Vita.
Origini nobili. Molto incerti e lacunosi
sono i dati biografici di T. (a partire già dai suoi "tria
nomina"): nacque probabilmente nella Gallia Narbonese (ma forse
a Terni, o addirittura nella stessa Roma), da una famiglia ricca
e molto influente, di rango equestre. Studiò a Roma (frequentò
probabilmente anche la scuola di Quintiliano), acquistò ben
presto fama come oratore (dovette essere anche un valentissimo avvocato),
e nel 78 sposò la figlia di Gneo Giulio Agricola, statista
e comandante militare.
La fortunata carriera politica e letteraria.
Iniziò la carriera politica sotto Vespasiano e la proseguì
sotto Tito e Domiziano; ma, come Giovenale, poté iniziare
la carriera letteraria solo dopo la morte dell'ultimo, terribile,
esponente flavio (96 d.C.), sotto il cui principato anche il nostro
autore, come altri intellettuali del resto, non dovette vivere momenti
certo tranquilli. Questore poi nell’81-82 e pretore nell'88, T.
fu per qualche anno lontano da Roma, presumibilmente per un incarico
in Gallia o in Germania. Nel 97, sotto Nerva, fu console (anche
se in veste di supplente) e pronunciò un elogio funebre per
Virginio Rufo, il console morto durante l'anno in carica.
Gli ultimi anni profusi negli studi storici.
Abbandonò poi decisamente oratoria e politica (ebbe solo
un governatorato nella provincia d’Asia, nel 112-113), per dedicarsi
totalmente alla ricerca storica. Fu intimo amico, nella vita e negli
studi, di Plinio il Giovane.
Opere.
[Qui, per ragioni espositive, procedo ad una semplice
e sommaria elencazione cronologica delle opere, con annessi i link
dove è possibile reperirle in traduzione; per l'analisi delle
stesse, vd. più avanti, in "contenuti e commenti delle opere"]:
- "Dialogus de oratoribus", dell’ 80 ca
o di poco successivo al 100; d'incerta attribuzione (ma oggi si
propende sull'attribuzione dell'opera a T.), è comunque dedicato
a Fabio Giusto;
- "De Vita Agricolae", pubblicato nel 98;
- "De origine et situ Germanorum" o "Germania",
dello stesso anno?;
- "Historiae", composte tra il 100 e il
110, in 12 o 14 libri di cui però ci sono pervenuti solo
i primi 4 e metà del V;
- "Annales" o "Ab excessu divi Augusti",
del 100-117?, comunque successivi alle "Historie", in 16 o 18 libri,
di cui ci rimane, però, l'opera incompleta: i primi 4 libri,
alcuni frammenti del V e del VI (mancante forse del principio) che
trattano del regno di Tiberio; infine, gli ultimi 6, concernenti
Nerone, ma per lo più lacunosi.
Contenuti
e commenti delle opere.
- Dialogus de oratoribus: le cause della
decadenza dell'oratoria.
Incertezza di paternità e di stesura.
Il "Dialogus de oratoribus" non è probabilmente la prima
opera di T., se pure è davvero sua (come accennato, la paternità
è incerta): la tesi che oggi prevale è che essa sia
stata comunque composta dopo la "Germania" e dopo l' "Agricola".
Il periodare presente in tale opera - e la stessa forma dialogica
- ricorda, infatti, il modello neociceroniano, forbito ma non prolisso,
cui si ispirava l'insegnamento della scuola di Quintiliano: per
questo, c'è chi suppone che l'opera sia stata appunto scritta
quando T. era ancora giovane e legato alle predilezioni classicheggianti
proprie di quella scuola. Anche se questa ipotesi fosse vera, resta
il fatto che l'opera fu pubblicata solo in seguito, dopo la morte
di Domiziano.
