Vita.
La nascita e gli studi. P. nacque da famiglia
agiata e appartenente all’ordine equestre, ma rimase orfano di padre
all’età di 6 anni e fu allevato con ogni cura dalla madre,
Fulvia Sisenna; fu lei a condurlo a Roma, all’età di 12-13
anni, ad educarsi presso le migliori scuole di grammatica e retorica:
ebbe come maestri Remmio Palèmane e Virginio Flavo, ma a
segnarlo fu l’incontro col severo filosofo stoico Anneo Cornuto
(liberto della famiglia di Seneca e precettore anche di Lucano),
che lo mise in contatto con gli ambienti dell’opposizione senatoria
al principato (P. legò soprattutto con Tràsea Peto).
La formazione interiore. La conversione
alla filosofia lo portò a condurre una vita austera e appartata,
nel culto degli studi e degli affetti familiari. Come detto, P.
fu amorevolmente circondato dalle cure della madre, ma anche di
altre quattro donne: una zia, una sorella, la cugina Arria minore,
moglie di Tràsea Peto, e la figlia di questa, Fannia. Le
premure di costoro furono determinanti, almeno quanto la sua educazione
filosofica, nella formazione della sua personalità. Ebbe
pochi amici: quelli dell’adolescenza, Calpurnio Statura, Lucano,
Cesio Basso, ai quali più tardi si aggiunsero soltanto Servilio
Noniano e i già citati Tràsea Peto e Cornuto (per
lui, P. provò profondissima devozione). Fu proprio Cornuto
ad incoraggiarlo alla poesia.
L’isolamento. La naturale introversione
e delicatezza d’animo, nonché la riservatezza nella quale
aveva scelto di vivere, finirono per rendere P. un isolato, estraneo
alla realtà viva del suo tempo, al punto che mostrò
di non provare alcun interesse per il contemporaneo Seneca, stoico
come lui e che pure (ma tardi) conobbe: tuttavia, è difficile
stabilire se a tale condizione egli sia pervenuto in seguito ad
una scelta per così dire "estetica" ed etica, o se non vi
sia pervenuto anche attraverso un atteggiamento "politico" di rifiuto
della realtà che lo circondava.
La morte. P. morì a soli 28 anni,
per una grave malattia allo stomaco, in una villa lungo la via Appia.
Lasciò in eredità al maestro Cornuto tutta la sua
biblioteca – compresa l’opera intera di Crisippo (700 volumi!) –
nonché una grossa somma di denaro e 10 libbre d’argento lavorato.
Sappiamo che Cornuto trattenne per sé i libri, mentre consegnò
il resto alla madre e alla sorella del poeta.
Opere.
Un’antica biografia di P., premessa nei manoscritti
al testo delle "Satire", che probabilmente va fatta risalire all’erudito
Valerio Probo (I sec.), oltre a fornire le indicazioni fin qui riferite
sulla sua vita, c’informa anche della sua produzione.
Oltre che le "Satire" (che sono, ovviamente,
il suo capolavoro), P. scrisse, da fanciullo, una "pretexta" (dal
titolo "Vescio", che non comprendiamo); quindi, un libro
contenente una narrazione di viaggi ("Hodoeporicon") e un
componimento celebrativo di Arria maggiore, madre della moglie di
Tràsea Peto (quella stessa Arria che volle morire suicida
insieme al marito Cecina Peto).
Alla morte del poeta, Cornuto volle che le operette
minori fossero distrutte, forse per constatate imperfezioni di stile
dovute ad imperizia, forse per evitare che la madre di P. subisse
rappresaglie per il contenuto antimperialista di quella tragedia
e di quei versi in onore di Arria, vittima dell’ottusa avversità
di Nerone.
Satire.
Trama e considerazioni.
Premessa. Le "Satire", in numero di 6, in
esametri dattilici, per un totale di 650 versi, sono precedute da
un proemio di 14 versi "coliambi" (variazioni del trimetro giambico:
nell’autorevole codice di Montpellier, del X sec., questo breve
testo precede la satira I come introduzione a tutta la raccolta;
nelle edizioni moderne, viene posto all’inizio oppure alla fine
della raccolta). Molto probabilmente il poeta aveva un ben più
vasto disegno, ma la morte troncò tutto. Fu così Cornuto
a ritoccare le "Satire" per l’edizione, postuma, curata da Cesio
Basso, e pubblicata nel 62 d.C. . Come ricordano gli scoliasti,
entrambi i revisori provvidero – ad es. – ad eliminare alcuni versi
contenenti caustiche allusioni a Nerone (era proprio il periodo
in cui i rapporti tra Nerone da un lato e Seneca e Lucano dall’altro
erano ormai apertamente ostili). Non solo: alcuni versi della fine
del libro (ovvero, della satira VI) furono espunti, perché
l'opera non apparisse incompiuta.
Contenuto. E’ da premettere che è
molto difficile dare un sommario resoconto dei contenuti dell’opera:
il modo di procedere di P. è quanto di più asistematico
si possa immaginare. I passaggi da un pensiero all’altro risultano,
infatti, spesso bruschi ed ingiustificati dal punto di vista della
logica. Si aggiungono, a questo, altri problemi di interpretazione
del pensiero stesso, quasi sempre espresso in forma tortuosa. Tuttavia,
per quanto ci è possibile, procediamo con ordine.
