quelle forze irrazionali che nell' "Eneide" venivano dominate e sconfitte: il "furor" appunto, l'ira e l'impazienza (altro spunto antivirgiliano, quindi); il dittatore è anche spogliato del suo attributo principale, la "clementia" verso i vinti, esempio palese - questo - della suddetta deformazione ideologica operata da L. ai danni della verità storica.

Alla frenetica energia di Cesare si contrappone, invece, una relativa passività da parte di Pompeo (ma questo espediente di caratterizzazione serve forse a limitare, ideologicamente, le responsabilità di questi nella rovina di Roma verso la tirannide): Pompeo diviene, nella concezione del poeta, una sorte di Enea dal destino ineluttabilmente avverso; in questo senso, la sua figura è l'unica che nello svolgimento del poema subisce una vera trasformazione psicologica: egli andrà incontro a una sorta di purificazione, divenendo consapevole della malvagità dei fati e comprendendo finalmente che la morte, in nome di una giusta causa, costituisce l'unica via di riscatto morale.

Questa consapevolezza costituisce, invece, per Catone un solido possesso fin dalla sua prima apparizione sulla scena. Lo sfondo filosofico dell'opera è senza dubbio di natura stoica, ma proprio in questo personaggio si consuma la crisi dello stoicismo tradizionale, o - meglio - della sua concezione provvidenzialistica, mortificata in nome dei terribili principi della "virtù" e della "fortuna" (tra l'altro, stoici anch'essi). Di fronte alla consapevolezza di un fato che cerca la distruzione di Roma, dunque, diviene impossibile per Catone l'adesione partecipe alla volontà del destino; egli matura, piuttosto, la convinzione che il criterio della giustizia sia ormai da ricercarsi altrove che nel volere del cielo: ovvero, esso, d'ora in poi, risiederà unicamente nella coscienza del saggio, che si fa, così, davvero pari agli dei ("titanismo").

Stile. Già gli antichi mossero al poema di L. una serie di critiche, in parte tuttora valide: l'uso e l'abuso delle "sententiae" concettistiche (che ne avvicinerebbero troppo lo stile a quello oratorio); la rinuncia agli interventi divini; un ordine della narrazione quasi annalistico (tipico più delle opere storiche - vedi Nevio ed Ennio - che di quelle poetiche): numerosi critici moderni hanno poi rilevato, a tal proposito, che molti passi del poema sono quasi una versificazione letterale di quelle opere storiche (soprattutto di Livio, una delle sue fonti preferite), tal che sono giunti a dire - ma evidentemente è un paradosso - che L. si mostra davvero poeta soltanto in occasione delle orazioni ch'egli mette in bocca ai suoi personaggi, orazioni disseminate qua e là nel magmatico contenuto dell'opera. Famosa, poi, la notazione di Quintiliano, che definì quello stile "ardente e concitato", riferendosi probabilmente all'incalzante ritmo narrativo dei periodi, che si susseguono senza freno e lasciano debordare parti della frase oltre i confini dell'esametro (enjambement).

In effetti, il "Bellum civile" riflette proprio nello stile - drammatico ed esasperato, "anticlassico", talora piegato a descrizioni davvero macabre o patetiche (che molto ricordano il Seneca "tragico") - il proprio tono di cupo pessimismo e di altrettanto drammatica constatazione del reale; a ciò, si aggiunga il fatto che l'io del poeta è praticamente onnipresente per giudicare e spesso condannare in tono indignato.

La presenza di un'ideologia marcatamente politica e "moralista", dunque, si fa in L. man mano ossessiva, invade il suo linguaggio e si riduce infine a retorica: una retorica, però, a ben vedere, che (il più delle volte) non è vana artificiosità ornamentale, ma ricerca di una propria autenticità e di una tormentata fedeltà al genuino messaggio del disperato credo politico ed esistenziale dell'autore stesso.


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