La decadenza dell'oratoria. Ambientata nel
75 o nel 77, il "Dialogus" si riallaccia alla tradizione dei dialoghi
ciceroniani su argomenti filosofici e retorici: riferisce di una
discussione avvenuta a casa di Curiazio Materno fra lui stesso,
Marco Apro, Vipstano Messalla e Giulio Secondo. In un primo momento,
si contrappongono i discorsi di Apro e Materno (che forse è
la maschera dietro cui si nasconde lo stesso T.), in difesa - rispettivamente
- dell'eloquenza e della poesia. L'andamento del dibattito subisce
però una svolta con l'arrivo di Messalla, spostandosi sul
tema della decadenza dell'oratoria, la cui causa è individuata
essenzialmente nel deterioramento dell'educazione e, soprattutto,
nel clima di "censura" di parola e di pensiero vigente nella stessa
età imperiale. Il dialogo, infatti, si conclude con il discorso
di Materno, il quale sostiene, più specificamente, che una
grande oratoria forse era possibile solo con la libertà,
o piuttosto con l'anarchia; diviene invece anacronistica e noiosa
- strumento al servizio del servilismo e dello sterile accademismo
culturale, piuttosto che della lotta politica e civile - in una
società (forzatamente) "tranquilla", come quella conseguente
all'instaurazione dell'Impero, caratterizzata dalla degenerazione
sociale, politica e culturale. L'opinione attribuita a Materno,
come detto, rispecchia molto probabilmente il pensiero di T.: ma
egli, nonostante tutto, sente la necessità dell'Impero -
come vedremo del resto nelle opere successive - come unica forza
in grado di salvare lo stato dal caos delle guerre civili, di garantire
insomma la pace, anche se il principato restringe lo spazio per
l'oratore e l'uomo politico.
- Agricola e la sterilità dell'opposizione.
Un'opera composita, tra biografia etnografia
e politica. Verso gli inizi del regno di Traiano, T. approfittò
del ripristino dell'atmosfera di libertà dopo la tirannide
per pubblicare il suo primo opuscolo storico, la sua prima monografia
(ma il carattere di quest'opera "sui generis" è decisamente
ibrido: oscilla tra etnografia, storia, panegirico e biografia,
mentre l'impronta è marcatamente politica), che tramandi
ai posteri la memoria del suocero Giulio Agricola, valente generale
del tempo di Domiziano e conquistatore della Britannia (o meglio,
della parte settentrinale dell'isola). Per il suo tono encomiastico,
lo stile di quest'opera si avvicina a quello delle "laudationes"
funebri, integrate con materiali storici ed etnografici; notevole
è anche l'influenza di Cicerone, soprattutto nella perorazione
e celebrazione finale, che assume toni particolarmente commossi
e di intensa e personale partecipazione.
La trama e il personaggio di Agricola, esempio
di libertà ed onestà politica. Dopo una trattazione
sommaria della vita del protagonista (incentrata esclusivamente
sulla sua figura di uomo pubblico, mentre soltanto accennati, quando
non taciuti, sono gli episodi relativi a vicende private e di vita
quotidiana), T. si sofferma proprio sulla conquista della Britannia,
lasciando un certo spazio alle digressioni geografiche ed etniche.
Egli, tuttavia, non perde mai di vista il proprio personaggio: la
Britannia è soprattutto un campo in cui si dispiega la "virtus"
di Agricola, il teatro delle sue magnifiche imprese. T. mette in
risalto come il suocero avesse saputo servire lo Stato con fedeltà
e onestà, anche sotto un pessimo principe come Domiziano
(si lascia trapelare anche il sospetto che proprio questi avesse
fatto avvelenare, per invidia, il famoso generale): anche nella
morte, tuttavia, Agricola mantiene la sua rettitudine: egli lascia
la vita in silenzio, senza andare in cerca della gloria di un martirio
ostentato. L'esempio di Agricola, insomma, indica come anche sotto
la tirannide sia possibile percorrere la via mediana (la vera virtù
consiste appunto nella "moderazione") fra quelle del martirio e
dell'indecenza.
- Germania: virtù dei barbari e corruzione
dei Romani.
Opuscolo etnico-geografico di "attualità".
Gli interessi etnografici sono al centro della "Germania", non a
caso scritta in quel particolare momento storico-politico, quando
l’agitarsi delle popolazioni ultrarenane indusse Traiano ad affrontare
decisamente il problema germanico: unica testimonianza, comunque,
di una letteratura specificatamente etnografica che a Roma doveva
godere di una certa fortuna.
[A tal proposito, non è certo se T. abbia
ideato quest'opera come una composizione a sé stante o se
l'abbia pensata come una parte, un "excursus", da inserire
successivamente nelle "Historiae": invero, però, la critica
odierna sembra agevolmente acquietarsi sulla prima ipotesi].
I contenuti e le fonti. L'operetta è
divisa in 2 parti: nei primi 27 capitoli è descritta la Germania
in generale, condizioni del suolo e del clima, abitanti, loro costumi,
religioni, leggi, divertimenti, virtù e vizi; la II parte,
invece, contiene un catalogo con le notizie particolari dei diversi
popoli, in ordine geografico, da occidente ad oriente.