- I "coliambi" (14 vv) hanno un vero
e proprio valore programmatico: l’autore vi sostiene che il
suo intento è quello di educare moralmente i suoi lettori,
polemizza aspramente contro le mode letterarie del tempo, volte
esclusivamente a scopo di piacere ed intrattenimento, e rivendica
orgogliosamente l’originalità della sua poesia e della
sua ispirazione.
- La I satira (134 vv), strutturata
in forma di dialogo tra l’autore e un immaginario interlocutore,
è di argomento letterario: illustra i vizi deplorevoli
della poesia contemporanea e la degenerazione morale che le
si accompagna, cui il poeta – programmaticamente sulla scia
di Lucilio e, soprattutto, di Orazio - oppone lo sdegno e la
protesta dei propri versi, rivolti ad uomini liberi: P. si augura
di avere anche pochi lettori, ma che certo sapranno intendere
i suoi versi.
- La II (75 vv), inviata all’amico Plozio
Macrino in occasione del suo compleanno, attacca la religiosità
formale ed ipocrita, affermando di contro che agli dèi
bisogna rivolgersi con fede onesta e sincera.
- La III satira (118 vv) biasima un
giovane lavativo e lo esorta ad accostarsi piuttosto alla morale
stoica.
- La IV (52 vv) illustra la necessità
di praticare la norma del "nosce te ipsum", soprattutto per
chi ambisca alla carriera politica (il poeta immagina che questa
accusa, o rimprovero, venga rivolta ad Alcibiade da Socrate),
e bolla chi s’industria a scrutare i difetti altrui senza conoscere
i propri.
- La V (191 vv), dedicata a Cornuto
(profonda e commossa è la riconoscenza dell’allievo nei
confronti del maestro e dell’amico), la più lunga e la
più bella, svolge il tema della libertà secondo
il saggio stoico, ch’è consapevolezza razionale e dominio
delle passioni: di conseguenza, l’unico veramente libero è
il sapiente.
- La VI satira (80 vv, incompiuta),
infine, rivolta sottoforma di lettera a C. Basso, che si trova
in Sabina (mentre l’autore è a godersi la meravigliosa
scogliera ligure di Luni), muove da un elogio dell’amico come
poeta lirico, e progressivamente giunge a trasformarsi in un
componimento soggettivo ed autobiografico: P., mostrandosi grato
per l’educazione ricevuta, afferma di avere raggiunto l’equilibrio
spirituale e deplora sia la prodigalità inconsulta sia
l’avarizia, cui contrappone la "moderazione" ("metriotes") propria
degli stoici.
Considerazioni. P., imbevuto – come detto
- dell’ambiente stoico e lontano dalle esperienze della vita, parla
col tono del moralista intransigente, ma astratto; così,
gli uomini diventano pretesto per una denuncia e per un esame "scientifico"
(esemplato sui manuali morali del tempo) e "fenomenologico" del
vizio (per cui si fa volentieri ricorso ad un lessico, come dire,
"corporale"), col risultato di mettere a fuoco, anziché l’uomo,
il suo comportamento tipizzato (i "mores"): la sua poesia è
dunque anzitutto ispirata da una forte esigenza etica; ma un’etica
distruttiva, o solo marginalmente costruttiva (sono poche, cioè,
le indicazioni del "recte vivere").
Ma non è solo esuberante esercizio di moralismo
filosofico: bisogna riconoscervi la presenza di modelli e autori
esemplari, nel loro intreccio: innanzitutto Orazio; poi Lucrezio,
ma più che altro come "antimodello", nel senso che in P.
il rapporto "maestro-poeta/discepolo-destinatario" si risolve in
una reciproca "incomprensione", che li allontana; e se il nostro
autore si riallaccia alla tradizione della satira e della diatriba
(esasperandola in un "barocchismo" macabro), di contro tale comunicazione
viene a ritagliarsi un nuovo spazio: il monologo della confessione.
E, invero, la passione sincera spesso riscatta la sua arte.
Stile. L’esigenza realistica è all’origine
della scelta di un linguaggio ordinario e paritempo scabro, che
si avvale della tecnica della "iunctura acris" (il nesso urtante
per la sua asprezza sia dal punto di vista fonico che soprattutto
semantico) e quindi si "deforma", condizione necessaria ad esprimere
verità profonde e accecanti: l’oscurità è dunque,
più che altro, una scelta estetica. Come dire che tale oscurità
non è il risultato di una tecnica imperfetta, bensì
una voluta difficoltà, che il poeta offre ai suoi lettori
perché meditino attentamente sul suo messaggio.
Ovviamente, per quanto detto, destinatario dell’opera
non può essere l’uomo (per dir così) comune, ma sarà
un pubblico costituito da gente colta, istruita e anch’essa dotata
della stessa profonda sensibilità del poeta.
Fortuna. Fatto sta, comunque, che le "Satire"
di P. riscossero un enorme successo tra i contemporanei, specialmente
presso Lucano. Il nostro autore fu molto letto e citato anche nei
secoli successivi, studiato dai grammatici per la peculiarità
della lingua e dello stile, e apprezzato dagli autori cristiani
per il carattere spiccatamente moralistico della sua produzione.
La sua fortuna, fiorente lungo tutto il medioevo, declinò
tuttavia in età rinascimentale, oscurata da quella di Orazio
satirico, moralista meno intransigente e scrittore meno duro e oscuro.
...:::Bukowski:::...
|