Vita.
Maestro di retorica pagato dal fisco imperiale.
Giunto a Roma nel 68 d.C., ivi fu educato alla scuola di illustri
maestri di eloquenza. Esercitò in Spagna l’insegnamento e
l’avvocatura con notevole successo, finché fu richiamato
a Roma da Galba, nel 68 d.C., dove esercitò l'avvocatura
e (soprattutto) incominciò la sua attività di maestro
di retorica, con tanto successo che nel 78 Vespasiano gli affidò
quella che può ben dirsi la prima cattedra statale in assoluto:
l'imperatore gli accordò un onorario annuo di 100.000 sesterzi,
dando così riconoscimento all'importanza dell'arte retorica
nella formazione della gioventù e soprattutto mostrando (discorso,
questo, valido del resto per tutti i Flavi) d'aver ben capito l'importanza
della retorica come strumento per la formazione del futuro "ceto
dirigente" e per l'adesione delle coscienze (e quindi per la creazione
del consenso).
Ma se la vita pubblica di Q. fu abbastanza agiata,
quella privata fu turbata da gravi sventure domestiche: la morte
della moglie giovanissima e di due figli che da lei aveva avuto.
Fra i suoi numerosi allievi, ebbe Plinio il Giovane e, forse, Tacito;
Domiziano lo incaricò dell’educazione dei suoi nipoti, cosa
che gli valse gli "ornamenta consolatoria". Nell’88 si ritirò
da tutto per darsi completamente agli studi, in specie al suo capolavoro.
Opere.
Opere minori. Di Q. è andato perduto
un trattato "De causis corruptae eloquentiae", così
come le "Artes rethoricae", sorta di dispense. Spurie le
due raccolte di "declamazioni" ("maiores" e "minores"). Dovette,
anche per la professione d'avvocato, scrivere anche delle orazioni,
perdute: un peccato, perché - a sentire i suoi contemporanei
- dovevano essere abbastanza belle e ben fatte.
Institutio oratoria. Ma il suo capolavoro
- dedicato a Vittorio Marcello per l'educazione del figlio Geta
- è ovviamente l’ "Institutio oratoria" (93-96 d.C.),
"La formazione dell'oratore", che compendia l'esperienza di un insegnamento
che durò vent'anni (dal 70 al 90 ca). Il titolo dell'opera
proviene dallo stesso autore, da un'espressione contenuta in una
lettera al suo editore Trifone, e posta a premessa dell'opera. Si
tratta di un vero e proprio manuale sistematico di pedagogia e di
retorica, in 12 libri e pervenutoci integro.
Il I libro fa parte a sé, e tratta di problemi
vari di pedagogia relativi all'istruzione "elementare" (una novità
assoluta nel panorama culturale antico): dalla scelta del maestro,
al modo di insegnare i primi elementi di scrittura e lettura, dalla
questione se sia più utile l'istruzione pubblica o privata,
al modo di riconoscere e invogliare le capacità dei singoli
discepoli, e così via. Il II, invece, chiarisce la didattica
del rètore, consiglia la lettura di autori "optimi",
né troppo antichi né troppo moderni, esorta gli scolari
ad impostare le loro declamazioni attinenti alla vita reale (e che
puntassero comunque alla "sostanza delle cose"), con un linguaggio
semplice ed appropriato. I libri dal III al VII trattano dell’ "inventio"
e della "dispositio", cioè lo studio degli argomenti
da inserire nelle cause e l’arte di distribuirli; i libri dall’VIII
al X, dell’ "elocutio", ovvero della scelta dello stile e
dell’orazione. Il X libro insegna i modi di acquisire la "facilitas",
cioè la disinvoltura nell’espressione (prendendo in esame
gli autori da leggere e da imitare, Q. inserisce qui un famoso excursus
storico-letterario sugli scrittori greci e latini – di uguali meriti
– preziosa testimonianza sui canoni critici dell’antichità:
ma i giudizi hanno un carattere esclusivamente retorico). L’XI libro
parla della "memoria" e dell’ "actio", cioè
dell’arte di tenere a mente i discorsi e di porgerli. Il XII (la
parte "longe gravissimam", "di gran lunga più impegnativa"
dell'opera) presenta, infine, la figura dell’oratore ideale: le
sue qualità morali, i princìpi del suo agire, i criteri
da osservare.