Le suddette considerazioni etnogeografiche (sui
popoli e sui luoghi appunto tra Reno e Danubio) non derivano tuttavia
da una visione diretta, ma da fonti scritte, e soprattutto dai "Bella
Germaniae" di Plinio il Vecchio, che aveva prestato servizio nelle
armate del Reno. T. sembra aver seguito la sua fonte con fedeltà,
aggiungendo qua e là pochi particolari per ammodernare l'opera:
ciò nonostante, rimangono alcune discrepanze, poiché
la "Germania" sembra descrivere abbastanza spesso la situazione
come si presentava, invero, prima che gli imperatori flavi avanzassero
oltre il Reno e oltre il Danubio.
Visione "manichea": barbari sani
e Romani corrotti. E' possibile notare (ed anzi non è
rilievo secondario), nell'opuscolo di T., l'esaltazione di una civiltà
ingenua e primordiale, non ancora corrotta dai vizi raffinati di
una civiltà decadente: in questo senso, tutta l'opera sembra
percorsa da una vena implicita di contrapposizione dei barbari,
ricchi di energie sane e fresche, ai romani, contrapposizione evidentemente
frutto di un filtro etico attraverso il quale lo storico scandaglia
osservazioni e descrizioni. E molto probabilmente, al di là
di ogni "idealizzazione", T. intendeva sottolineare la pericolosità
di quel popolo per l'Impero: i Germani potevano davvero rappresentare
una seria minaccia per un sistema politico basato sul servilismo
e sulla corruzione (ovviamente, T. parla anche dei molti difetti
di un popolo che gli appare comunque come essenzialmente barbarico).
Un accorato invito, dunque, a raccogliere le residue forze contro
il potente e minaccioso nemico.
- Historie: i parallelismi della storia.
Dal 69 al 96 d.C. . Il progetto di una
vasta opera storica era presente già nell'Agricola, ma nelle
"Historiae" tale progetto appare modificato: mentre la parte che
ci è rimasta contiene la narrazione degli eventi dal regno
di Galba fino alla rivolta giudaica, l'opera nel suo complesso doveva
estendersi fino al 96, l'anno della morte di Domiziano: nel proemio,
T. afferma di voler trattare durante la vecchiaia dei principati
di Nerva e di Traiano.
Le "Historiae" descrivono quindi un periodo cupo,
sconvolto dalla guerra civile e concluso con la tirannide:
Il I libro parla del breve regno di Galba; seguono
l'uccisione di questo e l'elezione all'Impero di Otone. In Germania
le legioni acclamano però come Imperatore Vitellio. In particolare,
il 69, anno in cui si aprono le "Historiae", vede succedersi 4 imperatori:
questo perché il principe poteva essere eletto anche fuori
da Roma, e la sua forza si basava principalmente sull'appoggio delle
legioni di stanza in paesi più o meno remoti.
Nel II e III libro si parla della lotta tra Otone
e Vitellio, con la sconfitta del primo, e tra Vitellio e Vespasiano.
Quest'ultimo, eletto imperatore in Oriente, lascia il proprio figlio
Tito ad affrontare i giudei e fa dirigere le sue truppe a Roma dove
si era rifugiato Vitellio, che viene ucciso.
Nel IV libro si parla dei tumulti ad opera dei
soldati flaviani, e dei tumulti contro Vespasiano scoppiati in Gallia
e in Germania.
Il V libro parla degli avvenimenti di Germania
e dei primi segni di stanchezza mostrati dai ribelli.
Il significato di "historiae".
Come già si evince dallo stesso titolo, nonché dal
breve sommario proposto qui sopra, T. vuol soddisfare un desiderio
di ricerca e di comprensione dei fatti che va al di là della
pura e semplice raccolta di testimonianze: ciò in piena rispondenza
e fedeltà al significato stesso che il termine "historiae"
rivestiva nella lingua latina, mutuandolo strettamente dal greco
"historìa" (indagine, ricerca storica), ovvero come
esposizione sistematica della storia, sia come racconto storicamente
attestato dei singoli avvenimenti sia come sguardo d'insieme retrospettivo
sul passato.
Parallelismi storici. Così, T. scrive
a distanza di 30 anni dagli avvenimenti del 69, ma la ricostruzione
di quell'anno avveniva nel vivo del dibattito politico che aveva
accompagnato l'ascesa al potere di Traiano. A tal proposito, è
stato notato un certo parallelismo tra questa e gli avvenimenti
del 69: il predecessore di Traiano, Nerva, si era trovato come Galba
ad affrontare un rivolta di pretoriani che faceva traballare le
basi del suo potere, e come Galba aveva designato per "adozione"
un suo successore. L'analogia però si ferma a questo punto:
mentre Galba si era scelto come successore Pisone, un nobile di
antico stampo poco adatto, Nerva aveva invece consolidato il proprio
potere associandosi nel governo Traiano, un capo militare autorevole,
comandante dell'armata della Germania superiore. Con il discorso
di Galba in occasione dell'adozione di Pisone, lo storico ha inteso
mostrare nella figura dell'imperatore il divario fra il modello
di comportamento rigorosamente ispirato al "mos maiorum"
e la reale capacità di dominare e controllare gli avvenimenti.
Solo l'adozione di una figura come quella di Traiano placò
i tumulti fra le legioni e pose fine a ogni rivalità.
La necessità del principato. Come
già detto, T. è convinto che solo il principato sia
in grado di garantire la pace e la fedeltà degli eserciti:
già il proemio delle "Historiae" sottolinea come - dopo la
battaglia di Azio - la concentrazione del potere nelle mani di una
sola persona si rivelò indispensabile, o quantomeno ineluttabile:
ovviamente il principe non dovrà essere uno scellerato tiranno
come Domiziano, né un inetto come Galba; piuttosto, dovrà
invece assommare in sé quelle qualità necessarie per
reggere la compagine imperiale, e contemporaneamente garantire i
residui del prestigio e della dignità del ceto dirigente
senatorio. Quindi, per T. l'unica soluzione sembra consistere nel
principato moderato degli imperatori d'adozione.
Lo stile. Lo stile delle "Historiae" ha
un ritmo vario e veloce, che richiede da parte di T. un lavoro di
condensazione rispetto ai dati forniti dalle fonti: a volte qualcosa
è omesso, ma più spesso T. sa conferire efficacia
drammatica alla propria opera suddividendo il racconto in più
scene. Lo storico è poi molto bravo nella descrizione delle
masse, da cui traspare il timore misto a disprezzo del senatore
per le turbolenze dei soldati e della feccia della capitale.
Tra storiografia tragica ed abilità ritrattistica.
Le "Historiae" raccontano, del resto, per la maggior parte, fatti
di violenza e di ingiustizia: ciò non toglie che T. sappia
tratteggiare in modo abile i caratteri dei propri personaggi, alternando
notazioni brevi a ritratti compiuti come quello di Muciano o di
Otone. Lo storico, ad es., insiste sulla consapevolezza di questo
personaggio, della sua subalternità nei confronti degli strati
inferiori urbani e militari: forse Otone deve proprio a questo servilismo
la sua capacità di incidere nelle cose. Egli è dominato
da una "virtus" inquieta, che all'inizio della sua vicenda
lo porta a deliberare, in un monologo quasi da eroe tragico, una
scalata al potere decisa a non arrestarsi. Ma Otone è un
personaggio in evoluzione e decide così di darsi una morte
gloriosa. Nella sua descrizione T. si affida alla "inconcinnitas",
alla sintassi disarticolata, alle strutture stilistiche slegate
per incidere nel profondo dei personaggi. Egli ama ricorrere a costrutti
irregolari e a frequenti cambi di soggetto per dare movimento alla
narrazione.
- Annales: le radici del principato.
Da Augusto a Nerone. Nemmeno nell'ultima
fase della sua attività T. mantenne il proposito di narrare
la storia dei principati di Nerva e Traiano: anzi egli, negli "Annales",
intraprese il racconto solo della più antica storia del principato,
dalla morte di Augusto (il giudizio su questo primo principe non
può essere che negativo, viste le nefaste conseguenze - anche
se nei tempi lunghi - della sua "rivoluzione" politica) a quella
di Nerone. Come del resto già si arguisce dallo stesso titolo,
continuò il metodo degli annalisti, giacché lo schematismo
dei fatti non urtava con la sua funzione critica, che tendeva (come
abbiamo visto e come ancora vedremo) prevalentemente allo studio
dei caratteri e dei moventi psicologici e morali delle azioni. Probabilmente,
T. intendeva la sua opera anche come un proseguimento di quella
di Livio: in effetti, già il "sottotitolo" presente nei manoscritti
("Ab excessu divi Augusti") sembra ricordare proprio quello
liviano, "Ab urbe condita".
I libri sopravvissuti. Come accennato, degli
"Annales" sono conservati i libri I-IV, un frammento del V e parte
del VI, comprendenti il racconto degli avvenimenti dalla morte di
Augusto (14) a quella di Tiberio (37); inoltre sono conservati i
libri XI-XVI, col racconto dei regni di Claudio e di Nerone.