Considerazioni.
Il progetto educativo. L' "Institutio oratoria"
si delinea, dunque, come un programma complessivo di formazione
culturale e morale, scolastica ed intellettuale, che il futuro oratore
deve seguire scrupolosamente, dall’infanzia fino al momento in cui
avrà acquistato qualità e mezzi per affrontare un
uditorio (il termine "institutio" sta ad indicare, propriamente,
"insegnamento, educazione, istruzione", tal che potremmo renderlo
anche col profondo termine greco di "paidèia"): e
ciò, in risposta alla corruzione contemporanea dell’eloquenza,
che Q. vede in temi moralistici, e per la quale addita come rimedi
il risanamento dei costumi e la rifondazione delle scuole. Ma, soprattutto,
propugnò il criterio di ritornare all'antico, alle fonti
della grande eloquenza romana, i cui onesti principi erano stati
sanciti dall'oratoria di Catone e la cui perfezione era stata toccata
da Cicerone. Le fonti dell'opera furono, quasi certamente, la "Retorica"
d'Aristotele e proprio gli scritti retorici dell'Arpinate, anche
se, a differenza di quest'ultimo, egli intende formare non tanto
l'uomo di stato, guida del popolo, ma semplicemente e principalmente
l' "uomo"; e, di conseguenza, mentre le analisi di quello s'incentravano
nell'ambito strettamente letterario e larvatamente "politico", egli
affronta le varie questioni con un'ampiezza tale di orizzonti culturali
e di motivazioni "pedagogiche" - da proporsi decisamente come un
unicum nella storia letteraria latina.
L'utopia dell'oratore "totale".
Pur nella nuova situazione politica, in un impero unitario e pacificato,
Q. ripropone così il modello di oratore di età repubblicana,
di stampo catoniano-ciceroniano; è nel recupero dell’oratoria
per un nuovo spazio di missione civile il vero scopo di Q., in cui
si risolve la problematica dei rapporti fra oratore e principe tracciata
nel XII libro e tacciata – così ingiustamente – di servilismo:
ma non si dimentichi, a tal proposito, che egli doveva effettivamente
molto alla dinastia Flavia (in particolare a Domiziano, addirittura
osannato come sommo poeta) e che poi apparteneva a quel mondo di
"provinciali" che avevano un vero e proprio culto per l'imperatore,
simbolo per loro dell'ordine e del benessere.
Insomma, l'oratore perfetto deve avere, secondo
il nostro autore, una conoscenza a dir poco "enciclopedica" (filosofia,
scienza, diritto, storia), ma dev'essere - oltre che un "tuttologo"
- anche un uomo onesto, "optima sentiens optimeque dicens"
[XII, 1, 25], o - come disse già Catone - "vir bonus dicendi
peritus".
Tuttavia, nel predicare questo ritorno a Cicerone,
Q. non realizzava che ciò esigeva anche il ritorno alle condizioni
di libertà politica di quel tempo: in ciò, sta il
segno più evidente del carattere antistorico (se non "utopistico")
del classicismo vagheggiato dal nostro.
Stile. Nel suo tentativo particolare di
"recupero formale" della retorica, poi, Q. si oppone da un lato
agli eccessi del "Nuovo Stile", cioè della nuova prosa di
tipo senecano (Seneca è uno dei suoi bersagli preferiti)
e allo stile acceso delle declamazioni (che mirano a "movere"
più che a "docere"), dall’altro al troppo scarno gusto
arcaico: e propone anche qui - come altrove - il modello di Cicerone
(modello di sanità di espressione ch’è insieme sintomo
di saldezza di costumi), reinterpretato ai fini di un’ideale equidistanza
appunto fra asciuttezza e ampollosità, ovvero di un equilibrato
contemperamento dei tre stili "subtile", "medium"
e "grande". L’autore, però, sia in teoria, sia soprattutto
nella pratica della sua prosa, testimonia concessioni al nuovo gusto
per l’irregolarità e per il colore vivace.
...:::Bukowski:::...
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