Ancora sulla necessità del principato.
Negli "Annales" T. sembra mantenere la tesi della necessità
del principato: ma il suo orizzonte sembra essersi notevolmente
incupito, o comunque fatto più amaro (nonostante egli si
trovi a vivere in un secolo definito unanimemente, da storici e
studiosi di età successive, come il "secolo d'oro" dell'impero:
ma che si tratti di una mera, crudele, illusione?). La storia del
principato è, infatti, anche la storia del tramonto della
libertà politica dell'aristocrazia senatoria, anch'essa coinvolta
in un processo di decadenza morale e di corruzione, e sempre più
incapace - per colpe dirette o per cause indirette - di giocare
ancora un ruolo politico significativo. Scarsa simpatia lo storico
presenta anche nei confronti di coloro che scelgono l'opposta via
del martirio, sostanzialmente inutile allo Stato, e continuano a
mettere in scena suicidi filosofici.
T. sembra condurre insomma il lettore attraverso
un territorio umano desolato, senza luce o speranza; ma forse, a
ben vedere, un barlume di speranza rimane: la parte sana dell'élite
politica, infatti, continua a dare il meglio di sé nel governo
delle provincie e nella guida degli eserciti (ad es., l'opera bellica
di Germanico risulta grandiosa rispetto alla meschina politica urbana
di Tiberio). E' proprio su questi uomini che, secondo il nostro
autore, bisognerebbe puntare per la ricostruzione politica e morale
di Roma.
Ancora storiografia tragica. T. alla forte
componente tragica della sua storiografia assegna soprattutto la
funzione di scavare nelle pieghe dei personaggi per sondarli in
profondità e portarne alla luce le ambiguità e i chiaroscuri.
Lo storico, infatti, sa bene <<che né la volontà
degli dèi, né la Provvidenza o la Fatalità
sono cause immediate del divenire storico. Le azioni umane, che
sono le più visibili, le più immediatamente percepibili,
in questo divenire, dipendono dal libero arbitrio>> [P. Grimal].
Le conseguenze, quindi, delle opinioni e soprattutto delle passioni
che scatenano i comportamenti umani ricadono sul divenire storico
e ne determinano il corso: ciò è tanto più
vero, poi, se il protagonista di tale divenire è un principe
investito, per la durata del suo regno, di un potere illimitato.
Per T. è indispensabile, quindi, per comprendere la trama
della storia, analizzare la personalità di colui dal quale
dipende il destino dell'impero. Ecco, così, spiegato come
mai, soprattutto negli "Annales", si perfezioni ulteriormente la
tecnica del ritratto e si accentui la componente "tragica" del racconto.
I "ritratti" degli imperatori.
Ad es., Claudio è rappresentato come un imbelle che, dopo
la morte della prima moglie Messalina, cade nelle mani del potente
liberto Narciso e della seconda moglie Agrippina, che alla fine
fa avvelenare il marito e mette sul trono Nerone, il figlio avuto
da un precedente matrimonio. Quindi, è narrato il regno di
Nerone, nella giovinezza influenzato dalle figure della madre, del
filosofo Seneca e del prefetto del pretorio Burro. Poi acquista
indipendenza e cade sempre più nella pazzia: instaura quindi
un regime da monarca ellenistico e si dedica soprattutto ai giochi
e ai spettacoli. Riesce a far uccidere la madre Agrippina mentre
Seneca si ritira a vita privata. Nerone si abbandona a eccessi di
ogni sorta, ma intorno a Gaio Pisone si coagula un gruppo di congiurati
che si propongono di uccidere il principe. La congiura di Pisone
viene scoperta e repressa.
Ma il vertice dell'arte tacitiana è stato
individuato nel ritratto di Tiberio, del tipo cosiddetto indiretto:
lo storico non dà cioè il ritratto una volta per tutte,
ma fa sì che esso si delinei progressivamente attraverso
una narrazione sottolineata qua e là da osservazioni e commenti.
Un certo spazio è anche dato al ritratto del tipo paradossale:
l'esempio più notevole è la descrizione di Petronio.
Il fascino del personaggio sta proprio nei suoi aspetti contraddittori:
Petronio si è assicurato con l'ignavia la fama che altri
acquistano dopo grandi sforzi, ma la mollezza della sua vita contrasta
con l'energia e la competenza dimostrate quando ha ricoperto importanti
cariche pubbliche. Egli affronta la morte quasi come un'ultima voluttà,
dando contemporaneamente prova di autocontrollo e di fermezza.
Lo stile. Nello stile degli "Annales" si
assiste ad un allontanamento dalla norma e dalla convenzione, ad
una ricerca di straniamento che si esprime nel lessico arcaico e
solenne: è a partire dal libro XIII che quest'involuzione
verso modelli più tradizionali, meno lontani dai dettami
del classicismo, sembra assumere una importante consistenza: forse
il regno di Nerone, abbastanza vicino nel tempo, richiedeva una
trattazione con minore distanziamento solenne.
Comunque, in linea di massima, gli "Annales" risultano
meno eloquenti, più concisi e austeri delle opere precedenti.
Si accentua il gusto della "inconcinnitas", ottenuta soprattutto
grazie alla "variatio", cioè allineando un'espressione
a un'altra che ci si attenderebbe parallela, ed è invece
diversamente strutturata.
Considerazioni
conclusive.
Storico impegnato e partecipe… Come si vede,
l’opera di T. è tutta sostenuta da un’esplicita e tesa passione
etico-politica e dalla con-partecipazione alle sorti della Roma
a lui contemporanea: è il corrosivo e dettagliato bilancio
(soprattutto nelle opere maggiori) del primo secolo di esperienza
monarchica dal punto di vista di un intellettuale, il quale - benché
proclami di voler fare storia in modo imparziale ("sine ira et
studio", ovvero "senza risentimento e senza partigianeria")
- esprime tuttavia, giocoforza, il punto di vista della "sana" opposizione
senatoriale alla pratica imperiale (leitmotiv ne è
l’inconciliabile tensione tra "libertas" e "principatus").
Evidentemente, <<T. non sarebbe mai giunto
alla storia, se al fondo di tutta la sua esperienza politica e forense
non ci fosse stato un forte disinganno>> [F. della Corte]:
quello sulla vera natura e sulle reali conseguenze del principato.
Ecco perché la sua visione della storia
risulta in definitiva, come già detto, fortemente impregnata
dell'elemento morale (anche se non legata a credenze, filosofiche
o religiose, preconcette) ed essenzialmente individualistica (come
tipico della storiografia antica), facendo discendere la dinamica
degli eventi dalla personalità e dalle scelte dei "grandi".
… e grande. Il nostro autore, anche dal
punto di vista artistico, rappresenta forse il momento davvero più
importante della storiografia romana, superiore - volendo - allo
stesso momento liviano. Proprio di contro a Livio, in particolare,
egli - scrittore veramente profondo ed informato sugli avvenimenti
- è storico "contemporaneo", sia nel senso preciso del vocabolo,
sia perché ha saputo rendere contemporanea anche l'età
che non aveva vissuto. Anche il suo stile - volutamente controllato,
rapido e conciso - è un aspetto fondante di questa sua concezione
della storia, <<storia di idee più che storia di fatti>>
[F. della Corte].
La decadenza di Roma. Di quest'ultima affermazione,
è una testimonianza lampante il fatto che T. individui il
"peccato originale" della decadenza di Roma nella svolta anticostituzionale
operata da Augusto, dietro una formale facciata repubblicana, e
denunci le conseguenze nefaste del sistema dinastico, pur senza
rifiutare totalmente l’istituzione – oramai (come più volte
ripetuto) necessaria per l’unità, l’ordine e la pace dell’Impero
– del "principato" stesso.
Le fonti. Ancora aperto è, infine,
il "problema delle fonti" di T.. Alcuni punti sono comunque assodati:
lo storico consultò la documentazione ufficiale ("acta
senatus", più o meno i verbali delle sedute; "acta
diurna", contenenti gli atti del governo e notizie su quanto
avveniva a corte a Roma) ed ebbe inoltre a disposizione raccolte
di discorsi imperiali. Il tutto vagliato con uno "scrupolo" inusuale
tra gli storici antichi. Numerose anche le fonti storiche (Plinio,
Vipsiano Messala, Pluvio Rufo, F. Rustico…) e letterarie (epistolografia,
memorialistica, libellistica ["Exitus illustrium virorum"]…).
Così, dopo il mito dell’utilizzo di un’unica
fonte (almeno per ciascuna sezione delle opere maggiori), si è
sempre più sostenuta piuttosto l’idea di una molteplicità
di fonti, per giunta talune anche di opposta tendenza, ed utilizzate
con una certa libertà.
...:::Bukowski:::...
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